Simone Marcelli Pitzalis è natə a Cagliari. Negli anni, suoi numerosi racconti e versi sono apparsi su web-zine, magazine, quotidiani nazionali e volumi di racconti. Ha pubblicato due raccolte poetiche: La giornata altrove (Giuliano Ladolfi Editore, 2015) e Archivio privato (Zona, 2018), per il quale è statə premiatə col Premio Nazionale Elio Pagliarani – Sezione inediti. Il suo primo romanzo, Questo è il corpo, è uscito per effequ nel 2022. Nel 2024 ha pubblicato la novella La parabola della matriarca (Zona42). Tra i contributi teorici si segnala «Spossessioni. Ipotesi di scrittura queer», pubblicato all’interno del volume Queer Pandèmia (Edizioni Tlon, 2023).
Segue il testo una nota critica di Carlo G. Bellinvia.
Salmo delle anime intatte
in verità, in verità vi dico che solo una legge riconoscerete:
la legge dell’inquietudine che sdegna la pace, la legge dell’eterna transizione,
poiché a ogni processo di transizione di genere corrisponde
una riscrittura completa del contratto sociale:
così ci ha detto mario mieli, sempre sia benedetto, santo che conserva
in culo il tesoro prezioso, fonte di salvezza
poiché siamo un desiderio spaventoso, profondo come una tomba siamo
la fine che bandisce la storia e zombie labruciani affamati di stronzate
da famigliole felici e fasciste, da scuole e campi di rieducazione
chiamati istruzione, penose amicizie e amore e ospedali
e il bene,
la più fascista delle parole
o forse siamo solo storie negate, racconti taciuti perché le bocche nostre
si spalancano d’orrore come quelle dei pesci
sul bancone del mercato, i pesci ammezzati
gettati dalle reti come la carne trita, come detriti di storia,
riverberano e sono schegge: o stelle cadenti, guardate le stelle
che cadono o rigano il cielo di luce, comete, come annunciano la morte
dolorosa della santa bambina; la mia morte fu annunciata dalla stella di fuoco,
stella di fuoco che marchia i contorni maledetti e spezza in sincopi il canto
con cicatrici nel cielo meridiano la stella maligna di luce, sulle azzurre
acque del mediterraneo a cui tornano le anime nostre
che sorsero come astri
che ora piovono e sono ombre
dalla mamma degli abissi che sta nei fondali, benedetta madre abissale e oscura
tu non proteggi e non consoli, solo ti stendi illimitata nel fondo oscuro della vita
illimitato suolo sabbioso di vite polimorfe; guardate, disse il santo, le anime intatte
le bambine polimorfe e perverse, mutevoli mutevoli e gioiosamente mute
a ogni significazione: l’abisso era infatti scuro e denso di ogni cosa
in principio la gioia era scura e densa di ogni cosa: vita, ovvero
tutte le possibilità dell’anima che coesistono prima della paura;
nell’infanzia la tua anima è intatta, prima della paura:
canta nina, non dimenticare, bambina, che la tua anima era intatta
un giorno che non ricordi, prima che ti facessero del male, prima
che ti ferisse il nome, con gli sguardi sulle spalle, gli occhi tra le gambe,
prima che ti tagliassero con i nomi tu eri intatta, bambina, e gioiosa e oscura
illimitatamente. guardate le stelle
guardate le stelle che cadono dal cielo al mare, guardate le nostre anime tornare
a una madre che non ci nomina, iscriviamo cadendo per l’altezza del cielo
come sassi solchi di strade interrotte, o croci storte di camposanti
disconosciuti, smascheramenti di fosse comuni dove gettano la fantasia
nostra per mezzo dei corpi vilipesi, sorti come astri e caduti come sassi
i corpi nostri caduti come sassi
in verità sorgeranno come astri, saranno stelle
guardate i nostri corpi vilipesi che cadono e rigano il cielo come carne
per i pesci; non tutto ciò che cade dal cielo è sacro: il dolore non lo è mai.
in verità, in verità sappiate che tutto questo dolore è soltanto un errore,
sono solo storie negate che inventeremo da capo, solamente storie
che racconteremo con rabbia. ciò che esiste è la gioia
sempre sacra, la gioia che ci rischiara i volti, i nostri volti deformi di pianto
e illuminati dal sole potente che domina i cieli: perché ci fu puntato contro
come arma fiammante, l’astro solare: invece è nostro, ora
ora può essere nostro il sole, sorelle,
se insieme sfidiamo il suo sguardo
era stato creato contro di noi, il sole di fuoco
e noi ora ne dominiamo la luce, noi tutte, se nel buio dei fondali
ci amiamo e per un momento siamo di nuovo alla luce,
cucciole solari radiose nell’abisso, come prima dell’istante di terrore,
risorgiamo con la rabbia che riscrive il mondo per la bellezza
pentecostale e spietata di daphne bohémien
come di specie alloctona e invasiva.
ricordate: paul preciado ha scritto che la storia è stata distrutta
e il terrore è tornato in superficie: il mare
si fece lastra di tomba, un carnaio di vite mozze e corpi lavorati
dalla macchina per la pesca industriale, si fece putrido e marcio
e il mare divenne una palude e l’abisso si fece limo pastoso
in cui la vita solo si dà come detrito:
vennero alla terra ferma
il bimbo buono e la bimba cattiva, capostipiti e prole della mia anima rotta
o madre che mi hai abbandonata, o madre che forse più non mi ascolti,
genitori e prole del mio dolore, il bimbetto e la bambinaccia
a milioni lasciavano in quel tempo le acque
sorprendenti eserciti infelici di giovanissimi condannati fuoriuscirono dalla terra
in processioni di penitenti per le province tristi e rabbiose,
per le metropoli spietate, eravamo una processione di penitenti
e non conoscevamo il nostro peccato. ho visto l’esercito infelice
emergere dalle acque, sospinto dall’urlo dell’angelo mostruoso: era un angelo
di morte e spalancava alla folla due soli occhi spenti:
immaginate l’orrore di avere due soli occhi a separare il mondo
agitando, come angelo maligno, soltanto due occhi e due braccia
insanguinate per dividere uomo e donna, farne patologia, aprire
le gambe cercare lungo il segno genitale attraverso le labbra e lo scroto
seguendo il segno, la forma del cromosoma
al fine della capitalizzazione della forza, dell’accumulazione originaria
secondo silvia federici del capitale, mediante la disumanizzazione
e i roghi nelle piazze splendenti a guardia della riproduzione sociale
e i missili sui campi
immaginate che orrore cercare significato in una creatura bambina
o in una checca, in un corpo-frocio rivoluzionario
immaginate che orrore se cediamo, se lasciamo che si imbrigli la forza furiosa del queer
divenendo frocetti da cortile, damine e finocchietti amabili e creativi
rassicuranti rassicurati in cambio dell’agio, del ricatto, pieni di significato sociale
poiché in verità, ha detto lisa duggan, vegliamo, la norma familiare
è un modo attraverso cui il capitalismo neoliberista assimila e neutralizza
le potenzialità radicali dei movimenti queer, promuovendo una versione della furia
nostra che si adatta alle logiche di mercato e consumo.
diffidate invero dai falsi profeti che in cambio di contratti editoriali
non parlano a noi popolo mostruoso benedetto, ma a signore e signori
genitori per benino in cerca di assoluzione
per la colpa di aver perpetrato la macchina del dolore
ricordate: la rivoluzione parla a se stessa
e un profeta si riconosce da chi lo ascolta.
allora, spinte dall’angelo del dolore disperatamente cercammo
la parola di natura, il segno retto per il retto desiderio di identità
a sé, cioè alla parola, alla legge
il mare si fece palude putredinosa e dall’innominata gioia sorgevano
malignamente i sé: ma nessuna di noi era adatta alla vita
e fu una moria di pesci
e tutti quei pesci morti erano i sé e noi siamo pesci morti, bambina
siamo le cataste sulle spiagge, siamo le gioventù spaventate delle province occidentali
umiliate da promesse condanne, siamo le gioventù metropolitane perdute nell’urlo
siamo l’urlo dei pesci ammezzati sul banco del mercato
le custodi feroci di bambini decapitati,
della loro immagine-cicatrice sul volto della storia
le bocche spalancate affamate di vita e gli occhi di vetro e paura
perché hanno cercato in noi il segno retto
ma è una tomba il retto, se lo apri, è l’abisso che ti perde
è godimento inutile e sacro la nostra rettitudine: fatevi da parte, oppure vi mangi
il retto nostro che leo bersani chiama tomba: tombaroli dei nostri tesori
guai a voi che ci avete scavate rettamente perché invero
noi vi smarriremo nel buio della nostra rettitudine, nel desiderio gioioso
vi inghiottiremo come il buio inghiotte le stelle
e cadute come sassi sorgeremo come astri,
brillando in un presente eterno e futuribile
dicendo no al futuro come progetto, come riproduzione del valore
esplodendo in jouissance, urlando per le strade riconquistate
i no di lee edelman e silvia calderoni
e non vorremo riscatto per l’insulto
diremo no al futuro
e per questo vivremo per sempre.
gettate come pastura nel mediterraneo popoloso di morte
come carne, saremo onde e ci riprenderemo le terre
distruggendo le coste con furia, o corrodendo
gli scempi di orribili città costiere e palazzine di villeggiatura
per famigliole o coppiette tamarre, con la pazienza della ruggine,
con la voce del vento salmastro: il canto della mamma degli abissi
siamo noi quella madre abissale!
affacciatevi uomini nel buio tremendo del nostro retto
desiderio, cercateci i nomi dentro, scavate e cercateci i nomi
ci troverete cristalli fragili di rivoluzione, checche ed erinni
ci troverete cristalli taglienti e fili che tramano daccapo
e i nomi sorti come stelle
di fuoco maligne e taglienti cadono come sassi a strapiombo
nel buio feroce dei nostri disastri
poiché disastro vuol dire senza stelle
i desideri abissali e senza nome, solamente si schiudono nelle vastità
di amori e corpi innamorati e famelici come nuove leggi
di società senza insegne
le città nostre fondate sugli abissi, fondate sugli amori
le metropoli nostre fatte di desiderio
e su nient’altro fonderemo rivoluzioni spaventose
con un gesto secco finalmente rovesceremo le geometrie del mondo
e il mondo sarà solo uno slancio periferico a perdita d’occhio
saremo un unico margine di buio e luce
tra le pieghe interstiziali rinasceremo illimitatamente
to survive the borderlands / you must live sin fronteras /
be a crossroads, cantando gloria anzaldúa sulle linee marginali
del cosmo-superficie non ci sarà che estremità
poiché la speranza è una modalità della critica
poiché il presente non ci è sufficiente, in verità
in verità josé esteban muñoz ha detto: gioite, gioite
poiché la queerness non è ancora qui
la queerness è un’idealità. in altre parole, non siamo ancora queer
potremmo non raggiungere mai la queerness, ma possiamo sentirla
come la luce vigorosa di ogni potenzialità
saremo allora quella luce che trionfa e sfumeremo perdendoci nell’infinito
istante in cui non esiste paura e le anime nostre, sorelle
saranno intatte. o sante bambine, le anime nostre lo sono sempre state.
Nota critica di Carlo G. Bellinvia
Pur nell’impostazione veemente dell’ ”urlo”, nel Salmo delle anime intatte di Simone Marcelli Pitzalis si trova un investimento di fondo nel “buono” della specie, in una nuova innocenza fatta risiedere in un progresso rifondativo dell’umano e nell’ambizione di rivolgersi a una “sorellanza” che non è altro che umanità già in sé assorbita, metamorfizzata, compresa in parte dai tempi: un movimento generoso nel suo protestare protestante, che prova a recuperare i suoi motivi e le sue origini giusto al largo delle correnti storiche del pensiero o, meglio, dei “pensieri” , proprio dove si annullano il disturbo e l’inquinamento delle voci e delle vocalità protagoniste della Storia fatta: vi riesce cominciando il discorso da riferimenti teorici che, in questo contesto cosmogonico, assumono forma e valore profetici, come primo proponimento dell’umano ripartire.
Il verso lungo si presta a quest’informazione di brevi cenni teorici integrativi, ed è ricostruzione da zero e dal basso, con l’elezione affatto esclusiva di un Popolo che, con quello biblico, “eletto” appunto, non c’entra niente e che al massimo si giustappone senza scadere in grossolane parodie. Le ripetizioni di parole e riprese di concetti, tipiche del salmo, non portano in effetti a ridondanze ma anzi ampliano a ogni utilizzo il loro senso, in modo ulteriore. Il salmo, infatti, prevede il rafforzamento di idee grazie a studiati completamenti: questi dettagli nel testo sono meteore che giungono dappertutto, con propositi argomentativi immaginifici e però certo credibili.
Un ottimismo vitalistico apporta energia alla parola in sé, rigenerata rispetto ad Archivio privato, opera di Pitzalis vincitrice degli inediti al Premio Pagliarani di qualche anno fa, dove una landa straniera fagocitava il soggetto che veniva a sottostare dentro una lingua per nulla “sorella”, casomai matrigna, per arrivare adesso a questo inno, su cui agisce una migliore consapevolezza nel linguaggio, consapevolezza, come l’autorə stesso suggerisce e immagina, “pentecostale”.
Nell’Archivio lo sfinimento lavorativo che generava il numero umano lo indicava perciò carburato, esausto e senza una sua riciclabilità, mentre in Salmo è presente in un motore in tutto e per tutto ecologico e autoalimentato: i numeri “da operare” , “operabili” mostrati nell’opera precedente insorgono e rinascono qui come numeri puri, innocenti, “intatti” proprio perché non sottoposti né sottoponibili a operazione, a calcolo, puliti da qualsivoglia abuso e commercio.
Numeri inviolati che non si sporcano in vani cataloghi o elenchi. Numeri che diventano quindi soggetti fiorenti e validi. Questa rincorsa di parole in tutta la sua estensione, allungandosi e sovrapponendosi ripetutamente con stimolo e vivacità nello slancio, arriva elasticamente. Lo scarico galleggiamento nell’attualità negata che emergeva in
Archivio raggiunge qui un farsi davvero liquido. La poetica “privata”, dunque, si fa ora decisamente più aperta, diretta verso un canto ecumenico e “altruista”, trovando il modo di lasciare una sua traccia collegante e depositando, nel senso di chi legge, la sua preziosa salinità.
In copertina: I am sorry on behalf of everything that doesn’t exist (2011) di Lisa Jonasson.
Nell’articolo: Känsla för detaljer, känsla för helhet, känsla för allt (2011) e Samtidigt på baksidan av kroppen (2012) di Lisa Jonasson.
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