Presentiamo qui un breve estratto da La vita intensa: Un’ossessione moderna (2022) di Tristan Garcia appena pubblicato da Nottetempo nella traduzione di Raffaele Alberto Ventura. Lo introduce brevemente Alberto Parisi.
Introduzione critica
Non nasconderò che l’aggettivo “intenso” sia una delle parole che più spesso mi trovo a ripetere. Gli anni passati in Inghilterra prima e negli Stati Uniti poi sono probabilmente da incolpare. Mi rendo conto che ormai mi è sufficiente sfoderare l’aggettivo “intenso” per comunicare, almeno nella mia mente, tutta una serie di sensazioni che rimandano a un tipo specifico e allo stesso tempo generalissimo di esperienza: un’esperienza che mi ha lasciato stanco, ma stranamente soddisfatto; che mi ha tramortito e le cui conseguenze porto ancora con me, ma che aveva un suo senso; che scompiglia, ma che vorrei ripetere. Ora che ci penso, ho usato la parola intenso proprio la scorsa settimana per descrivere due esperienze estetiche completamente diverse, almeno teoricamente: da una parte, l’ho usata dopo essere andato a vedere all’Opera Bastille di Parigi l’Elektra di Richard Strauss, un’opera lirica del 1909 famosa per i suoi apici di intensità e infatti basata sul libretto del poeta modernista viennese Hugo von Hofmannsthal; dall’altra, non ho potuto non utilizzarla dopo aver trangugiato quasi senza sosta sette episodi della nuova stagione di Stranger Things, appena uscita su Netflix. Entrambe sono state per me due esperienze incredibilmente intense.
In un certo senso è proprio questa continuità e pervasività ad essere al centro del nuovo libro di Tristan Garcia. Nuovo relativamente: è un testo del 2016 che appare in Italiano solo adesso ma edito da Nottetempo e nella traduzione autorevole di Raffaele Alberto Ventura (Italiano a Parigi, conosciuto per la sua Trilogia del collasso e un tempo per la gestione della pagina social Eschaton). Tra le due esperienze estetiche che ho appena menzionato, l’opera lirica modernista da una parte e la massima espressione dell’intrattenimento seriale contemporaneo, non c’è molta differenza – sembra dire Garcia – entrambe tendono a creare più intensità possibile.
Secondo Garcia, viviamo ancora nello stesso modernismo di inizio 900, anche quest’ultimo la conclusione di un processo durato un altro centinaio di anni che, a partire dall’epoca dei lumi, ha fatto dell’elettricità e dell’intensità elettrica, della tensione, potremmo dire, il paradigma della vita moderna. Essere moderni significa essere tesi, o volerlo essere, o doverlo essere, un imperativo allo stesso tempo estetico ed etico, Garcia ci tiene a precisare.
Il libro, che a livello filosofico si tiene sulla linea, non così sottile, tra il divulgativo e lo specialistico, citando e parafrasando testi anche complessi (da Aristotele a Newton, da Kant a Deleuze) ma senza fornire note o bibliografia, si inscrive in una linea di lavori che da trent’anni a questa parte ha fatto della filosofia post-moderna o post-strutturalista, e delle sue fonti, il proprio nemico principale. In questo caso specifico, ma è spesso così, la nemesi in questione è Deleuze, a cui in altri contesti si aggiungono Foucault e Derrida, e le fonti incriminate da cui la sua filosofia post-moderna sarebbe emersa sono Nietzsche, Bergson e Whitehead. Tra i testi più importanti di questa linea critica ci sono l’ormai celebre Deleuze: Il clamore dell’essere (Einaudi, 1997) di Alain Badiou, a cui Garcia si è spesso ispirato, e Organi senza corpi. Deleuze e le sue implicazioni di Žižek (La scuola di Pitagora, 2012): il primo argomenta che la filosofia delle intensità multiple di Deleuze, che voleva essere, nietzscheanemente, un capovolgimento del Platonismo, è in realtà una riconferma della metafisica platonica attraverso l’univocità dell’essere; il secondo, Žižek, è stato invece uno dei primi ad affermare che la teoria delle intensità non fosse così diversa dalla logica della pubblicità, del godimento e del consumo tardo capitalisti.
La conclusione dei primi cinque capitoli di Garcia è questa: viviamo ancora nell’epoca dell’elettricità. Seguiamo ancora oggi, volenti o nolenti, l’imperativo categorico alla tensione. Anche quelle filosofie del secondo Novecento che dicevano di essere venute a liberarci dal passato e allo stesso tempo dalle logiche tardocapitaliste, non hanno fatto altro che offrirci un’apoteosi del mito elettrico, dell’intensità. Eppure, Garcia vede anche un cambiamento in atto. L’ultimo capitolo ci descrive un passaggio di paradigma che potrebbe mettere o ha già messo l’elettricità da parte. Davanti a noi si para il nuovo mito, quello dell’elettronica, delle informazioni, della documedialità, direbbe Maurizio Ferraris. Il mondo digitale sta per rendere l’elettricità e la sua tensione inerti o quantomeno ininfluenti.
Ma possiamo effettivamente dichiarare l’intensità totalmente studiata e così conclusasi? Ci viene forse da chiederci cosa ne sia stato dell’intensità prima dell’elettricità, di quel sentimento di noi stessi e della nostra sensazione di vita – come Garcia spesso definisce l’intensità – prima che questa immagine se ne impadronisse. Forse che altre immagini avevano con questa a che fare, altri significati ne popolavano il fondale? Vengono in mente testi come Il tatto interno di Daniel Heller-Roazen (Quodlibet, 2013), che di quella sensazione interna del vivere aveva cercato di risvegliare le origini europee. Ma inesplorato resta, ancora una volta, quel campo semantico infinito che lega questi studi a quello qui in questione così come a molti altri non menzionati: tra la tensione, l’intensità, l’attenzione e l’intenzione, qualcosa di fondamentale per la cultura europea passata e imminente fa la sua apparizione – come Garcia ha mostrato per l’epoca moderna – eppure da dove venga e dove stia andando ancora forse ci sfugge.
Alberto Parisi
Da La vita intensa di Tristan Garcia
Capitolo 1. Un’immagine
Quello che l’elettricità fa al pensiero
[…]
Lo stesso fluido scorre nell’ambra, nella tempesta e nei nostri nervi
Sappiamo bene quanto la civiltà materiale deve all’elettricità, ma tendiamo a non riflettere abbastanza su ciò che l’elettricità ha fatto al pensiero e alla morale umani.
Il suo effetto più importante, non necessariamente il più visibile, sta nell’aver suggerito la possibilità di riunificare ciò che i nostri saperi avevano separato. La materia, la vita e il pensiero, in quanto similmente attraversati dalla corrente elettrica, potevano essere di nuovo concepiti come elementi di un medesimo spettro, e non come una successione di stati o di regni rigidamente distinti. Da molto tempo si sapeva che la natura inorganica è impregnata di elettricità, i cui sintomi visibili erano l’ambra e il fulmine; ma ora si scopriva che ogni corpo sensibile era nervoso, e che l’informazione riguardo alla sensibilità, al dolore e al piacere veniva comunicata nell’organismo attraverso la circolazione di questo stesso fluido sottile, l’elettricità, che scaturiva dallo strofinamento dell’ambra oppure si manifestava durante le tempeste. Sviluppando le scoperte di La Caze, l’articolo “Génération” dell’Encyclopédie esamina l’ipotesi che esista una “materia elettrica” nascosta, che opera nel seme maschile e nella matrice femminile. Sostiene Marat, nelle sue ricerche fisiche sull’elettricità, che questa energia elettrica è un “agente generale” della natura: è la forza che la percorre, la mette in movimento e si diffonde in tutto ciò che vibra, soffre e sente.
Vivere, insomma, significa essere elettrico.
Fin dagli anni ottanta del Settecento, Bertholon evoca l’idea di un’“elettricità animale” e di un’“elettricità umana”; ma è l’opuscolo di Luigi Galvani, De viribus electricitatis in motu musculari commentarius, pubblicato nel 1791, che diffonde in tutta l’Europa colta (fu un considerevole successo editoriale) l’ipotesi rivoluzionaria della natura elettrica delle cause del movimento muscolare e nervoso negli organismi animali. Galvani, usando delle rane come cavie, oppone la nuova elettricità alla vecchia ipotesi degli spiriti animali, generalmente ammessa ed enunciata in particolare da Haller e dagli halleristi, che studiavano all’epoca “l’irritabilità fisiologica”.
L’idea dell’elettricità come forza vitale non resisterà a lungo all’analisi. Pur convertito alle idee di Galvani, Alessandro Volta si chiede se la rana non sia semplicemente una specie di bottiglia di Leida e se non si possa aggiungere o sottrarre l’elettricità prodotta artificialmente con un condensatore a quella, muscolare e nervosa, dell’animale. I suoi esperimenti lo portano presto a opporre a Galvani la teoria del potere elettromotore dei metalli. La realizzazione della sua celebre pila, che apre la via a una nuova fonte di energia – ovvero l’energia chimica prodotta dal contatto tra i metalli – gli garantisce una solida credibilità: l’elettricità, secondo questa concezione, è un fenomeno del mondo inorganico, che effettivamente viene trasmesso al vivente, senza tuttavia essere un principio connaturato agli stessi organismi sensibili. L’elettricità non è l’essenza della vita ma un’energia condivisa dall’organico e dall’inorganico. Che è precisamente quello in cui crediamo oggi: di certo non la consideriamo come una forza vitale. E tuttavia, emendando le debolezze del mesmerismo esoterico, il galvanismo era comunque riuscito a imprimere nello spirito europeo una concezione fantasmatica, quella di un’elettricità biologica. Forse, si sperava, una nuova armonia tra vita e materia era possibile.
L’elettricità animale – o il magnetismo animale, insomma la scoperta della natura elettrica di ciò che percorre i nervi degli organismi provvisti di sensibilità su fino al cervello – come un cavallo di Troia ha introdotto l’intensità nella vita e nel pensiero. In quanto sensibile la vita è nervosa, e in quanto nervosa, è elettrica. Ugualmente nervoso è il pensiero, in quanto cerebrale, e dunque anch’esso elettrico. Presto si imparerà a rilevare i differenziali di potenza elettrica sulla superficie del cranio umano, e attraverso l’elettroencefalogramma si offrirà per la prima volta un accesso alla rappresentazione visiva dell’attività cerebrale.
La scoperta affascinata dell’elettricità non ha soltanto condizionato lo sviluppo moderno delle tecniche e dei modi di produzione e di riproduzione; ha anche trasformato il pensiero più astratto rivelandogli quanto ha in comune con la vita sensibile, e quanto la vita sensibile ha in comune con la materia inerte. “Elettricità” era il nome di questa corrente naturale – reale ma anche proiezione immaginifica – capace di spiegare contemporaneamente il magnetismo, la vita sensibile e il funzionamento concreto della mente, attraverso lo scorrere di un fluido o di un fuoco naturale.
Misurando la corrente
La corrente elettrica si è inizialmente manifestata all’immaginazione in forma di fluido occulto, parzialmente sottratto alla percezione dell’uomo: una sorta di torrente vivace, intangibile e invisibile, che scorre segretamente al cuore della materia e della vita, rivelando le sue qualità latenti, la sua forza e la sua potenza soltanto a patto di deviarne il corso, a nostro vantaggio, con dei dispositivi sperimentali – proprio come l’uomo primitivo aveva imparato a manipolare il flusso dell’acqua.
Per secoli lo scorrimento dell’acqua è servito come immagine per eccellenza del divenire; per secoli si è immaginato il corso delle cose come se fossero trascinate dalla corrente di un fiume: è il fiume di Eraclito (“Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume”) ma anche quello di Lao Zi, sulla riva del quale il saggio vede galleggiare il cadavere del proprio nemico; è il fiume in piena della fortuna, secondo la metafora di Machiavelli, che può essere orientato con una diga ma che riesce sempre ad aggirarla, ed è ugualmente l’iconografia della cascata, opposta alla roccia impassibile, nella pittura cinese della dinastia Song.
Tra tutte le cose visibili su scala umana, l’acqua era l’elemento che meglio manifestava l’impermanenza, il passaggio e contemporaneamente la potenza del divenire. Questa potenza dipendeva dalla capacità dell’acqua di assumere tutte le forme, e vincere ogni resistenza con la sua fluidità.
Così, quando si dovette trovare un modo di rappresentare l’elettricità, della quale non si scorgeva altro che alcuni effetti spettacolari, l’immagine dell’acqua si è imposta da sé. L’elettricità è diventata una specie di acqua invisibile, annidata al cuore stesso della materia e per questo inizialmente definita appunto “fluido sottile”: un’acqua di fuoco insomma, che unisce le caratteristiche della prima (movimento e fluidità) con quelle del secondo (calore e luce) al fine di formare un’energia inedita. E poiché l’immagine dell’acqua che scorre aveva sempre portato con sé le rappresentazioni del divenire, del cambiamento perpetuo, la corrente elettrica ha ereditato per forza di cose questa connotazione ed è diventata, senza che ce ne rendessimo conto, un nuovo simbolo del divenire universale. Lo è diventata indirettamente, per via di una delle sue prime caratteristiche misurabili, paragonata a quella dell’acqua dei fiumi: l’intensità.
Sappiamo che fin dai primi anni d’interesse per il magnetismo fu la “scienza madre” dell’idrologia a servire come modello per la concezione e la misurazione dei fluidi imponderabili e dei semi-fluidi. L’elettricità era il flusso di qualche cosa che, sebbene invisibile, contrariamente all’acqua, si comportava in modo simile a quest’ultima. E allora ci si interrogava, come in idrologia, sulla conservazione dell’energia di questo flusso. Ci si interrogava anche sugli effetti di idiosincrasia, ovvero sulla conduzione e sulla resistenza al flusso, in funzione della natura dell’ambiente. Misurando con sempre più precisione la carica, la spinta, il consumo o il flusso, il potenziale, le polarità e la tensione di questa corrente, si è ancora conservata la metafora idraulica: quello che si è deciso di chiamare “intensità elettrica” non era nulla di granché diverso, all’apparenza, del flusso della corrente di un fiume. Proprio come il calcolo della distanza tra il punto più elevato e il punto più basso di un corso d’acqua, lungo un segmento di larghezza e profondità identiche, permette idealmente di calcolare la quantità di acqua che circola, similmente la differenza di carica tra le due estremità di un circuito permette di fare una stima della quantità di cariche positive o negative che circolano in un punto dato, in un tempo dato. Per convenzione, si sceglie di definire in questo modo il flusso di carica elettrica attraverso una superficie data, per esempio lungo la sezione di un filo elettrico: l’intensità della corrente, misurata in ampere, è uguale al differenziale di carica elettrica corrispondente al differenziale di tempo, sapendo che un ampere corrisponde a un flusso di carica di un coulomb per secondo, ovvero al passaggio, in un punto dato, di 6,24150962915265 × 1018 cariche elementari in un solo secondo.
Con “intensità” si intende dunque ormai una doppia differenza: una differenza di carica in una differenza di tempo. Una simile concezione implica che non vi sia intensità se non nel tempo: ogni intensità è una variazione tra due momenti. L’intensità non è istantanea. Questa definizione indica anche che quello che la variazione temporale misura è una seconda variazione: la variazione di una qualità occulta, non direttamente accessibile alla percezione umana, della materia – ovvero la sua carica. L’intensità elettrica non designava più soltanto una scossa, una folgorazione naturale, ma anche la misura quantificabile di questa folgorazione.
L’immagine di un’idea
La scoperta e l’esplorazione del fenomeno elettrico avevano impresso alla materia il sogno e l’immagine di qualcosa di irriducibilmente intenso iscritto nelle cose stesse, di un’energia connaturata alla materia, come un agente universale della vita; ma l’idea di una pura intensità intravista al momento della rivelazione della corrente elettrica, nelle prime esperienze elettriche del Settecento, ha presto lasciato posto a una scienza capace di misurare con esattezza la corrente elettrica e di ridurre la sua potenza magica a un flusso quantificabile di particelle in un tempo dato.
La corrente elettrica ha deluso le speranze iniziali secondo cui avrebbe potuto spiegare tutto e nello stesso tempo restare inspiegabile: spiegata invece in termini di quantità, analizzata, decomposta, via via che acquisiva una realtà fisica perdeva idealità metafisica.
L’idea dell’elettricità come agente universale della natura, come principio di spiegazione del divenire e della vita, come motore essenziale di tutto quello che vive, di tutto quello che sente e soffre, era destinata a deludere, come ogni idea di un principio energetico metafisico di spiegazione del mondo, dal momento in cui la si sarebbe confrontata con la sua più prosaica traslitterazione materiale. Come il qì, il prāṇa, il soffio vitale, lo pneuma, come tutte le anime del mondo, il fluido sottile dell’elettricità falliva nel tentativo di sussistere sia come idea metafisica che come entità fisica. Diventando pienamente la seconda, doveva cessare di essere la prima. E poiché l’intensità della corrente elettrica era di grande utilità dal momento che veniva ricondotta a una grandezza misurabile, ha cessato quasi istantaneamente di rappresentare la promessa di reincantare il mondo, riunificare la natura e magicamente ricomporre la separazione tra ciò che vive e ciò che pensa.
Le promesse dell’elettricità – qui non in quanto fonte di energia ma come idea capace di riconfigurare tutto quello che sappiamo della natura e dell’uomo – erano tesi molto fragili; funzionavano come rappresentazioni, popolari o erudite, come impressioni molto vaghe, una sorta di slancio infantile e febbrile, lo stesso che aveva colto il pubblico dell’esperimento della Venus electrificata: felici di essere trasportati da un fenomeno fisico che si presentava come un gioco di prestigio, un’illusione offerta dalla natura stessa.
Perché l’elettricità in quanto pura intensità non era innanzitutto un’idea ma un’immagine. L’immagine di una scossa, di una natura conoscibile e suscettibile di essere addomesticata, e tuttavia ancora animata da qualcosa di selvaggio, d’irriducibile, pieno di una forza elettromagnetica determinata dalla differenza di potenziale inscritta negli elementi stessi del mondo fisico. C’era una qualità pura nella materia caricata, una specie di qualità ferina, e tuttavia l’intensità che ne scaturiva non era irrazionale: la si poteva osservare e misurare. Al di là di quello che i sensi umani percepivano del mondo naturale, sopravviveva una realtà intensiva della materia, che colpiva l’immaginazione. Meglio: questa intensità elettrica che attraversava alcune porzioni dell’essere materiale definiva anche la sensibilità, la nervosità di quello che vive. Meglio ancora, questa intensità arrivava fino al cervello, nella mente. La natura non era morta! Anzi viveva animata da un principio violento, che l’uomo moderno poteva ammirare come gli uomini primitivi ipnotizzati dal mistero del fuoco, e con la speranza di poterlo domare.
È questa vaga immagine che ha eccitato l’Europa e che ha messo in moto il progetto moderno, perché è questa che, dopo il progetto di razionalizzazione del movimento e della materia, rendeva il mondo non soltanto pensabile e conoscibile, ma anche vivibile. Senza intensità, il mondo poteva ragionevolmente essere pensato, ma dal punto di vista della vita non offriva nessun’altra prospettiva che una depressione generale dell’essere, risultato di una lenta storia della metafisica e della fisica europea che aveva razionalizzato lo spazio, il movimento, la materia e l’energia di ogni cosa. Da questa rappresentazione del calcolo universale, l’immagine folgorante e fantasmatica della corrente elettrica e della sua intensità desiderabile era venuta a salvare lo spirito moderno, minacciato dal marasma della ragione. L’elettricità era l’indice di una potenza rimossa della natura e della nostra natura, contemporaneamente addomesticabile e invitta, identificabile e sempre diversa: intensa.
La copertina è tratta dalla serie Stranger things del fotografo Max Slobodda.
Tristan Garcia ha studiato Filosofia all’École Normale Supérieure di Parigi e insegna all’Università Jean Moulin Lyon 3. In Italia è già molto conosciuto per i romanzi La parte migliore degli uomini (Guanda, 2011 – nne, 2020), Faber (nne, 2016) e 7 (nne, 2018 – vincitore del Prix du Livre Inter 2016).
Raffaele Alberto Ventura è un saggista italiano che vive e lavora a Parigi. È conosciuto per la trilogia di saggi denominata “del disastro” e composta da: Teoria della classe disagiata (minimum fax, 2017); La guerra di tutti (minimum fax, 2019); Radical choc (Einaudi, 2020).