Il 21 aprile si terrà alla Casa Della Poesia di Roma (via Giulio Rocco n.22) il terzo incontro della rassegna Intersezioni (qui l’articolo sul primo incontro e sul progetto; qui sul secondo), curata dall’associazione Zeugma. Strutturato – al pari degli altri appuntamenti – come dialogo tra due voci della poesia contemporanea italiana, il prossimo incontro riguarderà l’opera di Franca Mancinelli e quella di Mattia Tarantino. Proponiamo qui un profilo critico dei due artisti a cura di Alessandro Anil, uno dei tre curatori della rassegna insieme a Sacha Piersanti e Stefano Bottero.
Fotografie di un eterno passaggio – sulla poesia di Franca Mancinelli
Quanto di tutto ciò che guardiamo non supera la soglia dell’attenzione. Elementi del paesaggio quotidianamente attraversati, ciascuno nelle proprie coordinate misteriose, dopo anni assoggettati alla distrazione improvvisamente vengono fermati dalla lente d’ingrandimento. I nostri sensi fissano fotograficamente uno o più particolari. L’istante è rivelatore. Qualcosa emerge dal sottofondo di sensazioni imprecisate. Anche la disposizione del nostro corpo muta, il suo peso passa da una gamba all’altra. È anche possibile che i polpacci si induriscano o un leggero tremito salga dalla schiena, questo dipende dalla particolarità del caso. Magari per descrivere a sua volta questa sensazione dovremmo usare la proiezione di noi stessi traslati in mondo animale.
Questo habitat in cui stiamo lentamente entrando è la poesia di Franca Mancinelli: qui l’obbiettivo della macchina fotografica non è più rivolto a ciò che provoca in lui dei cambiamenti, ma piuttosto agli avvenimenti stessi che sono in atto, piccoli o grandi che siano. Se la fissazione cristallina di qualcosa che sta accadendo, che è in divenire, ha caratterizzato le poesie di Pasta madre (Nino Aragno Editore 2013) in questo ultimo libro, Tutti gli occhi che ho aperto (Marcos y Marcos 2020), è come se il divenire stesso, l’eterna metamorfosi delle cose, non potesse più essere contenuto in questa forma limpida.
Se dovessimo rappresentare il movimento, il susseguirsi degli eventi nella loro continuità avremmo tre opzioni. La prima è sostituire la macchina fotografica con una cinepresa, il che significa adottare un verso fluviale, poematico e portatore egli stesso del divenire delle cose. L’altra, ed è una particolarità della poesia di Mancinelli, è continuare a usare uno sguardo a macchina fotografica, mostrando l’avvenimento attraverso il susseguirsi delle varie fotografie, un po’ com’era nel cinema delle origini. La terza, come potreste già intuire è l’unita dei due elementi contrari, la cui particolare soluzione lascio a voi lo spazio di immaginarla.
Tutti gli occhi che ho aperto
Resta nel sottofondo di questa poesia la traccia di una metamorfosi. Leggendo Tutti gli occhi che ho aperto ci si trova di fronte a una struttura ibrida, in cui trovano spazio piccole prose, elementi esterni: un passaggio sulla neve, gli oggetti quotidiani di una migrazione abbandonati qualche istante precedente al nostro arrivo. Un po’ come descrivere l’accaduto attraverso le fotografie della scena del delitto: “Gli occhi che ho aperto / sono i rami che ho perso.” Come se il corso degli eventi, i grandi movimenti dell’avvicinamento e del distacco, avvenissero negli spazi lasciati vuoti fra una pagina e l’altra, mentre la scrittura non può che rilevarne le tracce dolorose.
FE questi piccoli segni, queste impronte o tracce lasciati ai margini della strada sono il tema nascosto del libro: un dolore non soltanto umano, ma in risonanza con il mondo della natura, del paesaggio e della terra. Per restare in tema, è come se noi vedessimo il negativo delle fotografie, dove la traccia del materiale umano è un mondo animale, a volte minerale, altre vegetale. Non a caso la metafora è spesso composta attraverso la sostituzione degli elementi umani con quelli naturali ed è questo uso invertito che riallaccia la poesia della Mancinelli a quella dei grandi poemi dell’antichità.
Quello di Tutti gli occhi che ho aperto è un mondo poetico che rivela la sua interezza nonostante continui a fare riferimento a una scrittura per frammenti. È attraverso l’importanza degli spazi vuoti che si può cogliere il legame di unità e di ritorno. La sezione centrale, Specchio ricurvo, forse l’apice di questo libro, mette di fronte a noi i piccoli offerenti di bronzo ritrovati sul Monte Titano, saldati nel loro atto di offerta, continuano ad essere un esempio che rimanda a ciò che potrebbe essere l’atto poetico:
“ringraziare o chiedere grazia è un solo gesto. Ho aperto le mani. Vi ho trovato una scodella e un cofanetto di incensi. Li reggevo come una bilancia che oscilla, fino a che si è piegato il braccio sinistro, l’altro è risalito a mezz’aria. I piedi erano affondati, congiunti alle fondamenta della terra.”
In lieve controdanza – l’uva, la pigiatura, il vino e la poesia di Mattia Tarantino
L’intreccio sotterraneo delle vene, le tecniche di sottopassaggio, elemento sottile e necessario dell’esistenza, il sangue, la cui circolazione contraddistingue lo stato di vita dalla morte, tanto che agli inizi delle scienze mediche ciò che scorreva nelle vene fu chiamato gli spiriti vitali, in alcuni casi gli spiriti animali; l’uva, il colore rosso della sua pigiatura, l’ebrezza che ne deriva, simbolo fin dall’antichità di Dioniso: il frutto che è vita, la cui vinificazione è morte, torna nella nostra vita quotidiana per ridarci offuscamento e gioia; sono questi gli elementi che danno vita al nucleo simbolico attraverso cui la poesia di Tarantino, in L’età dell’uva (Giulio Perrone Editore 2021), gioca a unire e separare il mondo dei vivi da quello dei morti.
Non a caso la struttura del libro, anche nei suoi riferimenti extra-testuali, è fondata su una modalità dialogica, dalla dedica all’amico poeta scomparso Gabriele Galloni alla sezione centrale in cui gioca a fare il verso della sua poesia. Utilizzo la parola gioco per indicarne il carattere di divertissement, di deviazione della tensione drammatica, in opposizione alla quale troviamo riferimenti diretti, già nel titolo L’età dell’uva, alla figura di Cristo, alla preghiera, alla sacralità della vita in comunanza con i morti – e in questo fa pensare a un quadro rinascimentale di Marco Pini, Torchio mistico e Cristo in gloria (in copertina) che potrebbe benissimo avere come sottotitolo un passo dall’Esposizione dei salmi di Agostino,“ […] il primo grappolo di uva schiacciato nel torchio è Cristo.” Sono queste due forze contrastanti che attraversano il libro a generare una dichiarazione come “Vorrei conoscere il mondo dei morti”, senza che sia né la discesa di Dante negli inferi, né quella primordiale di Ulisse, né il confronto drammatico del Magma con i sommersi e il passato, ma acqua chiara che scorre lievemente, con delle improvvise stoccate:
[…] solo questa la missione degli amanti,
nuova nella cenere ogni volta
che giochiamo ad allacciarci all’ombelico
la luna, il tabacco e i nostri morti.
L’età dell’uva
Il bagaglio strumentale più importante di questo libro è un sistema di metafore e accostamenti, spesso in opposizione, che attinge da un repertorio che si potrebbe ricondurre al tardo simbolismo. Così appaiono gli amanti con i loro sortilegi, gli angeli neri, i fiori immancabilmente appassiti, il vaticinio sulla tavola imbandita, i morti con i loro giorni di festa, ma anche le qualità che attribuiremmo alla vitalità, all’attimo, il frutto con la sua diaspora polposa, il vino e l’ebbrezza, la madre intenta alla preparazione del pasto. In chiave moderna è un percorso che alcuni poeti della Francia contemporanea, mi riferisco per esempio al opera di Jean-Michel Maulpoix e precedentemente René Char, compiono capovolgendo la tradizione simbolista creando divertimento, gioco spiazzante e rivelatore, in qualche caso sacra profanazione.
Alla fine dei conti la differenza fra i morti e i vivi è che a noi vivi tocca continuare a intrattenerci e del resto se i morti potessero venirci incontro sarebbero benvenuti. O forse è l’inverso: siamo noi ad intrattenere i morti con i nostri discorsi pomposi, le nostre ansie e le nostre preghiere quotidiane.
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In copertina: Marco Pini, Torchio mistico e Cristo in gloria + Rinko kawauchi, senza titolo dalla serie Ametsuchi
Franca Mancinelli è autrice di quattro libri di poesia: Mala kruna (Manni, 2007 -premio opera prima Laudomia Bonanni e Giuseppe Giusti), Pasta madre (con una nota di Milo De Angelis, Nino Aragno, 2013 -premio Alpi Apuane, Carducci, Ceppo-giovani), Libretto di transito (Amos edizioni, 2018), e Tutti gli occhi che ho aperto (Marcos y Marcos, 2020). Una silloge di suoi testi è compresa in Nuovi poeti italiani 6, a cura di Giovanna Rosadini (Einaudi, 2012) e con introduzione di Antonella Anedda, nel Tredicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea, a cura di Franco Buffoni (Marcos y Marcos, 2017). Traduzioni di suoi testi sono apparse su riviste e antologie straniere. Ha partecipato ad alcuni progetti internazionali, tra cui Chair Poet in Residence (Calcutta, 2019) e Refest – Images and Words on Refugee Routes (2018) da cui è nato Taccuino croato, ora in Come tradurre la neve (AnimaMundi edizioni, 2019). Con traduzione inglese di John Taylor sono usciti in Usa per The Bitter Oleander Press, The Little Book of Passage (2018) -traduzione di Libretto di transito– e At an Hour’s Sleep from Here: Poems (2007-2019), una raccolta dei suoi primi due libri con alcuni inediti.
Mattia Tarantino (Napoli, 2001) codirige Inverso – Giornale di poesia e fa parte della redazione di Atelier. Collabora con numerose riviste, in Italia e all’estero, tra cui Buenos Aires Poetry. I suoi versi sono stati tradotti in più di dieci lingue. Ha pubblicato L’età dell’uva (2021), Fiori estinti (2019),Tra l’angelo e la sillaba (2017); tradotto Verso Carcassonne (2022), di Juan Arabia e Poema della fine (2020), di Vasilisk Gnedov.