#Weird 1 – The Cringe & The Eerie, l’inquietante della percezione

Nella ricerca di lay0ut, in quanto “schermo” o “schema” tra noi e il mondo, si inserisce bene lo studio dei media digitali. Già Valerio Cianci si era chiesto in che modo circolassero le immagini, in che modo si stia realizzando un Upgrade della realtà (link qui). Ancora prima, tra i più antichi contenuti della rivista, abbiamo pubblicato due pezzi di Marco Mattei e Alessandro Longo sul concetto di Glitch: Una metafisica – Tra intenzionalità e ansie macchiniche e Un’eticaParliamo di Glitch Feminism (link qui: #1 e #2). Marco Mattei, in questa serie di articoli, analizzerà le categorie di “weird” e di “eerie”, con l’aggiunta del “cringe”.


Guardare una pubblicità può essere un’esperienza profondamente unsettling. 

Una donna passa delicatamente la mano su un letto. Sullo sfondo materassi, lenzuola, cuscini bianchi. Della luce innaturalmente calda colora l’immagine. Una scena perversamente angelica, se non fosse che, fuori campo, una voce roca urla, sbraita, si affanna elencando le caratteristiche dei prodotti. Cerca di convincere gli ascoltatori a telefonare al numero in sovraimpressione. L’inquadratura inizia a muoversi. Si stringe sempre di più, ansimante, intorno al volto dell’attrice, che tenendo lo sguardo fisso in un punto oltre lo schermo, ha gli occhi paralizzati. Aperti. Uno sguardo che non ha nulla di umano e che sfoggia un sorriso più simile a un ghigno. L’inquadratura stringe ancora di più. Non c’è via di scampo. Ho bisogno di respirare. La telecamera continua ad andare incontro al suo volto. Soffoca. Fra qualche secondo la faccia della povera donna sarà schiacciata dall’inquadratura, le ossa del volto fratturate, le orbite esplose. Un intruglio di capelli e sangue. 
Invece, contro ogni aspettativa, quando il volto della donna riempie tutta l’inquadratura, con un sorriso disumano, la telecamera si ferma. Cambio scena. Un altro materasso. 

Non c’è nulla di rassicurante in queste scene prolungate contro ogni misura vitale, queste inquadrature paralizzanti e soffocanti, ansiogene. Eppure le pubblicità sono ovunque, entrano letteralmente dentro le nostre case tramite televisioni, computer e smartphone; punti di accesso – fori – verso un altrove abissale. 

A volte ho pensato che il costante flusso di immagini, di suoni, di testi a cui siamo esposti inconsapevolmente e continuamente sia al pari di un’esperienza psichedelica collettiva che ci è sfuggita di mano, su cui non abbiamo alcun tipo di controllo. Un trip assurdamente inquietante. Leggendo il saggio di Silvia dal Dosso e Noel Nicolaus, contenuto in La Scommessa Psichedelica ho trovato conferma di questa intuizione. Secondo loro, il continuo flusso di informazioni a cui siamo sottoposti nel mondo digitale – scrolling infinito, suoni distorti e perturbanti, filtri che rendono i colori innaturalmente accesi – hanno su di noi letteralmente l’effetto di un’esperienza psichedelica; un’esperienza però che a differenza di quelle indotte con sostanze lisergiche non ha fine, da cui non ci si può tirar fuori. Su TikTok, ad esempio, è inquietantemente popolare un format di video dove gli utenti lamentano della mancanza di colore del mondo reale, mentre affermano di preferire la versione del mondo saturata dai filtri dell’app – o peggio ancora, di come il mondo abbia perso splendore da quando erano giovani. Da un lato, la teoria di Dal Dosso e Nicolaus è neurologicamente vera: come gli psichedelici, l’onnipresenza del content va a influire sul sistema di ricompensa del cervello. I circuiti di rilascio e assorbimento di dopamina (ciò che ci fa provare piacere) vengono costantemente riattivati e assuefatti dall’immensità di stimoli digitali – il design del refresh delle app è molto simile al meccanismo base delle slot machine; lo scrolling infinito fornisce contenuti sempre nuovi impossibili da trovare nel “vecchio” mondo analogico – al punto da riprogrammare le strutture cerebrali e costringerci a rimanere su quei contenuti. Non c’è più possibilità di trovare piacere fuori dall’app, fuori dal content. Questo fenomeno, profondamente neurocapitalista, è stato ribattezzato dopamining, o “estrazione di dopamina”. Qual è il vero bisogno di avere contenuti disponibili a qualsiasi ora del giorno e della notte? Perché non è previsto un momento di pausa? Il nostro consumo di oggetti feticizzati della tecnologia non è più limitato per attenuare i rischi di abuso, ma prescritto incessantemente, fino al punto in cui è sempre più difficile rinunciare alla tentazione. La società si organizza intorno all’addiction by design, la dipendenza prodotta intenzionalmente. Un esempio virtuoso, più unico che raro in questo caso, è Low Tech Magazine, un giornale online i cui server sono alimentati a pannelli solari, e che dunque è possibile trovare offline di tanto in tanto, seguendo le condizioni meteo. Questo periodo di decompressione però, non è solo a fini ecologici, ma potrebbe essere utile anche psicologicamente. Le finzioni, siano esse commerciali, d’intrattenimento o d’informazione mirano esplicitamente al sistema di ricompensa del cervello, allo scopo di renderci dipendenti. Da questo meccanismo si genera l’industria delle fake news, del complottismo, della sgretolazione: e ne siamo tutti vittime. 

Questo discorso non si ferma al pubblicitario ma si espande, e trova la sua più perversa e inquietante rappresentazione, nell’infotainment televisivo – specialmente quello rivolto ad un pubblico molto adulto, non troppo a suo agio con le sottigliezze di alcuni mezzi di comunicazione. Basti pensare alla grottesca storia di Mark Caltagirone e di Pamela Prati. Impossibile da riassumere in poche righe, Mark Caltagirone è un personaggio inventato che avrebbe sedotto e raggirato la showgirl italiana senza mai farsi vedere. Come spiega Wikipedia:

Nel dicembre 2018 Pamela Prati ha dichiarato di essere in procinto di sposare un uomo di nome Mark Caltagirone: la storia della Prati e Caltagirone esplode in un caso mediatico estremamente popolare nella primavera del 2019, mentre nei mesi si moltiplicano i dubbi sulla reale esistenza dell’uomo, inesistenza infine confermata dalla stessa Prati nel maggio di quell’anno; le motivazioni del gesto non sono mai state completamente chiarite.

weird-cringe-eerie-inquietante-percezione

La parte profondamente inquietante di questa finta storia è la quantità di risorse che sono state adibite a coprire il caso. Prati è stata ospite dei maggiori programmi televisivi nazionali e privati, è stata intervistata da quasi tutti i quotidiani a tiratura nazionale ed era onnipresente sul web. Vedere una sua intervista sul caso è un’esperienza straniante: tra ambienti illuminati innaturalmente, pianti e musiche decontestualizzati, giornalisti che incalzano lo scandalo, ci si viene da chiedere se non siamo tutti vittime di un gigantesco Truman Show. Il punto centrale della vicenda è che è tutto finto, la storia è scritta ad hoc, viene dunque da chiedersi: perché utilizzare così tante risorse, perché coprire la storia con così tanta ferocia? Una teoria che menzioni solamente gli impegni contrattuali e di mercato tra enti televisivi ed attori probabilmente non spiegherebbe perché l’intera storia sia stata così inquietante e a volte cringe. Perché raggiungere questo livello di finzione così abissale da sconfinare – a volte – nella theory-fiction, nell’iperstizione landiana e fisheriana. Era un modo per educare una demografica più anziana ai rischi del catfishing? Ma da parte di chi? Ugualmente, si potrebbe indicare il situazionismo marcescente di programmi come Striscia la notizia, e del suo pantheon composto da personaggi stranianti come il Gabibbo e la Gabibba, elementi formalmente inutili ma intorno cui si è costruita una narrazione che ha dell’assurdo. Queste forze di soglia, al limitare tra la propaganda e il fantastico, riescono poi a modellare la psiche e le narrazioni dei suoi consumatori. Cosa è reale? Cosa è intrattenimento?

Ed appunto, i livelli di sconfinamento finzionale raggiunti da questo modo di fare informazione, uniti al costante imperativo dell’hype, del dopamining hanno implicazioni profondamente weird. 

Il teorico inglese Mark Fisher, nel 2017, ha pubblicato un saggio imprescindibile dal titolo The Weird and the Eerie, in cui si occupa proprio di analizzare queste due sfumature oramai onnipresenti dell’inquietante. Traducibile in italiano come il sentimento dello straniante, il weird si ha quando due mondi che non dovrebbero incontrarsi vengono a coesistere: è il sentimento dell’Alterità. Non dell’altro totale — l’altro assoluto non si può incontrare, non si può condividere nulla con un’entità estremamente dissimile da noi. Al contrario, l’altro dello weird è un’entità così simile a noi da essere diversa. In un recente saggio uscito per minimum fax, Gianluca Didino riprende ed espande il lavoro di Fisher su Weird e Eerie. Didino scrive:

[Q]uella particolare categoria dello strano che è il weird si produce quando due entità che ‘non appartengono’ alla stessa dimensione ontologica vengono in contatto […]. Questo incontro con il familiare si configura come un’invasione di ciò che crediamo essere protetto e rassicurante, nel momento in cui l’estraneo si trova a ‘fare irruzione, attraverso spazio e tempo, in un’ambientazione fattualmente familiare’.

Chi ha qualche familiarità con il lavoro di Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, potrebbe notare qualche somiglianza tra il weird e quello che il filosofo austriaco chiama unheimlich, il perturbante. Freud usa queste parole per descriverlo: “Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”.

Mark Fisher ha ben chiaro il paradigma concettuale di Freud quando scrive la propria opera, ed anche Didino. Quest’ultimo, infatti, scrive, sempre in “Essere senza casa”:

Per Freud, il perturbante non è ciò che sconvolge perché arriva in maniera inaspettata, ma che sconvolge perché si manifesta per quello che sapevamo già essere tale in maniera inconscia: lo ‘stranamente familiare’. Quindi il perturbante non ci parla dell’essere fuori casa, all’aperto, in un territorio selvaggio e senza protezione, ma dell’essere a casa e non sentirci a nostro agio. […] La differenza [fra unheimlich e weird, ndr] consiste ‘nel modo di trattare ciò che è strano’, in quanto ‘l’unheimlich di Freud riguarda lo strano all’interno del familiare’ mentre il weird muove ‘da una direzione opposta, permettendoci di osservare l’interno da una prospettiva esterna’. 

In altre parole, il weird apporta al familiare qualcosa che normalmente si trova al di fuori di esso, e che non si riconcilia con il casalingo (neppure come sua negazione). Il weird non ha a che vedere con la casa in quanto tale, ma con ciò che minaccia la casa proveniente dall’esterno. Weird è dunque una sensazione di soglia, è un’interfaccia aperta: la possibilità di un incontro tra due mondi che non dovrebbe succedere. 

Al contrario, l’eerie è costituito da «un fallimento di assenza o un fallimento di presenza». Il sentimento dell’eerie (parola intraducibile in italiano, ma che può esser resa con “inquietante”), sostiene Fisher, riguarda l’inspiegabilità di certe agency: quando ci sono tracce e segni di un’agency che non dovrebbe esserci o mancano segni e tracce di un’agency che c’è, sentiamo che sta succedendo qualcosa di eerie. Il fenomeno eerie per eccellenza, ho argomentato altrove, è quello della coscienza. La coscienza è infatti proprio questo: l’esistenza di un’agency che non dovrebbe esserci, perché come dimostrano molti esperimenti mentali — notoriamente l’argomento zombie di Chalmers, un filosofo australiano — non è nemmeno lontanamente chiaro perché questa carne nuda, questa materia organica umida dovrebbe dare origine a quel mondo di infinite forme sempre più belle che è la nostra vita interiore. La coscienza, quindi, è un fenomeno che non possiamo sperare di spiegare intuitivamente, e che nemmeno comprendiamo appieno. Eppure, quella coscienza siamo noi; la stessa entità che pone il problema. I soggetti sono alieni a loro stessi. La soggettività è inquietante.

Eppure, contro ogni aspettativa, sembrerebbe che per Fisher weird e eerie non incuterebbero soltanto paura e destabilizzazione. Fisher insiste sul fatto che il weird sia «un segnale del fatto che i concetti e i sistemi di riferimento di cui ci siamo serviti in precedenza sono ormai obsoleti», così come sul carattere liberatorio e «non del tutto sgradevole» dell’eerie. Ed è infatti proprio questa rottura con le categorie con cui naturalmente interpretiamo la realtà il punto di forza di queste sensazioni. Lo strano e l’inquietante sono infatti per Fisher, a loro modo, incoraggianti per il lettore: suggerendo uno scambio fra due dimensioni, una empirica e una fantastica, questi due elementi osano dire un altro mondo. Più che orrore e annichilimento, weird e eerie producono «un’interazione, uno scambio, un confronto» Come scrive Lorenzo Marchese su Le parole e le cose:

«Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine».

Weird e eerie interverrebbero così come correttivi del realismo capitalista: quando nella realtà capitalistico-democratica “non c’è alternativa”, l’unica soluzione pensabile è fuori dal mondo, attraverso la violazione del principio di realtà messa in atto nel fantastico. Mazza Galanti legge, parlando del cosiddetto weird italiano, The Weird and the Eerie proprio sotto questa luce dialettica: «il semplice fatto di sapere immaginare un fuori o di suggerire altre realtà possibili e non conformi al modello unico – che si tratti di epistemologie stranianti, entità aliene o involate misticheggianti – diventa un gesto intrinsecamente politico». 
Eppure, è difficile concordare fino in fondo con Mazza Galanti. Più in esteso, si può condividere una visione che attribuisca al weird, anche parzialmente, il ruolo che l’utopia ha avuto fino all’Ottocento (quello di proporre un’alternativa radicale e credibile), solo a patto di forzare molto il concetto di fantastico moderno (che al weird parzialmente si sovrappone).
A mio parere, la visione propugnata da Fisher non è così incoraggiante come sembra e non propone davvero un’alternativa immaginaria allo stato di cose esistente. Invece finisce, non so quanto volontariamente, per negarla. La porta nel muro che per un istante supponiamo essere un valido passaggio per l’altro mondo è un trompe l’oeil: il fantastico non è la sublimazione di una scrittura politica, intrinsecamente dedita a intervenire sulla realtà rifiutandone alcuni presupposti. Non è neppure una declinazione contemporanea dell’utopia. A dimostrazione, da un lato, sta la natura anti-utopica delle categorie di Fisher; dall’altro, sta la fisionomia delle narrazioni dei «possibili laterali» prevalenti nell’immaginario narrativo contemporaneo.

In effetti però, non è chiaro capire come Fisher possa aver ragione su questo. Sebbene infatti lo scardinamento delle strutture regolatrici possa – in linea di principio – essere emancipante (una famosa citazione di Mark Fisher afferma proprio che una politica emancipatrice deve sempre distruggere l’apparenza di un “ordine naturale”, deve rivelare che ciò che viene presentato come necessario e inevitabile è una mera contingenza, così come deve far sembrare raggiungibile ciò che prima era ritenuto impossibile), le forze dello strano e dell’inquietante sono state prevalentemente usate poi, come abbiamo notato, per scavare ancora di più nell’abisso verso cui siamo diretti. L’incontro della realtà con la finzione, la soglia tra informazione e intrattenimento non ha creato le narrazioni utopiche che Fisher voleva, ma ha generato Q, gli estremismi di destra e i vari negazionismi.

In copertina: Bear in the Kitchen, di Emilio Villalba.


Leggi gli articoli della sezione Come è adesso!