Questo breve testo non ha una credibilità universale. Vorrei solo dire due cose.
Il 5 aprile 2024 Camilla scrive in chat un messaggio innocente: questo posto è incredibile, fra due ore esco. Forse ci eravamo persi di vista per poco ma adesso è difficile, considerata la distanza e una memoria a mezzo servizio, capire cosa era cosa fra gli interventi megafonati e l’impegno personale nel tendere l’orecchio. Può essere che io fossi da un lato e lei dall’altro, può essere, sicuramente cercavamo un appuntamento per trovarci di nuovo fra i tendoni del festival. Il 5 aprile 2024 eravamo a Campi Bisenzio (è ormai chiaro che sia questo il centro dell’archivio in via di sviluppo) e alloggiavamo a casa di amici dei suoi genitori, entrambi toscani, entrambi affettuosi per disposizione e carattere. Avevamo scelto di macchinarci e partire verso il festival anche in virtù della nostra assenza l’anno precedente, quello della consacrazione iniziale. Ci sembrava una cosa giusta e perché no, in qualche forma divertente, in qualche forma collettiva, nella dimensione in cui l’unico modo che conoscevamo per verbalizzare un discorso realistico sul lavoro, che non ci sembrasse artefatto o sintomo di una sindrome dell’impostore, era attraverso l’esperienza degli altri, delle altre (lei adesso scrive la sua tesi magistrale e io colleziono tirocini come denti da latte). Entrambi abbiamo un modo di sminuire la nostra partecipazione a discorsi del genere che non fa bene a nessuno.
Quindi la macchina, i soliti autogrill del panino Apollo a settecento euro, a un certo punto anche qualche problema con il parafango anteriore che sfarfalla a colpi di vento, facendo vibrare gli specchietti retrovisori. La strada. Collettivo anche il viaggio, se pensiamo ai pullman e agli altri motori che ci accompagnavano in Toscana. Una percentuale di questi sicuramente ce la siamo portata dietro fino alla fabbrica, o le abbiamo inseguite. Noi, ovviamente, e persone completamente diverse da noi, che è già il primo passo di una condivisione del tragitto più ampio. Se ogni borghese che vuole spezzare la catena è un traditore di classe (della propria, forse anche di quella altrui), e deve quantomeno cambiare i termini dell’equazione per farsi coraggio, allora è normale che ci si debba rassegnare al fatto che quando il parafango comincia a sfarfallare ci si senta fregati dall’alto: la macchina esige denaro. Io che sono io e quindi controllatemi l’ISEE familiare, sono piuttosto borghese, mi sono un po’ vergognato pensando che avrei chiamato mio padre per farmi aiutare (anche se sicuramente gli avrebbe fatto piacere sentirci al telefono). Ma anche questa vergogna è borghese, penso, e quindi vaf-fan-cu-lo avrei dovuto far strisciare il parafango fino a un’officina, facendo scintille – ma per ora è ok e va bene lo stesso, le cose si imparano. (Poi inspiegabilmente il parafango si è sistemato da solo, lasciandoci appesi a una certa indecisione).
Al Festival c’erano i droni spia delle guardie (non s’è ben capito quali, fra le varie) e c’erano tanti miei amici. Ovviamente lay0ut, ovvio che stiamo qua a parlarne per tirare avanti il discorso comune, che è poi l’obiettivo, ma comunque anche altri e altre. È stato bello rendersene conto, sentirsi presenti, salutarsi a mano a mano e trovare gruppi di gente che ti chiedi: ma quindi anche voi?, e la risposta è sì, anche noi, bello stare qui, hai sentito Cartwright? Voi l’avete uccisa Margaret Tatcher o era già sold-out? E poi stai parlando di cazzate e spunta dalla fabbrica una banda in piena regola, tamburi trombe e via dicendo, età media settant’anni bruciati, e tutti gli occhi si spostano dal palco-interventi che si è svuotato verso il capitale umano, la musica suona, ecco i canti operai; tanta gente si mette in cerchio, accenna balli che io, da me, non avrei saputo come pensare. Forse è più semplice sillabare i cori, e questo lo facciamo tutti e tutte con una costanza radicalizzata: non ne conoscevo neanche uno, ma s’impara presto. Questa condanna del rapporto mimetico, del desiderio eccetera, ogni tanto ci regala qualche legame importante.
Incredibile l’importanza reale appunto, non simbolica per una volta, delle nostre voci insieme, e poi più avanti dei nostri corpi in corteo – nostri cioè una comunità ristretta, noi amic*, e poi nostri come vicendevoli sconosciuti che si urtano fra i vicoli della città, e diventano la fiaccola che illumina il cavalcavia su cui stavamo marciando, tutto questo è stato un legame. Io, noi che venivamo da un’altra città e cominciavamo il discorso pensando alla cosa comune della fabbrica come a un voi, un voi vicino, almeno idealmente, ma pur sempre dal lato opposto della scala dei pronomi, siamo stati obbligati dalle migliaia di persone che accendevano fumogeni, portavano i figli (minuscoli!) a camminare per una lotta, o inscenavano testi teatrali autoprodotti e parlavano di cultura, di cultura del lavoro – siamo stati obbligati, dicevo, a renderci conto del nostro corpo, della nostra presenza. Voi che siamo noi, insomma, c’è stato un sentimento che ci ha fatto un bene dell’anima, queste cose raramente le dimentichi. E adesso che ci penso ed è passato un mese e mezzo mi sento un po’ così, felicemente stranito.
Anche questa vena emozionale che non sempre trovo sensata, e che non sempre mi fa stare tranquillo quando scrivo perché non lo so, chi dovrebbe mai interessarsene, e comunque non mi è chiaro quale spazio dovrei darle, è stato un tema che mi ha accompagnato ogni giorno del festival – e un po’ anche dopo: proprio perché penso sia un discorso che ha toccato un “noi”, quindi altre persone, magari privatamente (questo “noi” piacevole e assillante che valore ha?). Me ne rendevo conto mentre le testimonianze dal palco si facevano esplicitamente reali, a volte in maniera così pungente da sentire, di nuovo, un senso di colpa verso l’apocalisse del mondo su cui non saprei mettere il dito, che mi sembra troppo facile attribuire a qualcun altro venuto prima di me, e mentre battevamo le mani mi saliva in gola un magone terrificante. Niente che si potesse stemperare con il mio kit medico da reflusso, semper fidelis, per lo stress avrei potuto ingoiare diciassette Gaviscon o fingere un’allergia (pensa te che complessi), ma avrei lasciato lo stesso qualche lacrima a spasso.
Anche solo a guardarsi attorno, a riconoscere il voi che siamo noi, a partire dall’immediato spazio circostante con Demetrio-Dimitri, Matteo, Beatrice, Eva, e poi ancora Andrea, Francesca, Gabriele, un paio di Camille di cui una che è proprio Camilla, insomma un’imboscata di nomi propri che come fai a staccarli dalle persone, come fai a non relazionarli alle cose che leggi in quei giorni, o che senti cadere e rimbalzare in aria (parlate, intonate) dal microfono su tutte e tutti noi, seduti per terra, o su sedie di plastica.
È questa la pluralità? Io + tu e poi noi + loro? Quando eravamo lì c’era qualcosa che mi è sembrato più facile, rispetto a oggi, rispetto alla forza di distacco che vivo (e non “viviamo”, in questo caso: questa è una mia responsabilità) con eccesso di naturalezza. Più che facile, e al di là della feticizzazione del singolo evento collettivo, c’era qualcosa di realizzabile. Penso che ne abbiamo avuto un esempio molto pratico in presa diretta: non è per niente facile che a fronte di una manomissione elettrica si possa rispondere in tempi brevi, da trasmissione televisiva, ma a un certo punto sono arrivati dei pannelli solari dalla Germania.
Pannelli solari dalla Germania.
Ma che cazzo di senso ha? Cioè, come fai a dire che una cosa del genere è possibile? Invece guarda qua, la gente arroccata su sé stessa che si apre lentamente, una marea che si ritrae e lascia sfilare tra gli applausi la materia prima/seconda/terza che ristabilisce i danni di una violenza di classe.
Nel presidio sindacale, quite literally, qualcuno fa in modo che torni la luce. Abbiamo assistito alla solidarietà in prima persona.
A proposito di “assistere a”. Per una mania dei rapporti che è mia personale, mi piace guardare le persone che guardano persone. Sarà che mi sono stordito il cervello coi film, non lo so, è tutta una dinamica di relazione dello sguardo e delle percezioni altrui che mi dà una soddisfazione fisica, sensoriale. Poi certo, si può dire che sia anche un’attività scopofiliaca, a seconda dei casi, ma in un contesto del genere – plurimo, interrelazionale, aperto, addirittura luogo di amore – è un meccanismo che scopre alcune botole di lettura del grande Altro collettivo che, in quel caso, eravamo noi. Fatto sta che in quei giorni sono andato fuori di testa per questa dinamica, così come mi succede a volte nelle occasioni (rare, mea culpa) in cui vado in manifestazione per questo o quel motivo. Ovvero, guardandomi attorno penso: tutti noi stiamo guardando tutti noi e forse questo scambio si perderà nel nulla, pazienza, ma con quanta sete di noi ci stiamo guardando? Quante persone completamente sconosciute hai guardato negli occhi negli ultimi cinque minuti, a quante hai sorriso apertamente? In corteo, durante gli interventi, nelle pause fra una birra e l’altra (ma anche durante una birra e l’altra), per me è stato importante guardarci a vicenda, o vederci guardare a vicenda l* altr*. Credo lo sia stato (e lo sia in generale) anche per voi che siamo noi. E credo che sia il manifesto più tangibile, reale, di un bisogno collettivo.
Provo a chiudere con tre ultimi appunti in ordine sparso, senza pretese particolari: cose che penso abbiano un qualche tipo di significato, e che in ogni caso collego, come portato esperienziale, a tutto ciò che è stato il festival di aprile.
1. Il dio infausto e beone delle coincidenze ha fatto sì che dovessi scrivere un cortometraggio (pagato, quantomeno), nel primo weekend della mia vita che intendevo dedicare con serietà allo studio e all’avvicinamento alle culture operaie e del lavoro. Una cosa, quella di una committenza del genere, che in altri contesti mi avrebbe provocato gioia, molta gioia, anche per una serie di questioni narcisistiche di auto-rappresentazione, ma che invece mi ha fatto solo venire voglia di strappare le margheritine del parcheggio dov’ero seduto a scrivere, appena dietro la fabbrica, e ficcarmele a piene mani nel culo. E non per trarne piacere. La presa di coscienza sulle tematiche operaie percorre strade imprevedibili e si alimenta degli imprevisti.
2. A fine corteo ci siamo incastrati (lay0ut e altre persone) in un ristorante cinese pienissimo, che ci ha avviluppati per un paio d’ore in uno strano digiuno intermittente. Fra le varie conversazioni che nascono attorno ai tavoli, Carmen paragona una toppa rammendata sulla maglietta di Camilla alla vesica piscis, cioè a un’iconografia cristiana (quella della “mandorla mistica”) all’interno della quale si inscrive normalmente la figura del Cristo o della Vergine. Un’iconografia che, a rischio di blasfemia, possiamo definire vaginoforme – e vaginoforme era la toppa-Madonna che Camilla portava sul petto. Da quel giorno la vesica piscis mi tormenta, la vedo ovunque. E Camilla, andando a colloquio dalla sua relatrice di laurea, nota nella targhetta di un’aula vicina alla sua il nome proprio di Carmen. Full circle.
3. Durante una delle presentazioni sul palco della GKN, in un momento in cui sono prossimo alla commozione (borghese, appunto), noto che Andrea sta scrivendo su un taccuino. Andrea è un amico che viene da una famiglia della piccola borghesia pugliese, e adesso che vive a Roma, dopo aver lottato coi libri, lavora part-time in un magazzino a Ciampino – e lo fa con coscienza di causa, manifestando apertamente nei confronti dei suoi superiori le necessità di rispettare i diritti che, in quanto lavoratore, vuole che vengano tenuti da conto. È una persona che rispetto molto. Trascrivo qui una mezza pagina dei suoi appunti scritti in quel momento: sono frasi estrapolate dal contesto degli interventi pubblici miste a pensieri autonomi, da prendere in forma spuria e larga, e onestamente non saprei più stabilire cosa è cosa (separare la trascrizione dalla riflessione). Mi sembra però che in queste parole ci sia qualcosa di importante.
E tra i morti, gli adulti hanno vissuto di famiglia, noi vivremo di […].
Non posso, davvero, prendermi la responsabilità di nessuno di voi.
Un tempo gli operai e i giovani rivendicavano, diffondevano, morivano perché difendevano strettamente il loro futuro, il sogno non era altrove, il sogno non c’era. Un uomo puntava alla fabbrica: lavoro-famiglia. La posizione sociale era determinante, la scalata il mito di pochi, una roba da film. Oggi buona parte della narrazione sull’ingiustizia sociale basa il [proprio] fondamento sulla mancata possibilità di accedere all’altrove: al di là delle fabbriche, al di là del lavoro povero.
Sposare la lotta per noi non è un vero prenderne parte, noi che funzioniamo per estremi, noi che allo stesso tempo rappresentiamo la cloaca, la adottiamo, generazione che ripudia i figli. Ci mettiamo a carico anche questo. Sta tutto nel progressismo di sinistra.
Io chi sono? Da dove vieni? A chi appartieni?
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