Cronologia di un’agitazione culturale
Dal 31 marzo al 2 aprile è andato in scena il Festival di letteratura working class presso la Gkn di Campi Bisenzio, a cui hanno partecipato alcune migliaia di persone. Provo a elaborarne una cronologia in forma narrativa.
__Nell’ottobre 2021 partecipo al Working Class Writers Festival di Bristol. Si tratta probabilmente del primo grande festival di letteratura working class che sia mai stato fatto, anche se è molto concentrato sulla scena anglofona (ci siamo solo io e un gruppo di autori e autrici svedesi come invitati continentali). A quel che mi è stato detto, solo in Finlandia si fanno dei festival di letteratura working class, ma sono eventi piccoli e circoscritti ad autori finnici.
_Pochi mesi prima, il 9 luglio 2021 ero in Piazza Santa Croce a Firenze per una manifestazione a sostegno degli operai di Gkn che erano stati licenziati con un messaggio Whatsapp. Sulle scale davanti alla chiesa sento il rappresentante degli operai, Dario Salvetti, dire ai giornalisti: “Ci va bene raccontarvi le nostre storie, ma noi non siamo qui per raccontarvi le nostre storie, siamo qui per scrivere la storia. Siamo qui per fare storia”. Queste parole mi colpiscono e le sento in linea con quanto sto provando a fare in ambito narrativo da almeno un decennio: riprendersi le parole per scrivere le nostre storie, raccontarsi da soli per non farsi raccontare da altri.
_Dal Collettivo di fabbrica si forma il progetto Convergenza Culturale che comincia a pensare eventi culturali nel parcheggio dello stabilimento. Perché anche i lavoratori hanno interessi culturali: c’è chi scrive, chi disegna, chi fa musica. La cultura non è solo per chi ha tanto capitale culturale e tempo libero.
_Intanto dopo un anno di lotta sul piano materiale, ma anche su quello delll’immaginario, gli operai mi propongono di pubblicare un libro nella collana Working class scritto da loro. Si chiamerà Insorgiamo e le prime copie saranno vendute nella manifestazione del 26 marzo 2022. Tra la collana working class e convergenza culturale inizia una collaborazione.
_Questa collaborazione si trasforma in un progetto concreto: organizzare il primo festival italiano di Letteratura Working Class. Lo faremo in Gkn. Parliamo del progetto con altri editori ma ci fanno capire che per una follia così non metteranno un quattrino. Decidiamo di sostenerci dal basso, perché al contrario del festival di Bristol non abbiamo sponsor nella grande editoria. A Bristol avevano il sostegno di Hachette, Random House e altri grandi nomi dell’editoria britannica che avevano versato 60mila sterline. Noi abbiamo la disoccupazione come sponsor. Fanculo alla disoccupazione, faremo un crowdfunding.
_Decine di mail, di telefonate, di messaggi lanciati in tutta Europa. Tanti sì, qualche no. Alla fine abbiamo un programma davvero intersezionale, che intreccia politiche di classe e politiche dell’identità, diritti individuali e diritti collettivi (genere, etnicità, ma anche disabilità e orientamento sessuale). E da questi intrecci non esce una classe operaia monolitica ma tante working classes.
_Febbraio. Chiudiamo il programma e lanciamo il crowdfunding che parte bene e si conclude con una somma superiore all’obbiettivo realizzato: quasi 12 mila euro.
_Marzo. Cominciamo a pensare a tappe di avvicinamento al festival da realizzarsi nelle case del popolo, nelle società di mutuo soccorso, nei circoli Arci del territorio metropolitano fiorentino: per attivare quella rete di connessioni create dalla storia del movimento operaio. Facciamo presentazioni, reading performati, pranzi di sovvenzionamento molto partecipati.
_Ci sentiamo su Zoom ogni tre giorni, tra casa editrice, gruppo di sostegno, Convergenza Culturale, Arci, Collettivo di fabbrica. Un gran casino, perché si sovrappongono i tempi della vertenza a quelli del festival. Ma non possiamo fare altrimenti: tra due mesi gli operai saranno ancora dentro, dopo chi lo sa.
_Non possiamo concentrarci solo sul festival. Le energie degli operai vanno alla manifestazione del 25 marzo che deve servire a dare una spallata. Da mesi gli operai sono sotto assedio. La nuova proprietà che deve reindustrializzare non reindustrializza. La politica tace. Ai tavoli ministeriali non ci sono progressi.
_Proviamo anche a capire se alcuni grandi nomi, attori o musicisti, possono salire sul palco per fare un reading sul libro di Joseph Ponthus. Qualcuno è molto solidale, si scusa di non poter venire per necessità di set ma chiede comunque di leggere i libri working class. Altri non ci rispondono. Alla fine vedremo che questa cosa avrà comunque una sua importanza.
_25 marzo, il giorno della manifestazione. A Firenze siamo 12, forse 15 mila persone. La mia sensazione però è che ci sia un calo di energie. Esco dalla manifestazione meno entusiasta delle altre volte. A ogni manifestazione prima ci sembrava di aver rovesciato all’ultimo momento le sorti di una fase di lotta. Stavolta no, mi dico. Ma forse perché sono molto stanco.
_ 27 marzo, lunedì. Entriamo nella settimana decisiva. Ancora tappe di avvicinamento. Incontri on line. I microfoni, le interpreti, gli addetti alla mensa, il mixer, le casse, il palco, le magliette, le shopper… pian piano sembra che tutte le tessere vadano al loro posto. Gli operai sono orgogliosi del palco che hanno già montato e dello stato di manutenzione della fabbrica: hanno pulito i bagni, tagliato l’erba nei cortili, è bella come fosse casa loro. È casa loro. Noi prepariamo i banner e le locandine. Ne abbiamo stampate diecimila. Io a mano da solo ne ho distribuite almeno mille durante la manifestazione, spiegando ogni volta cosa è il festival: alla fine non ho più voce.
_28 marzo, martedì. Faccio un incontro Zoom in inglese con una università olandese. Una professoressa mi ha chiesto di parlare di letteratura working class alle studentesse del corso di letteratura. Una di loro dice che verrà dall’Olanda per il festival. Anche una giornalista tedesca della radio pubblica ci fa sapere che sarà sul posto per fare un reportage.
_29 marzo, mercoledì, giornata piena di interviste.
_30 marzo, giovedì mattina siamo a palazzo vecchio per una conferenza stampa. Ma quel giorno siamo già su «il manifesto» e «Repubblica». Altri media on line scrivono di noi. Ci arrivano messaggi, tanta gente dice che verrà. Nel pomeriggio di giovedì io e Giulio Calella di Alegre siamo in Rai per parlare del festival a Radio Farenheit, ci raggiunge al telefono Claudia Durastanti. Dopo andiamo in fabbrica. Ci mettiamo a montare la libreria coi volontari universitari romani. Facciamo le cose con meticolosità, gioia e lentezza. Ci vogliono ore. Il palco almeno è già stato montato dagli operai. Ma c’è da fare ancora tanto.
_31 marzo, venerdì. Faccio colazione, poi vado a comprare i giornali: siamo su «Repubblica» e sul «Corriere fiorentino»: la minaccia di denunciare i partecipanti di un evento culturale occupa due pagine dei giornali più importanti. Di sicuro non passiamo inosservati. Parcheggio ed entro in fabbrica. Prima sosta al barcollo, il baretto degli operai, dove trovo già gli altri operai impegnati nel rito di caffè e sigaretta. Commentiamo, giornali alla mano, questa minaccia di denuncia per chiunque parteciperà al festival. Rimaniamo attoniti. Ecco cosa succede se provi a far incontrare letteratura e operai: ti minacciano di denunce. Facciamo una riunione. Alla fine decidiamo di allestire il festival in uno spazio non produttivo e di fatto inutilizzato della fabbrica. Non daremo noia a nessuno.
Ci aspetta una giornata lunghissima, ma gli operai sono tranquilli, molto più rilassati di noi attivisti. Tra due ore deve essere tutto pronto. Due ore? Come due ore? Faccio io, pensando che ne servano otto. Mah, forse in un’ora e mezzo ce la facciamo, mi rispondono. Intanto un muletto sposta di peso un tavolo pieno di libri montati ieri dagli studenti. In tre minuti smontano e rimontano quello che è stato fatto ieri in tre ore. Il palco lo tirano su in cinque minuti. La classe operaia è questa cosa qua.
All’ora di pranzo sono già stanco. Mi ero svegliato alle 6 del mattino dopo una notte passata perlopiù a occhi aperti. Un programma mattutino di Radio Rai Uno mi vuole in diretta alle 6.40. Non so cosa succede: per un problema tecnico, non sento nulla. Solo un rumore metallico. Parlo al buio, a naso, provo a indovinare le domande sulla base di una voce che mi arriva dallo studio a intermittenza. Dopo mi arrivano messaggi di persone che si complimentano per quel che ho detto. Boh.
_Pranzo in mensa, convivialità, mangiare il pane assieme, ecco il senso della parola compagni, cum panis. Nel pomeriggio ogni tassello va a posto. Tiriamo su una cosa che sarebbe quasi trendy e fighetta, con gli scatoloni di cartone riciclata, solo che noi lo facciamo per necessità. Guardo un tipo fare i pesi con un semiasse e penso quale tremendo spreco del capitale sia quello di guadagnare in borsa facendo a pezzi aziende in produzione. Continuiamo con gli aggiustamenti delle luci, il nostro fonico, Massimo, è un operaio che è stato costretto a trovare lavoro in un’altra azienda ma continua a sostenere la lotta dei suoi compagni: fa miracoli e siamo a posto anche su quel fronte. Arrivano da Radio Wombat per fare i podcast audio degli interventi, arrivano anche le radioline per la traduzione simultanea delle interpreti, pian piano ogni tassello va al suo posto. Manca un’ora all’inizio del festival e io vado a dormire trenta minuti. In realtà mi sdraio ma non riesco a prendere sonno. Troppa ansia.
_Alle 17.55 rientro: non c’è nessuno, solo 50 persone. Se i numeri sono questi siamo fritti. Entro, esco, decidiamo di attendere ancora qualche minuto per l’intervento di apertura. Alle 18,15 si forma una lunga coda di persone per entrare al festival. Si comincia davvero. Alle 18.50 parlo davanti a un numero esorbitante di persone: non ho mai parlato davanti a tanta gente tutta assieme. Alle 19.30 la mensa è già in tilt. C’è una coda su due piani, alcuni operai vanno al centro commerciale per comprare altro cibo, facciamo un po’ di panini da far girare sui due punti di ristoro. Dopo cena arriva il fantasma di Majakovskij portato in scena da Wu Ming 1, un monologo con accompagnamento musicale che funziona alla grande. Poi lo spettacolo teatrale tratto da Amianto: lì per due volte saltano le luci (ci hanno prestato dei fari troppo potenti, mi spiegano in seguito) e ogni volta l’attore si inventa un trucco di mestiere per risolvere la grana.
Alla fine un temporale di primavera ci obbliga a rimanere tutti dentro, tutti assieme. Poi usciamo, ci rivediamo domani…
Che cosa abbiamo fatto?
Il resto non può essere solo cronaca: sono mani che si stringono, abbracci, bambini che giocano nel prato della fabbrica, applausi, lacrime, una commozione e un senso di connessione che nessuno si aspettava. Andiamo avanti così, in progressione, di giorno in giorno. Il sabato è il picco, ingressi oltre ogni previsione, la mensa risponde bene su tre turni, il festival sembra funzionare anche senza di noi, è una macchina che si muove da sola, noi stiamo lì, la guardiamo, ci prendiamo cura di lei con lo sguardo, per un attimo. Poi continuiamo a farla funzionare: telefonate, interviste, prenotazioni. I volontari smistano gli ospiti da un albergo a una stazione, stringo mani di gente che è venuta a sentirci dall’estero, dalla Germania, dall’Olanda, dagli Stati Uniti. Tutti ci dicono: che cosa sta succedendo? A tutti chiediamo: che sta succedendo? La risposta è una sola: tutti assieme, stiamo provando a rompere l’assedio.
Ci guardiamo attorno, siamo una marea. Le seggiole non bastano. C’è chi sta in piedi in fondo, chi di lato, chi si siede per terra sotto il palco. A un certo punto quella linea è presidiata dai figli degli operai che invece di stare nello spazio prole (lo spazio bambini e bambine) sono venuti a sentire cosa succede nello spazio dei grandi. Ci vado io nello spazio prole: si parla di Sherlock Holmes e Karl Marx. Della ragione per cui bisogna andare a scuola e a lavoro. Domande difficili che ci poniamo anche noi grandi, ogni giorno. Faccio il giro: i bagni sono puliti, i volontari riescono a fare miracoli. Ci sono mille e cinquecento persone e nessun intoppo. Cooperazione felice, siamo in un momento di estasi: pensiamo in quel momento che le fabbriche potrebbero davvero funzionare in autogestione, sotto controllo operaio. Com’era quel film di Godard? Crepa padrone, tutto va bene.
Le cose vanno così bene che ci arriva tramite un’attivista inglese un messaggio di Ken Loach. Mira lo legge prima in inglese e poi in italiano. Ormai non ci stupiamo più di niente.
L’ultimo giorno c’è un sole meraviglioso. I momenti performativi sono toccanti. Le storie degli operai si prendono il palco. I’berva è una macchina da guerra. Matteo di Convergenza Culturale non vuole comparire mai ma senza di lui non avremmo fatto nulla. A volte si fa sostituire da Mario, che stavolta se ne sta col figlio piccolo in braccio che è così bello da agganciare lo sguardo di chiunque. Dalla mensa arrivano vassoi pieni di cibo che subito spariscono. Incrocio poeti operai e ricercatrici dell’università, facchini della logistica e giornalisti. Tante famiglie coi passeggini. Ascolto Alessandro Portelli che dice che nella vita avrebbe voluto scrivere ma non aveva storie da raccontare. Sono stati gli operai e gli oppressi a dargli una voce, non lui a darla a loro. Francesca mi incrocia fuori, ha le lacrime agli occhi. Che cosa abbiamo fatto? Continuiamo a non crederci.
Alla fine chiudiamo con un estratto da uno spettacolo degli operai Gkn. I’berva dice che lo porteranno anche a Bruxelles, siamo internazionali. Dario racconta del giorno in cui sono arrivati i messaggi di licenziamento. Di come gli operai si sono raccolti spontaneamente attorno alla fabbrica e hanno allontanato gli sgherri di una azienda di security che si era impossessata della loro casa. Da qui non esce una vite. E quante vite sono entrate, invece. Un altro operaio racconta un aneddoto divertente e pantagruelico su un suo compagno di lavoro, ma la storia ha una fine tragica. Sento una coppia, marito e moglie, che piange dietro di me. Lacrime, rabbia, commozione, orgoglio, si alternano a ondate. Toccante anche la storia di Tiziana, che racconta il sessismo in fabbrica e il suo demansionamento da impiegata aziendalista a operaia: la sua storia, assieme a quella de i’berva e di Dario, ci ricorda che dietro a ogni teoria sulla presunta fine della classe operaia, quel che si dimentica è che la classe operaia esiste ed è fatta di carne viva. E gli applausi risuonano. Ripenso a David Graeber quando diceva che con il suo immaginario la classe operaia si prende cura di sé. Raccontare storie operaie è fondamentale, perché ci permette di recuperare l’orgoglio, di riaffermare la nostra esistenza. Di resistere alle umiliazioni. Lo spiega bene Dario, quando racconta come hanno provato a cancellare le tute blu facendo indossare agli operai le tute bianche: sostituire il bianco al blu serviva ovviamente a distruggere la forza simbolica delle tute blu, ma serve anche a farti sentire sporco mentre lavori, a farti perdere l’orgoglio del lavoro manuale (dopo cinque minuti di lavoro in bianco in un ambiente metalmeccanico, sei ovviamente sporco e ti senti lo sporco addosso tutto il giorno, ti senti umiliato per quel che sei).
Alla fine il festival si scioglie, con la sensazione di quando una festa finisce. È stata lotta, è stata gioia e rivoluzione, è stato un atto di riappropriazione culturale. Ed è stato il pesce d’aprile al capitalismo. Uno scherzo di folli operai che hanno provato a mettere le mani sulla cultura. Lo rifaremo ogni anno.
Fotografie di Andrea Sawyerr