«La moda è importante perché è anche sociologia; la moda è importante perché è anche arte; la moda è importante perché è anche linguistica; la moda è importante perché è anche politica […]»
(A. Branzi, Moda contro moda, in “Domus Moda”, n.1, maggio 1981)
Pensate per un momento di affondare le mani nel vaso di Pandora della Moda e afferrare ciò che contiene. Poi cercate di visualizzare quello che pensate di stringere tra le dita. Vedrete che qualsiasi sia la sua forma, essa inizierà a vacillare, a liquefarsi, a scivolare per terra e ricomporsi, mutare aspetto, per poi saltellarvi intorno con fare canzonatorio. Ogni volta che tentate di catturarla, la Moda muta forma e sfugge, si sottrae a lacci e costrizioni. E non importa se le vostre gabbie sono fabbricate con il ferro della semiotica, dell’estetica, della sociologia, dell’economia, dell’antropologia, della critica d’arte. Tale gabbia avrà sempre una smagliatura larga a sufficienza per far sì che la vostra preda scappi e si trasformi ancora una volta. Vi renderete certo conto come questo possa essere particolarmente irritante, soprattutto per uno studioso, la cui più alta aspirazione è arrivare al dunque, arrivare ad avere una panoramica chiara, dati oggettivi, risultati certi. Tanto più irritante, poi, se lo studioso è uno storico dell’arte, costretto a confrontarsi con i numerosi empasse che la materia in questione gli presenta e a schivare la derisione dei numerosi colleghi per cui la Moda si riduce a business e nulla più. Forse è questo il motivo per cui – ed è un male soprattutto italiano – pochissimi studiosi dedichino alle creazioni di moda degni studi storico-critici, capaci di evidenziare, qualora dovessero esserci, i valori culturali insiti nelle creazioni tessili.
Se però è vero – citando il titolo dell’ultima Biennale veneziana – che viviamo in degli interesting times, in cui delimitare le varie discipline all’interno di definizioni stringenti sembra essere sempre più un procedimento che non paga, ben venga allora la Moda con le sue contraddizioni e le sue idiosincrasie. Con la consapevolezza che una esaustività totalizzante sulla materia sarà impossibile, si potrà almeno tentare di offrire degli spunti di riflessione variamente angolati – talvolta incoerenti? – che abbiano come oggetto la Moda, indagata da un punto di vista quanto più dilatato possibile.
Abbiamo rammentato l’Arte poco fa, e già qualcuno potrebbe storcere il naso sentendola appaiata con la Moda. Nondimeno, questi due mondi si fronteggiano da tempo, sostanzialmente da quando la Moda, canonicamente intesa, è nata, a fine XIX secolo. Ma per affrontare le corrispondenze di amorosi sensi che questi due complessi universi si scambiano è necessario tenere in considerazione numerose variabili e chiarire su quali terreni di ricerca possa concentrarsi la nostra attenzione.
In primis, gli oggetti, le creazioni vere e proprie. La domanda che ci si pone in merito riguarda l’artisticità o meno di tali prodotti creativi. Le variabili in base alle quali si assegna un carattere artistico a un oggetto di moda (e non solo), com’è ovvio, dipendono da tanti fattori, quali l’unicità o il carattere di novità, per esempio. In sostanza, potremmo definire queste variabili come quelle che concorrono a creare l’aura – benjaminanamente[1] intesa – di un determinato manufatto.
In secundis, i soggetti, cioè i creatori di arte e di moda. Indagare questo aspetto implica chiedersi quali siano le pratiche creative proprie degli artisti e quali quelle dei designer di moda, e se davvero queste siano così differenti. Ogni volta che ci si approccia a uno stilista, vale forse la pena interrogarsi su cosa lo possa accomunare a un artista e quali siano i criteri per definire artista un creatore di moda.
In terzo luogo, un terreno su cui si possono muovere i discorsi circa le eventuali tangenze tra Arte e Moda è quello delle realtà istituzionalizzate, vale a dire quelle istituzioni sociali fatte da gallerie, accademie, musei, riviste d’arte, ma anche fiere, sfilate, magazine di moda. Queste realtà, ed è bene dirlo subito e senza ipocrisia, influenzano tanto il mondo della Moda quanto quello dell’Arte ben più di quanto farebbe comodo credere.
Precisazione ulteriore. Gli approfondimenti che seguiranno queste preliminari riflessioni tratteranno in maniera esclusiva il mondo dell’alta moda. Da un punto di vista storico-artistico e sociologico, si crede che, per il momento, non tutti i prodotti di moda siano funzionali al discorso. Nel concreto: capi d’abbigliamento fast fashion – H&M o Zara, per intenderci – verranno lasciati in secondo piano. Nondimeno, questo non vuol dire escludere aprioristicamente e in maniera assoluta questi prodotti tessili, ai quali cercheremo invece di dedicare una trattazione particolareggiata più avanti. Tale scelta è tanto più doverosa, quanto più i confini dell’oggetto d’analisi sono labili, come in questo caso. D’altronde, nella quasi totalità degli esempi possibili, i prodotti della così detta fast fashion si riducono a copiature di soluzioni formali viste nelle passerelle di alta moda e degradate, affinché risultino più digeribili, anche economicamente, al grande pubblico. È utile, in questo senso, istituire subito un paragone col mondo dell’Arte, che pressappoco funziona nel medesimo modo. Lasciamo stare le prese per il naso che vengono quotidianamente propinate nel magico mondo dell’etere da curatori disinibiti o da pubblicazioni prostrate al servilismo per qualche like in più. Non tutto quello che ci viene spacciato come arte è davvero Arte. Una buona fetta di quello che potremmo vedere a una qualsiasi Biennale è uno sterile e stanco rifacimento di estetiche ormai accettate dal mercato e digerite dai collezionisti. Per usare una definizione del collettivo anonimo “Luca Rossi”, potremmo sintetizzare con la locuzione “ikea evoluta” molta della produzione artistica contemporanea, la cui logica è prossima a quella del grande magazzino svedese: si prende un po’ di Informale anni Cinquanta o di Transavanguardia, lo si copia nelle sue caratteristiche estetiche e formali con una bella vernice a basso costo e il gioco è fatto. Ecco servito un simil Kounellis o un simil Paladino a 3000 euro, roba da niente se si considerano le quotazioni degli originali. Questo per dire che l’arte vera c’è, ma è poca e va cercata bene. Anche la moda, quella di qualità, che sappia andare al di là delle vendite e di estemporanei scandaletti da passarella, c’è, ma il difficile è scinderla dal resto.
Senza accorgercene, abbiamo già tracciato un legame tra due mondi che da sempre si fronteggiano, si scrutano, a volte si attraggono e si compenetrano, altre volte si respingono. Senza dubbio, un punto di partenza.
Arrivati a questo punto, potremmo chiederci che senso abbia una riflessione di questo tipo. Il fatto stesso che il fine ultimo di ogni creazione di moda sia la vendita sembra scoraggiare ogni riflessione circa le possibili interconnessioni tra Moda e Arte in senso lato. Candidamente, dovremo ammettere che è vero. Oppure: dovremmo candidamente ammettere che è vero? Certo, suona molto più facile coccolarsi nell’autoindulgenza pensando che, in fondo, perché mai dovremmo interessarci a un passatempo fatto di lustrini, paroloni altisonanti, sbrilluccichii, stravaganze improponibili che hanno il solo scopo di puntare all’eccesso? A questo si aggiunga il fatto che molti abiti che vediamo ogni anno sfilare sulle passerelle delle varie settimane della moda sembrano, semplicemente, importabili. C’è però un ma…
È un dato di fatto che la Moda sia dovunque intorno a noi. Presente nei manifesti sui muri, nei tram, negli spot televisivi, in ogni feed di Instagram, la Moda ci circonda, spesso senza che ci se ne renda conto. Essa influenza le nostre vite e le nostre scelte, seppur in maniera inconsapevole. Pertanto, si ritiene utile affrontare con piglio storico-artistico un discorso circa le forme che la Moda può assumere, proprio perché essa, in realtà, parla di noi. Provare a intercettare alcune di quelle forme significa affacciarsi in maniera più autoconsapevole su quegli interesting times citati in precedenza. Le riflessioni che seguiranno non avranno certo la pretesa di insegnare alcunché, ma solo provare a stimolare la curiosità e, se saremo bravi, una riflessione personale circa gli aspetti che sceglieremo di prendere in considerazione. Il tutto però con mente bene aperta, scevra dalle pregiudiziali di cui prima e con la consapevolezza che spesso l’oggetto dell’analisi imporrà dei cambi repentini di rotta. D’altronde, si crede che siano proprio le oscillazioni – tra cultura alta e cultura bassa, tra Arte e trash, tra eleganza e kitsch, tra immagini e parole scritte, tra l’onirismo dell’etere e la fisicità del corpo umano – insite nell’essenza stessa della Moda che fanno di questo mondo un oggetto tanto affascinante da analizzare. Il fine più concreto, forse anche il più razionalmente realizzabile, sarà quello di delineare alcune figure – da intendere in senso lato e non come soggetti ben definiti – che compongono il panorama della Moda, affinché ci aiutino ad avere su di esso una visuale più nitida.
Quindi, infine, le figure: una parola aperta a molteplici suggestioni e scelta, non a caso, per indicare uno dei gangli vitali attorno al quale si articola questo nuovo spazio di diffusione di idee che è “Layout Magazine”. Una parola che muta significato a seconda di quale siano gli strumenti con i quali scegliamo di approcciarvisi: come la moda. E visto che questa sede vuole porsi in maniera ricettiva verso quei fenomeni dai confini labili, che sembrano stare in posizione liminare tra più campi del sapere, si è scelto di dedicare dello spazio a un tema così spinoso e ineffabile, di cui il presente scritto vuole essere solo una provocatoria introduzione.
[1] W. Benjamin, L’opera d’arte all’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 2011.