Nella ricerca di lay0ut, in quanto “schermo” o “schema” tra noi e il mondo, si inserisce bene lo studio dei media digitali. Già Valerio Cianci si era chiesto in che modo circolassero le immagini, in che modo si stia realizzando un Upgrade della realtà (link qui). Ancora prima, tra i più antichi contenuti della rivista, abbiamo pubblicato due pezzi di Marco Mattei e Alessandro Longo sul concetto di Glitch: Una metafisica – Tra intenzionalità e ansie macchiniche e Un’etica – Parliamo di Glitch Feminism (link qui: #1 e #2). Marco Mattei, in questa serie di articoli, analizzerà le categorie di “weird” e di “eerie”, con l’aggiunta del “cringe”. Leggi la prima parte qui.
L’imbarazzo della percezione
Lo scarto tra le nostre categorie mentali e un mondo che sfugge da esse è la condizione paradigmatica del weird. Eppure, c’è una sensazione molto più evidente che sorge nelle stesse situazioni di incontro – di soglia – tra mondi che non si appartengono. Sto parlando del Cringe. Melissa Dahl, autrice di Cringeworthy, scrive che “I momenti che ci fanno cringiare sono quelli in cui siamo strappati dalla nostra prospettiva e possiamo improvvisamente vederci dal punto di vista di qualcun altro”. È un momento preciso, in cui l’io come soggetto incontra l’io come oggetto, due mondi che naturalmente non si appartengono e che eppure sono essenzialmente la stessa cosa. Questa soglia tra oggetto e soggetto, tra l’io e l’altro, è mediata dalla coscienza – dall’autocoscienza – momento in cui weird e eerie collassano. Ed infatti, l’antropologo Edmund Carpenter, noto per le sue ricerche sull’arte tribale e la visualità, scrivendo di un incontro tra una comunità tribale e uno specchio dice: “Erano paralizzati: dopo la loro prima reazione spaventata – coprendosi la bocca e abbassando la testa – rimasero immobili, fissando le loro immagini, con solo i muscoli dello stomaco che tradivano una grande tensione”. Stavano cringiando. Come il weird, il cringe è un sentimento di soglia – una impossibilità di collocarsi né dall’una né dall’altra parte, l’incontro tra due realtà che non dovrebbero incontrarsi. Infatti, in ogni esperienza cringe c’è del weird e viceversa: il cringe è una reazione a qualcosa di profondamente fuori posto. Cosa ci fa cringiare, infatti? Un provino ad un talent di una persona che non ha minimamente coscienza delle sue capacità, una frase detta completamente fuori contesto che non ha fatto ridere nessuno, un silenzio prolungato quando si parla con una persona appena conosciuta, qualcuno che sta facendo qualcosa di cui dovrebbe vergognarsi eppure non lo fa. In generale, il cringe punta anche verso l’eerie nella misura in cui, in tutte le situazioni cringe c’è da parte di un soggetto una mancata autocoscienza di ciò che sta accadendo – una assenza di un’agency che dovrebbe esserci. Il cringe poi nasconde anche una dimensione autocosciente: tutti i prodotti meta flirtano con un aspetto cringe. Come sostiene inizialmente Sartre in Essere e Nulla, infatti, ci sono modi di coscienza che, pur rimanendo strettamente per sé, cioè caratterizzati da un’autocoscienza pre-riflessiva, indicano tuttavia un tipo molto diverso di struttura ontologica. Più specificamente, egli fa l’affermazione un po’ enigmatica che ci sono modi di coscienza che, sebbene siano miei, mi rivelano tuttavia un essere che è il mio essere senza essere-per-me. Per capire meglio ciò che Sartre ha in mente, consideriamo l’esempio che lui stesso presenta, cioè il sentimento della vergogna. Il fenomenologo Dan Zahavi scrive che “Provare vergogna è – seppur fugacemente – accettare la valutazione dell’altro; è riconoscere che io sono quell’oggetto che l’altro guarda e giudica. Vergognandomi, accetto il giudizio dell’altro. Io sono come l’altro mi vede”. Il passo dalla vergogna – eerie – al cringe è breve.
La televendita di cui si parlava nell’articolo precedente, così come le interviste di Pamela Prati sono in questo senso profondamente cringe, ma per vederle così c’è bisogno di uscire dalla dicotomia tra weird e eerie, di porsi fuori da ogni esterità. Per farlo, bisogna ripartire dal desiderio.
L’esperienza weird ed insieme cringe per eccellenza è infatti quella del desiderio. Il desiderio è quella soglia tramite la quale il mio mondo è spinto al di fuori, verso l’incontro con l’altro. Il desiderio è pura volizione. Il sesso è ovviamente l’ambito più immediato per introdurre il tema del desiderio, ma sicuramente non l’unico. Così, il desiderio si struttura sia come volontà di agire sia come volontà di annullarsi. Di essere oggetto, a nostra volta, del desiderio altrui senza la certezza di una corrispondenza, e in questo slancio spericolato, sbilanciato, verso l’esterno va ricercato il seme per uscire dalle molteplici impasse culturali che ci circondano. Il desiderio inverte le posizioni di potere tra desiderare ed essere desiderati. Nelle parole di Elisa Cuter, in Ripartire dal desiderio (Minimum Fax):
È questo quello che io chiamo desiderio: quell’esperienza che crea un conflitto, una cesura tra soggetto e oggetto. Questo rapporto tra soggetto e oggetto è un rapporto che esiste tra persone, tra persone e cose, e soprattutto all’interno delle persone stesse. È il rapporto che intercorre tra il sé e l’altro – laddove anche il sé e molto spesso un altro per noi. Il desiderio, anzi, è proprio quello che ci svela di non essere un tutto conchiuso, un individuo isolato. È quello che ci fa scoprire che ci sono delle cose che non dipendono da noi, che non possiamo decidere a priori. Cose che semplicemente ci accadono, proprio come ci accade di sentirci attratti da qualcuno, di desiderare qualcosa. Si può sperare che questo conflitto resti confinato esclusivamente all’ambito privato dell’esistenza umana? Sarebbe un obiettivo politico utile? O e piuttosto il fatto che questo conflitto esondi dal sessuale, e si riversi anche sulla società tutta, ad avere un valore politico?
Se infatti nell’incontro weird – o eerie – c’è una paralisi dell’azione, un’impossibilità di conflitto, quando ci si scontra con il cringe – quando la soglia che viene a crearsi tra due mondi esula dalle nostre categorie ma riusciamo a non perdere agency – allora un conflitto può emergere. Un conflitto desiderante, che permette di tirarsi fuori dalla dicotomia tra weird e eerie e non fa soccombere ad una demondificazione di heideggeriana memoria ma indica una precisa direzione verso cui costruire. Se l’esperienza weird è unsettling – nel suo senso etimologico di eliminare un punto di fissaggio, di mettere in movimento -, ma non dà appigli particolari, il cringe è unsettling verso una direzione precisa: non questa. Non si prova mai infatti il cringe senza una chiara idea di come – in teoria – uscirne fuori.
L’arte cringe, come un certo tipo di comicità, per esempio quella di Valerio Lundini, è in questo senso un’esplorazione del weird senza una perdita di agency. Il contrario, sarebbe un’esplorazione horrorifica del weird, che svuota di qualsiasi capacità di azione e lascia cadere nella depressione e nell’ansia.
Psicomachia
Dunque, come scrive lo stesso Mark Fisher in Desiderio Postcapitalista – e in Comunismo Acido – c’è bisogno di esplorare una dimensione creativa del desiderio:
Ciò significa che la politica deve esprimersi secondo la natura essenzialmente inorganica della libido, descritta (tra gli altri) da Freud, i Surrealisti, Lacan, Althusser e Haraway, oltre che Deleuze e Guattari. Il desiderio inorganico è ciò che Lacan e Land chiamano “pulsione di morte”. Non un desiderio della morte, non l’estinzione del desiderio definita da Freud come “principio del Nirvana”, ma una forza attiva di morte, definita dalla tendenza divergente rispetto alla regolazione omeostatica. In quanto creature desideranti, noi stessi siamo i soggetti che interrompono l’equilibrio organico. La novità dell’”Anti-Edipo” e della sua descrizione della storia è proprio l’unione di una descrizione del desiderio inorganico con la nozione Hegelo-Marxista della storia (la storia ha una direzione). Ne consegue che è davvero difficile annullare il dispiegamento di questa macchina storica-desiderante: se appunto il desiderio è una forza storico-macchinica, la sua emergenza altera la stessa “realtà”; sopprimerlo vorrebbe dire ribaltare il corso della storia, o invocare un’amnesia collettiva, o entrambi.
Se le nostre categorie per la realtà vengono meno c’è un aspetto positivo da cui riprendere agency: siamo noi che possiamo costruirne di nuove. La finzione, intesa così, spiega Giorgiomaria Cornelio – specialmente nella sua fruizione artistica – può essere precisamente un’esplorazione di soglie, un terreno di sperimentazione protetta in cui il desiderio – libero di esprimersi – può incontrare qualsivoglia realtà.
La finzione si scopre radicale potenza plasmatrice, pratica che viola una rigidità percettiva che è il risultato di una lettura incancrenita del mondo. Non si tratta di ignorare la realtà – di fuggirla attraverso congegni dell’escapismo -, ma di riconoscerne l’artificio fondativo e di comprendere, come nel caso del diritto romano, che gli scenari fittivi hanno il potere di alterare concretamente ciò che ci sta attorno. La finzione al suo grado massimo vincola il reale, lo forza a generare un piano di attualizzazione: per questo colui che partecipa alla creazione delle immagini influenza attivamente il tessuto storico; ne devia i flussi, le narrazioni; ne manipola la psicomachia.
Assurdismo, surrealismo, horror, incontri tra mondi che chissà quali desideri possono scatenare. Se sperimentare con il weird dunque rischia sempre di scoperchiare abissi politici reazionari – come ad esempio ha fatto Qanon – sperimentare con il cringe significa esplorare la stessa soglia tra mondi, con la differenza che nessuno è attratto dal cringe – nessuno può essere ingannato dal cringe. Sempre Cornelio racconta magistralmente:
Ancora più interessante è l’esperienza di decentramento imposta da una situazione in cui il “nostro” corpo non viene più sentito come tale – come se fosse “qualcos’altro”, incuneandosi in una regione straniera che diventa lo scenario vicario dove condurre una battaglia di riappropriazione o definitivo smarrimento dell’«Io». Quello di Jean-Joseph Surin, gesuita francese vissuto nella prima metà del XVII secolo, rappresenta uno dei casi più emblematici, ed è un fatto singolare che della sua riscoperta si sia occupato un altro gesuita: Michel de Certeau. Nel 1634, Surin venne chiamato a Loudun per partecipare all’esorcismo di Jeanne des Anges, madre superiora di un convento di Orsoline tormentato da una nefasta possessione collettiva, che nello stesso anno aveva portato all’arresto e alla condanna al rogo di padre Urbain Grandier, accusato di aver stretto un patto con il Diavolo. Surin, inorridito dalle pene di Jeanne des Anges, riuscì infine a liberarla, rimanendo però a sua volta vittima di una possessione che lo costringerà ad essere rinchiuso per vent’anni in una “cella” dell’infermeria del collegio gesuita di Bordeaux. Afasia, paralisi, «pene terribili», «mali furiosi»: per Surin, l’universo dell’ordinarietà viene rovesciato da questo invasamento che lo svuota di sé, rimodellando la geografia delle sensazioni: «mi sembrava che il vino fosse acqua», «i miei muscoli erano serrati come chiavistelli», «soffrivo così tanto per un cambio di camicia che talvolta trascorrevo quasi tutta la notte tra sabato e domenica a togliere la camicia e a prendere l’altra, con dolori fortissimi nonostante fosse una cosa abituale per la mia anima», confesserà più tardi Surin. Già qui, in questa sinistra metamorfizzazione, in questa follia che costringe a vedere altrimenti, facciamo prova – insieme a Surin – di come «cose strane e così poco credibili», se prese «per vere fantasie e immaginazioni», possano trascinare in uno spazio realmente alieno nel quale domina un’imperante scordatura del quotidiano – spazio in cui noi “lettori” possiamo trarre a nostra volta formidabili “prospettive depravate” con cui disvelare la falsa naturalezza di quanto è considerato abituale.
Così, accogliendo l’invito fisheriano di sconfinare oltre le nostre categorie, esplorare le soglie – percettive e politiche – può essere un ottimo modo per esplorare desideri, risposte e scenari che chissà quali forze potrebbero scatenare, forze – si spera – in grado di costruire nuovi futuri. Alcuni filosofi e scienziati cognitivi contemporanei – Lambros Malafouris, Kim Sterelny, Daniel Hutto, Tadeusz Zawidzki – credono che la capacità dell’essere umano di essere mosso dalla finzione sia esattamente la caratteristica che l’ha reso la specie dominante – nel bene e nel male – del pianeta. Questo perché il nostro cervello può essere letteralmente modellato (la famosa neuroplasticità) da pratiche finzionali ripetute – ritualizzate – che poi rimangono alla base dei significati sociali. Cosa c’è di più weird della finzione che si fa forza modellatrice della realtà? Di questa soglia strana e inquietante, ma soprattutto imbarazzante (nel suo senso primario di far provare forte disagio) che sta sul limitare tra il vero e il falso. La fruizione della finzione – banalmente nell’arte in senso lato – è dunque il terreno fertile per eccellenza per essere scaraventati fuori dalle categorie con cui interpretiamo un mondo ininterpretabile, e dunque di esplorare il territorio del weird, del cringe, dell’eerie e di sprigionare questa enorme psicomachia per generare nuove realtà – nuove finzioni reali. Chissà che una nuova assiomatica – per dirla con Magia e Tecnica – non passi proprio da qui…
In copertina: Hello Moto, I’m a Simple Man, di Agnese Guido.
Qui un articolo in inglese sull’artista.