Ho letto Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti e devo ammettere che sul finale ho pianto, a singhiozzoni; cosa che non mi capita facilmente. Quando una volta Andrea De Alberti in una presentazione di Dall’interno della specie disse: riconosco prima di tutto l’emozione, poi il resto. La vedo così, intellettualizzare a distanza l’emozione (se sbaglio a citarlo Andrea mi perdonerà). Il discorso porterebbe a cercare di definire cosa sia l’emozione in letteratura; difficilissimo, da fare. Mi limito a tentare di spiegarla: tutt’altro che una risposta di empatia alla vicenda, è un’empatia al processo. Questo libro Teresa Ciabatti – di cui non ho letto altro, riporto solo che alcuni lettori indicano La più amata (Mondadori, 2017) come prodromo – non finge di raccontare una materia di prima mano, in quest’ansia da autofiction che rivela invece tra i più un banale narcisismo, un’incapacità a lavorare sull’inevitabile scoliosi dello sguardo a cui ci obbliga la società della performance. Il suo è un egotismo stilistico, se stile e psicologia saranno mai cose separate.
In breve, una Teresa Ciabatti autoromanzata racconta la vita da scrittrice di successo (aperiodico, aleatorio), che però nasconde un insuccesso vitale, dettato dall’incapacità di coltivare relazioni, con la figlia soprattutto che non casualmente si chiama Anita, “piccola Anna”, quando Anna è la madre della Madonna – il ribaltamento del rapporto Madre-Figlia è un Leitmotiv, e il senhal è pacifico indizio. Il perché starebbe nell’adolescenza passata da emarginata, che è l’ombra lunga della sua vita: così l’ossessione ecumenica su corpo e sesso, fatti diversi anche se metonimici. L’oggetto invidiato durante la scuola superiore è Livia, sorella maggiore della compagna Federica – la famiglia di loro è chiaramente aristocratica, che non guasta. Ancora onomastica: Livia da liveo, invidio. Tutto ruoterà attorno a lei, anche dopo, quando quella vita sembra lontana ma ritorna prepotentemente come conto in sospeso (la risoluzione è un altro dei grandi tempi, la chiusura del cerchio terapeutica).
Il fatto, cioè la stimolazione nel lettore di un’empatia al processo e non (necessariamente) alla vicenda si può riassumere così: l’autrice opera una separazione non banale tra l’io narrante e l’autore. L’autore già proietta un’immagine di sé che racconta. Poi inventa, trova un io narrante. Cose da formalismo russo a Seymour Chatman. Se il libro è in prima persona questi due individui finzionali sembrano coincidere, e il più delle volte non si fa sforzo di disvelamento né di problematizzazione. Qui sì. Perché la vicenda viene raccontata (secondo una temporalità tutt’altro che lineare, con continue analessi e prolessi) come se si dovesse sempre rendere conto della sua veridicità a qualcuno (un lettore? uno psichiatra? un giudice? same person), attraverso un discorso interpretativo continuo che però diserta, a un certo punto, l’oggetto. In altre parole, la storia, anche minima, anche personale, è un simulacro, esiste solo l’interpretazione della vicenda e se si è abbastanza consapevoli l’interpretazione contiene in sé il suo opposto, in una dialettica irrisolvibile. Cose pacifiche, da Novecento: Ciabatti però mi sembra elevi il fraintendimento a modo (in)esatto dell’ontologia del testo, provocando continui rallentamenti e accelerazioni, semplicemente ammettendo di cercare di capire, di non riuscirci e soprattutto di non avere le idee chiare, che equivale ad averle, quando: “Per amore di letteratura dunque, per rispetto di verosimiglianza, non da ultimo per pigrizia […] devo correggere questo racconto, e confessare”. Confessio tutta cattolica, quando i peccati minori si dicono, si fa il segno della croce e si è pronti a cadere di nuovo. Ma poi: letteratura e verosimiglianza? Ciabatti è tutt’altro che tassiana.
Quando la comprensione è piena, all’epilogo (che è infatti un’Appendice), il disvelamento della verità non convince volontariamente, allude ad altre tribolazioni che grazie al cielo non sono raccontate, perché l’ansia sarebbe insopportabile. La pace sta fuori dalla pagina scritta, che asseconda il nostro pensiero ossessivo, talvolta sostanziandolo talvolta disinnescandolo. In realtà, sarebbe sufficiente disattivarsi.
Se il “fastidio” che si prova leggendo Ciabatti viene dall’ostentazione del diaframma tra l’io bulimico e il mondo assente, anzi separato, anzi incomprensibile e cattivo; quindi dall’ostentazione delle risorse linguistiche e cioè automitopoietiche come armatura dorata contro il mondo; c’è un altro fastidio, che viene più dal senso di incompiuto che emerge dal testo inteso formalmente: forse la scrittura, aritmica, interrotta, sconnessa – dismissione stilistica programmata (e riuscita!) che può allontanarsi con un ulteriore sforzo dall’autenticismo, dallo spontaneismo, ancora ossessiva al secondo grado; forse le pillole di saggezza che sembrano biscottismi (“a dimostrazione che a cambiarci non sono le condizioni, rimaniamo immutati nella sfortuna e nella fortuna, malevoli”; a un punto però ci si rende conto che in nulla differiscono dai motti che ci facciamo per non soccombere, in silenzio); forse le cautele messe in atto, come note asteriscate a piè di pagina, per non essere fraintesi, ma è tutto un fraintendimento e la “storia vera” che sta alla base non dovrebbe importare, non dovrebbe essere un occhiello (c’è anche questo gioco, di apologia di sé e di gogna). Il fastidio avvolge il libro per interporlo come capro espiatorio tra l’autrice e il lettore? Il fastidio è la spinta indiziale al fraintendimento del libro stesso? Il fastidio è, invece, accessorio?
La chiave del libro la vedo nell’eredità. In cosa mi è stato tolto al parto, in cosa vedo in mia figlia, lei che se è parte di me in qualche modo è coinquilina del mio corpo, è madre anch’essa. L’eredità è anche un gioco a premi, televisivo; chi ha occhi per intendere intenda: “Risarcite questa bambina a cui ho fatto male”, chiudendo. Siamo in questa terra che dà un’economia, una quantità alle relazioni: che in questo immaginario, in questo rapimento possa funzionare, il riscatto, chi lo sa.
Post scriptum: l’analisi evidenzia un modo di operare, qualcosa che fa sistema attraverso uno solo dei libri dell’autrice. A rigor di logica, può essere una ripetizione dei precedenti testi; nella ripetizione non troverei, eventualmente, alcuna mancanza di originalità. Anzi il tentativo di far ragionare questa originalità. Vedere questo libro come una sezione storica di un processo.