The Uncertainty about How will we live together – Biennale Architettura 2021

Disclaimer!


Questo non è un articolo esaustivo della Biennale 2021. O almeno prova a non esserlo. Solo una raccolta di tanti flash collezionati in due giorni. Si proverà a parlare di emozioni, nonostante tutto.


“Nessuna bocca è abbastanza grande per pronunciare l’intera cosa.”
(Alan Wilson Watts)

Se dovessimo riassumere questa biennale 2021 potremmo farlo con un padiglione: quello spagnolo, Uncertainty. Alla pretenziosa e rischiosissima domanda “How will we live together?” ci sarebbero mille risposte – e ce ne sono all’interno della mostra – ma tutte, in maniera più o meno conscia, hanno in comune questo substrato di malinconica accettazione: l’architettura ha veramente il potere di cambiare le cose? Forse no. Uncertainty, nella sua stanza centrale, prova ad assemblare in un volume, quasi tratteggiato, tutti i fogli con le risposte-proposte pervenute alla call dei curatori. L’effetto è scenico, il messaggio è chiaro: nessuno ha una soluzione precisa, la comunità globale atomizzata può però ancora provare a riunirsi introno a delle idee e a delle speranze, ma niente più di questo. A volte parlare a bassa voce, riconoscersi piccoli scatena fascino e attrazione. È questo il caso.


Se padiglioni come quello degli Stati Uniti che si auto-accusa di essere snobbata sull’utilizzo del legno come materiale principe della costruzione (dopo aver costruito megalopoli in acciaio e cemento) o quello del Belgio, incentrato sulla personalissima idea di architettura, si rinchiudono in una specie di superiorità egoistica senza soluzioni di continuità, altri come per esempio l’Austria rimettono al centro un tema che è già oggetto più di un terzo delle ricerche di settore, di molte domande e questioni politico-filosofiche: platform, data e realtà. Quindi niente di nuovo. Niente di sconvolgente. E, ad ogni modo, il tema viene trattato con un approccio superficiale, macchiettistico che vuole lontanissimamente assomigliare a certe provocazioni artistiche che hanno radici ben più solide. Al netto di tutto, slogan come «Platform is my boyfriend» o «Data is relation not a proprierty» cadono a terra come insieme di parole-azioni vuote.


L’Olanda organizza il suo padiglione manifesto chiedendosi chi siamo noi (Who Are We?). Tutta l’esposizione ruota intorno a un labirinto. Percorrendolo si incontrano una serie di riflessioni visuali che strutturano la risposta: siamo un mondo di persone diverse che necessitano di essere riconosciute come tali. Siamo cielo e terra, maschi e donne, metamorfosi e incompiutezze: assenze ma misteri essenziali. Senza uguaglianza di diritti tra individui non può esistere uguaglianza e democrazia spaziale. Sulla stessa direzione espone l’Egitto che ricompone l’unicità dell’individuo tramite il valore delle differenze, ma con meno intensità espressiva e concettuale, e il Cile che si concentra su un emblematico insediamento di Jose Marìa Caro, trasformato collettivamente da 500 immagini e testimonianze.

We Are Scared

il fatto di non essere superiori alla natura e di essere fragili, di non avere per nulla un posto centrale nelle cose del mondo, sono tutti elementi che sono stati per così dire acquisiti nel corso di un’emergenza fattuale.”
(Leonardo Caffo, Dopo il Covid-19, Nottetempo Edizoni, pag 38)

Ciò che emerge in questa edizione più di ogni altro sentimento è la paura. Una paura diffusa e silenziosa. La pandemia ha sigillato l’umanità in una bolla definitiva di paura. Non ce lo diciamo, facciamo finta che non sia così e tuttavia non troviamo vicino lo spazio di uno slancio. Pochi discorsi sulla città, nessun ragionamento sullo spazio sociale che possa essere usufruibile e in qualche modo protettivo. Molti ragionamenti compositivi su nuove tipologie di co-living, questo si. Ma niente di più di piccoli timidi passi in avanti. Dobbiamo accettare il fatto che navighiamo tra incertezze e illuminazioni.

La virtù del limite

Fig.1 THE DEATH OF A BUILDING, Padiglione Ungheria, Biennale Venezia, 2021

Sono i padiglioni dei paesi più piccoli a colpire, ad affascinare. In particolare, Polonia, Ungheria e Finlandia. Qui lo stato di paura – una paura piena di grazia e consapevolezza – mira a delineare una inversione decisiva su tematiche che sono state oggetto di dibattito anche in Italia (ripopolazione di piccoli borghi, campagna, case come strumenti di protezione).


La Polonia mette in scena un omaggio alla campagna, ai valori di una certa ruralità produttiva e genuina, cercando di catalogare simboli e modi di uno stare insieme che può essere in qualche modo una exit strategy dal caotico cosmo delle città. Connesso a questo il tema dell’energia rinnovabile come nucleo di nuovi siti di produzione e vita. La Finlandia, invece, espone il tema della casa modulare, che durante la guerra fredda, diventa un tema economico-politico: quando l’URSS decise di non acquistare più questi prefabbricati, arrivarono subito in soccorso gli americani interessati a costruire con queste micro-architetture molte basi militari in Iraq e Pakistan. Erano altri tempi e le influenze avvenivano anche mediante il controllo delle produzioni di certe formule architettoniche.

Ma è un progetto del padiglione ungherese che mi ha emozionato. Organizzato in 12 progetti che contengono 12 proposte di approccio metolodogico diverso, tra questi spicca la proposta “The death of a building” ovvero progettare la morte di un edificio. L’edifico è il National Power Dispatch Centre di Budapest e gli architetti del collettivo A-A architecture si interrogano su un progetto che possa facilitarne la morte, la restituzione al suolo e all’ambiente naturale che già si era insediato sulla facciata e sulle strutture.

L’edificio viene svuotato delle sue parti non essenziali e al suo interno vengono innestate altre piantumazioni e spazi verdi. L’idea, quindi, è che questo simbolo diventi il segno stesso della sua decadenza, dell’accettazione attiva di un destino. Questo approccio apre a una serie di considerazioni. Non sempre riprogettare è salvifico o davvero necessario – contro l’ego di ogni progettista per cui tutto esiste nella misura in cui lo si è progettato – il ciclo di vita di un edificio può interrompersi e può farlo con eleganza. Borges in una delle sue ultime interviste disse: «non mi piace neppure che mi ricordino dopo morto. Spero di morire, di dimenticarmi e di essere dimenticato» [1].

Fig. 2. Padilgione Polonia, Trouble in Paradise, Biennale Venezia, 2021

The Earth is an architecture

Nel padiglione centrale dei giardini troviamo una serie di suggestioni particolari. Il mondo viene guardato da un’altra prospettiva: The World Turned Inside Out. Le istallazioni vogliono mappare e delineare paesaggi sconosciuti e misteriosi che popolano la terra, ribattezzando il concetto di inesplorato come valore. Proporre quindi una consapevolezza nuova, un cambio di paradigma verso un mondo postumano non più antropocentrico o città-centrico. Caverne, grotte, fiumi, laghi, oceani e tutta una geografia geologica vengono messi al centro come il lessico di una nuova architettura/anarchitettura.


La sezione più vibrante è forse quella del Designing for Climate change. Da una parte, l’architettura viene vista come un mezzo – anche soltanto grafico – per veicolare l’idea di un nuovo rapporto con il mondo che viviamo. Dall’altra, progetti sperimentali come Futur Island in Venice, un’isola di pietre che si adattano a condizioni climatiche in continuo cambiamento per misurare i comportamenti adattivi, affrontano più da vicino questioni relative a un design che propone di fatto un internet of natural things, rilevatori intelligenti – sensing – pronti a rispondere e correggere – actuing – nuovi microsistemi naturali del pianeta.

Fig. 3. Design for Climate Change, Futur Island in Venice, Biennale Venezia, 2021

Padiglione Italia

Comunità resilienti è il titolo del padiglione italiano curato dall’architetto Alessandro Melis.
Sembra di entrare in uno strano laboratorio di un artista del ‘400, del Verrocchio, come chiosa lo stesso curatore in una delle prime presentazioni ufficiali. L’idea è di ricomporre, tramite diverse
esperienze di pratiche architettoniche virtuose, una grande comunità. Le parole d’ordine sono resilienza, post-umanenismo e ridondanza. Il padiglione è stato realizzando quasi completamente recuperando e rielaborando materiali e installazioni dell’edizione del 2018. Melis parla di pensiero associativo (contrapponendolo a quello lineare) guardando con interesse alle nuove ricerche di microbiologia (ai principi evoluzionistico-naturali) per spiegare come potrebbero funzionare le cose. Scienza, arte, tecnica e tecnologia trovano la loro sintesi operativa nell’architettura. Le installazioni parlano di molteplicità e varietà, scansando con forza il classico binomio forma-funzione di un progetto. Tutto è incandescente, incerto. Quasi come se tutto potesse muoversi da un momento all’altro, portato via dal proprietario del laboratorio per un altro lavoro.

La paura di noi stessi

Questa biennale estremamente eterogenea racconta paure, speranze e prospettive. La paura di compiere nuovi disastri è dietro l’angolo. Infatti, nella ricchezza delle riflessioni troviamo ancora delle pulsioni imperialistiche (nuovi prototipi abitativi sulla luna), perché la realtà è ancora piena di complessità e minacce, e solo piccolissime riflessioni sulle città – in prevalenza in quei luoghi dove le città sono fenomeni in parte controllabili, ad esempio in Belgio.


La dimensione sociale delle città viene quindi catapultata in una dimensione globale in cui l’architettura cerca di entrare piano piano, accompagnata da altre scienze. In punta di piedi. Perché sembra che le nostre certezze sulla domesticità e sull’urbanità non abbiano comportato grandi successi. La biennale del 2021 non sembra facile ad una prima lettura perché si sporge verso una dimensione completamente nuova. E con timore e confusione. Che sia la volta buona perché nuove incertezze portino un’umanità, ancora traumatizzata, verso orizzonti di senso che non siano distruttivi verso il pianeta di cui siamo, tra miliardi di altre complessità, spirito e mineralogia.

Figura 4. Paglione Spagna, Uncertainty, Biennale Venezia, 2021

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[1] J.L Borges, Venticinque Agosto 1983 e altri racconti inediti, Franco Maria Ricci Editore, pag 12.