#Strega2021 | Il complesso della mummia – su Splendi come vita di Maria Grazia Calandrone

Nel celebre saggio Ontologia dell’immagine fotografica André Bazin scrive:

L’obiettivo solo ci dà dell’oggetto un’immagine capace di «smuovere», dal fondo del nostro inconscio, questo bisogno di sostituire all’oggetto più che un calco approssimativo: l’oggetto stesso, ma liberato dalle contingenze temporali.

La fotografia difende gli oggetti, le persone, gli eventi dallo scorrere del tempo, per così dire toglie il loro corpo dalla corrente violenta e levigatrice a cui sono costantemente sottoposti. Da qui si spiega il fascino per le fotografie ingiallite, sfocate, scolorite, con scarso valore documentario, e l’incanto davanti ad album di famiglia, a ritagli di vecchi giornali: essi si ri-presentano in veste di fantasmi, presenza inquietanti di «vite arrestate nella loro durata». Si ri-presentano attraverso un meccanismo invisibile e interno: lo scatto della macchina fotografica come attivazione del ricordo e disvelamento della memoria. Continua Bazin: «la fotografia infatti non crea eternità, come l’arte, ma imbalsama il tempo, lo sottrae solamente alla sua corruzione».

In Splendi come vita (Ponte alle Grazie, 2021), finalista sia al Premio Strega sia al Premio Narrativa Bergamo 2021, Maria Grazia Calandrone sembra tentare l’estrema possibilità dell’arte: salvare le apparenze, i volti che si dissolvono se non incorniciati, immortalati, combattere la morte e la sua falce imparziale prima che con la scrittura con la vita stessa. Per questo in una delle due poesie – di valore su tutto pragmatico, di cornice – che chiudono il libro, Lei che sembra sognata, dice, dopo aver invocato anaforicamente «mamma»: «Le parole non servono a niente. / Abbiamo solo il tempo della vita, mamma». Un appello che scongiura, a prima vista, il potere della parola di rievocare delle vite e del tempo perduti, ma che in realtà ne afferma le potenzialità unita all’immagine fotografica, perché l’ultima fotografia che Calandrone pone tra le due poesie è anche l’unica a colori: il racconto e l’immagine hanno attivato il ricordo, la memoria si colora e splende e così il cerchio si chiude, il rapporto tra madre e figlia si riallaccia nella lontananza che presuppone la letteratura.

Ma si torni al principio del tracciato, o del trauma. Sulla prima pagina un ritaglio di giornale informa il lettore di ciò che sta prima del romanzo: una bambina orfana di nome Maria Grazia, abbandonata in un prato di Villa Borghese dalla madre Lucia «suicida nella acque del Tevere», viene affidata alla famiglia Calandrone. Sopra l’annuncio si vede la foto della bambina all’ingresso della sua nuova casa, tenuta per mano dalla «bionda Madre elettiva» Consolazione, insegnante di letteratura. L’ingresso nell’abitazione corrisponde al punto d’origine della narrazione, al gesto d’apertura di una galleria fotografica. Un indizio di biografia però si legge fin dalla copertina che, nel capitolo centrale Noi due, viene ripresa attraverso un’ecfrasi:

La seconda foto dove siamo insieme è presa alla macchinetta della Stazione sotto casa, nell’inverno del 1967. Ho tre anni e mezzo, Mamma cinquantuno. Ha il suo completo azzurro di sartoria, la camicetta in seta collo tondo, la spilla d’argento con spighe di cristalli incastonati e tre rubini in cima. Io ho il cappotto celeste a doppio petto e il berretto di lana legato con il fiocco sotto il mento. Ci somigliamo, Mamma e io. Eleganti, spiritose, intelligenti. Felici.

Al centro due donne (per ora una bambina e una donna) sorridenti verso l’obiettivo. Ancora Bazin. L’obiettivo soltanto smuove l’inconscio, riporta indietro qualcosa di più che un calco approssimativo, cioè l’oggetto liberato dal tempo, in questo caso i due volti. Splendi come vita si slega dal tempo, ripercorre il rapporto controverso, fatto di sensi di colpa, equivoci e disamore, tra una madre e una figlia, in una storia tanto particolare ed eccezionale quanto potenzialmente universale. Anche la voce narrante in un certo senso si libera da ogni contingenza temporale e si muove nei territori dell’inconscio dove l’età viene cancellata e rimane solo qualche grumo essenziale, cioè la sintassi paratattica e segmentata, l’incisività di descrizioni minimal e allusive. In questo modo convivono l’appellativo commosso e infantile di «Mamma» (con la lettera iniziale maiuscola, così come per «Padre») e il punto di vista distaccato e razionale proveniente dal «giugno 2020» (in una nota finale Calandrone ci rivela che il libro «si è scritto da solo nel cuore del giugno 2020» e quindi ha la natura dell’illuminazione, del flashback immediato e inconscio); convivono altresì, alternandosi in maniera umorale, la prosa lirica e la prosa più distesa, dove la prima si fa più intensa in funzione di un’immagine iconica, di un gesto o di uno stato d’animo memorabile (non per caso):

Il Disamore avvolge i letti dei bambini fra le spire
di un pianto non pianto.
I bambini non amati non piangono.

Oppure, con un’incursione di discorso diretto libero:

Ci telefonano che Padre è allegro e canta a squarciagola Va pensiero. In cucina Madre dice Può essere il miglioramento della morte.

L’identità dell’infanzia e l’identità del presente, la lirica e la prosa vengono incapsulate e mescidate in un’unica forma e in un unico oggetto della memoria, a differenza della diffrazione dello sguardo di Nuovo romanzo di figure di Lalla Romano del 1997 (la prima edizione, con meno fotografie, risale al 1975 e prende il titolo, significativo, di Lettura di un’immagine), un libro simile a Splendi come vita per l’intento biografico, le sequenze da album familiare, in certi casi l’uso dell’immagine, la volontà di far rivivere qualcosa e qualcuno irrimediabilmente spenti e la proiezione della voce narrante – o didascalica – nella dimensione del passato. Nella presentazione all’ultima edizione Romano scrive che il libro è «quasi un ritratto di mio padre»; lo stesso si potrebbe pensare di Splendi come vita, un quasi ritratto di una madre, insieme l’autoritratto di una figlia (in Nuove figure c’è un capitolo intitolato Storia di me) e di un tempo (per esempio il ricordo di Černobyl’ nel romanzo di Calandrone), allontanato a dovere “dall’obiettivo” in una prospettiva reale ed emblematica: «una prospettiva tragica (e tuttavia pacificata): quella delle vite spente, o prossime a spegnersi». Nuovo romanzo di figure quindi aiuta a comprendere la natura sfuggente dell’opera di Calandrone: un romanzo autobiografico suddiviso in sequenze tematiche, composto in una prosa che sfocia nella lirica e che si rifugia talvolta nell’accapo (in Romano il testo ha funzione solo di didascalia e “lettura”), infine un fototesto.

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Una fotografia da Nuovo romanzo di figure di Lalla Romano.

Le fotografie non hanno solo un ruolo illustrativo all’interno del romanzo di Maria Grazia Calandrone, perché in qualche modo oltre ad essere squarci nel tempo, testimonianze di una vita impressa sulla pellicola del passato, ricostruiscono la storia di famiglia e creano un senso, dialogano, senza mai incontrarsi davvero, con il testo. Calandrone fa proprio un complesso delle arti plastiche: «il complesso della mummia». Come gli antichi egizi riconducevano alla vita mediante l’apparenza il morto mummificato salvandolo dalla morte spirituale e, per assicurarsi del suo nutrimento, lasciavano sui bordi del sarcofago il frumento, Maria Grazia Calandrone raccoglie ricordi e immagini e li fa splendere come vita, come illusione, e imbalsamazione, di vita.

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Fotografia post-mortem di un uomo di mezza età.

Graziano Graziani, in un bell’articolo pubblicato presso «il Tascabile», L’arte, la vita eterna e altre illusioni, accosta l’ultimo lavoro della poetessa romana alle riflessioni di Attilio Scarpellini e al concetto di “ricapitolazione” elaborato da Agamben. Scrive: «la rappresentazione artistica è allo stesso tempo una frattura nello scorrere del tempo ma anche una sua possibile ricapitolazione: un arresto nel flusso del tempo che è però anche garanzia del suo significato». Una prova di questa frattura, di questo arresto significante viene data nel capitolo Non avrai altro Padre (forse quello, insieme a Noi due, più ispirato). Il signor Calandrone, «l’eroe di Spagna, lo scrittore autodidatta, l’operaio metallurgico» e dirigente del PCI viene incorniciato in una fotografia d’un bianco e nero caliginoso, che sembra essere il ritaglio da una foto di gruppo, ragion per cui «Padre» ha l’aria assente, lo sguardo colto di sorpresa, i contorni sfocati: sembra emerso direttamente dal fondo grigio della memoria e lanciato in fuga verso l’aperto. Il testo che precede questa fotografia recita:

Le parole sono la parte più concreta della materia.
La materia è uno scherzo ben riuscito.
Le parole non sono mai completamente pulite.
Le parole non dimenticano la materia dalla quale evaporano,
ma non ne hanno alcuna nostalgia.

Le parole non hanno nostalgia dell’immagine da cui provengono – in questo caso della fotografia che accompagna la descrizione del padre –, ma non la dimenticano. La garanzia di significato, la ricapitolazione si manifesta in questo scherzo che la materia fa all’arte e di cui Maria Grazia Calandrone ha piena consapevolezza ma a cui concede il passo, la forza attrattiva, perché come sintetizza Graziani: «la vita sarà sempre di meno e di più del significato, provvisorio, che l’arte riesce fortunosamente ad assegnarle».

Una nota finale. Maria Grazia Calandrone credo si sia smarcata dai toni della cronaca e dagli schemi narrativi, spesso stantii, dell’autobiografismo, nonché dalla tendenza tipicamente contemporanea di rimuovere la morte dall’immaginario collettivo, o di spettacolarizzarla. Spiace, per questo motivo, vedere l’autrice alle prese con il linguaggio sensazionalistico della televisione. Mi riferisco alla sua comparsa su Rai Uno a Oggi è un altro giorno condotto da Serena Bortone. La storia eccezionale di questo rapporto viene riletta dalle inquadrature alternate sui volti stupiti – che nascondono imbarazzo, senso del pudore offeso, giudizio – degli ospiti presenti in studio e spettacolarizzata (stranamente) dalla conduttrice, che ovviamente stava svolgendo il suo lavoro. Calandrone risponde con garbo e scioltezza, ma la trasformazione in personaggio, in tipo, è già avvenuta, lo stile e la problematizzazione si son persi. Si spera che questo processo, normale se si rientra nelle schiere dello Strega, non appiattisca nel presente un libro che era riuscito, con bravura, ad uscirne. Il problema, si sa, è la gestione dell’oggetto libro e della letteratura da parte dei media. Ma questa è un’altra storia.



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