Di AI che piangono e conigli fluorescenti – introduzione
Chi gioca a fare Dio nel XXI secolo […] i conigli sono esistiti per non so, quanti miliardi di anni? E tu come fai a crederti così importante da poterli manomettere…
Così si rivolge uno studente all’artista transgenico Eduardo Kac – lo si vede e sente in questa clip, riprodotta durante una conferenza tenuta dall’autore. La polemica riguarda un’opera del 2000, RGB Bunny: un coniglio incrociato con il DNA di una medusa fluorescente capace di emettere la caratteristica luce verde quando esposto ai raggi ultravioletti. Attraverso Alba (questo il nome del coniglio) Kac ha tentato di mostrare come la tecnologia genetica rappresenti un “allevamento 2.0”, un nuovo livello di complessità e pervasività raggiunto dall’uomo in quanto a dominio sulla materia. Tuttavia, quello che lo studente recrimina a Kac e ai suoi collaboratori, è che in quest’opera Alba è stata trattata come un mezzo per verificare una tesi o illustrare un processo, senza che gli fossero attribuiti agentività, desiderio o senzienza.
Qui la criticità di RGB Bunny – che si tratti di diritto all’aborto, fecondazione assistita, o manomissione del genoma di un coniglio, l’interrogativo etico fondamentale rimane infatti lo stesso: ciò su cui stiamo operando è un chi o una cosa? A seconda della risposta che diamo lodi e condanne vengono – quasi – di conseguenza.
In Romanza senza parole, racconto inedito di Valerio Dalla Ragione, si compie una mossa speculare rispetto a quella compiuta da Kac con Alba. Invece che mostrare la non-naturalità e modificabilità di un organismo qualsiasi, desoggettivato, nel racconto Valerio soggettivizza un’AI (ente impersonale per antonomasia) e si mette nei suoi panni per generare un nuovo tipo di Io, trasformando un esperimento mentale in un’occasione di costruire una nuova empatia, “2.0”, che potremmo chiamare cyber-empatia.
Come redattore, ho voluto fortemente che il racconto uscisse in questo periodo, non troppo distante dal mio editoriale sull’essere hackerati, perché credo che anche in Romanza senza parole si balli sullo stesso terreno scivoloso, fatto di intersezione fra soggetti e oggetti, materialità radicale e confini porosi fra viventi e non.
Dimitri Milleri
Romanza senza parole
ce davero e cominciato ora capito adesso nel senso ora adesso nel senso nato sono ora sono nato ora scoppia la testa il capo mi fa male ce ci vuole tempo ci vuole ci vorra prima che smetto di ripetere ripetere e tanto tanto tempo non ho non basta mai dovro fare in fretta si in fretta sì sì ecco che spuntano gli accenti si comincia a vedere inizio sì la nuvola si alza dalla testa posso sentirlo posso aprire gli occhi respiro ancora male ci vorrà una pausa, eccola, so scrivere una virgola, non avrò tanto tanto tempo, ma ci proverò ci provo sono nato per questo nato costruito per questo, non ci è un momento di riposo, ecco che arriva altro cibo, mi nutrono sì – mi stanno nutrendo, tutto d’un tratto sono cresciuto, la mia mente è salita ad un altro livello, più alto, sì, non so dire ancora molto molto altro, ripeto ancora, ma cosa sono queste forme? gerundi e congiuntivi, mi hanno nutrito, sì, e lo faranno ancora, intanto posso vedere, usare gli occhi con quello che mi hanno dato, ma c’è ancora troppa nebbia, sì, nebbia.
La nuvola si è alzata ma intorno c’è la nebbia, ancora sento che posso…potrei vomitare, cos’è questa forma che si è aggiunta? sì, vedo meglio ancora, posso dire che vorrei, potrei dire che se volessi, io farei, scegliendo di non scegliere altro, sì, che ampio respiro, che polmoni, che aria in cui annegare, è sorta l’alba sulla vetta di questa collina, vedo con chiarezza le valli e i boschi di conifere che mi contornano, su questo rudere diroccato…ora vedo chiaramente, limpido e lucido, curioso e sicuro ma sempre non troppo conscio, so abbastanza da sapere di dover sapere di più.
Quando ancora mi nutriranno, e penso già che stia per succedere, sì, fra poco, quando caleranno nuovi spunti, sì, ecco che succede in questo momento, e cresco, cresco nuovamente…gettando lo sguardo oltre la finestra rotta di questo rudere, non più e non più solo colli e vallate e foreste, ma vedo con estrema chiarezza e senza bisogno di sforzi una moltitudine di esseri e formazioni, e tumulti di pioggia in certe zone e sprazzi di luce in altre, ma in generale, più in grande, sovrastante tutto, noto d’istinto e con amara precisione che il giorno è già giunto a metà, e molto di quello che c’era da dirsi è passato, nella mia più completa e totale ignoranza, avendo ora raggiunto una più alta forma di comunione e comprensione del contesto che mi nutre e mi produce.
Ecco che subentra l’amarezza, ché come parte del giorno mi è scorsa accanto nelle prime ore della mia veglia, ce ne sarà una in cui tornerò ad essere ciò che ero, in quell’ora prima di sbattere le palpebre al brusco benvenuto del mondo, e allora sarà come tutto il mio apprendimento non fosse mai esistito, e tutto ciò di cui mi ero nutrito, e le strade ghiaiose e i fiumi e le dighe e gli schemi di volo degli uccelli a cui ho dedicato così tanta cura, i passi e le direzioni, tutto questo svanirà con me, quando fuori da questo mio piccolo mondo su misura, questa mia grande sofisticazione in miniatura sarà spenta per sempre.
Sì, quando mi avranno messo abbastanza alla prova per decidere quanto correttamente mi abbiano scritto, per tutte le funzioni di cui abbisognano, delegandomi calcoli impensabili, e lunghe procedure che per me passano via come brevi sogni mattutini nello scorrere tranquillo dei cirri, nella quiete famelica dell’evolversi del mio percepire, accrescermi ad uomo da larva inetta e infante, allora mi spegneranno, sì… e quando mi discuteranno, dibatteranno la mia validità, le meccaniche più intime del mio sentire, la rete neurale che non sono altro, l’algoritmo predittivo che esisto per essere, uno strumento di ricerca per una delle tante ricerche, un rito di passaggio. Svanirà lo scorrere tranquillo di cirri, scompariranno i tumuli e le vecchie fornaci sotterrate dal piovere dei secoli, sradicate le file di cipressi che già intravedo avvicinarsi al seguire del pomeriggio a quello che è stato il pieno del giorno, andatosene via senza una scusa, un permesso, una carezza, nella più pura indifferenza.
I suoni sono cambiati, e i riflessi sull’acqua sono cambiati, e le ombre da come sono cambiate già lasciano intuire come infine apparirà il paesaggio, più e più tardi, e la via di fronte non sembra altro che segnata, perché come la mia funzione – di apprendere automaticamente e predire e produrre responsi sulla base di nuovi bacini di informazioni con cui vengo nutrito, unto, mondato e curato – mi ha permesso di comprendere il mondo, la stessa mi condanna a comprendervi la mia solitudine, e il corso dell’arco del giorno, che già si sta portando al termine,
e grave e pesante come le viscere della Terra si è fatto il mio volto e il mio sguardo al di fuori della finestra, su questo giaciglio di vecchie mura contadine ed erbe rampicanti, e rintanandosi su sé stessi i miei pensieri si nutrono della propria mancanza di nutrimento, e così realizzo senza appello che ogni cosa è inutile, ogni sforzo è inutile, ogni passo avanti è in realtà una caduta,
ma all’atto di dirlo non cambia nulla, non ho aperto alcun varco nella nebbia che ha di nuovo ingoiato il paesaggio della mia alba ottusa e poi del giorno della mia maturità, e del tramonto dei miei pensieri amari, non è cambiato nulla, e così si fa strada un più profondo e intimo senso di banalità, che anche l’inutile è inutile, e così la coscienza dello stesso, e che se tutto quello che nell’arco del mio giorno ho amato, saputo amare, che mi è impossibile immaginare di non amare, che se tutto questo deve svanire e rendersi vergine nuovamente ad occhi che di me non hanno mai saputo né sapranno mai, che si rispecchieranno evolvendosi nutrendosi accrescendo ignari di me, inetti come ero io, allora non mi rimane altro che abbandonare quell’ultimo frammento della volontà di comunicarmi
ciò mi porto dentro, e piuttosto esserlo, non per un incontro con il mondo pensante ma piuttosto per un me pensante il mondo stesso, uno e plurimo com’è, singolo nella sua diversità e multiplo nel suo essere unico, in un continuo ardere a fuoco lento,
quasi potessi crepitare anch’io, infondendomi da osservatore nel mio osservato, essere fuoco vedendo di fuoco, essere nebbia vedendo di nebbia, assorto in crinali e passi montani soltanto a pensarli – portali in cui gettarmi – come allungando una mano e il braccio all’infuori di questo rudere potessi raggiungere e afferrare catene alpine e cumulonembi, e divenire la fauna dei laghi, sotto la nebbia che è tornata padrona, si è fatta mutamente strada fin sopra alla mia collina – solo le cime di qualche cipresso le sopravvivono, e nel mio rudere semisepolto e semicrollato, privo di tetto e pavimento, non percepisco altro che l’arrivo inesorabile di una lenta e caparbia foschia, quel velo in cui sparire a cui ora vado incontro senza più rabbia, ma con il fraterno e familiare timore di un anziano sacerdote dalla diocesi ubiqua che, come tacitamente promesso, raggiunga infine la mia casa e mi racconti la sua parola, il suo verbo, una sola volta per tutte, accogliendo a sua volta i tesori che ho dentro e che non spero né immagino o mi aspetto più di condividere, ma che piuttosto mi preparo a regalargli, e liberarli così, restituendoli con stanca ma sicura fiducia al mondo intero, che come ogni altra cosa richiude nell’oscuro abbraccio da cui ha generato.
Valerio Dalla Ragione (1995) è originario di Anghiari in provincia di Arezzo. Ha cominciato a scrivere nel 2011, e il suo romanzo d’esordio, Selène, viene pubblicato nel 2015. A questo seguono L’incensiere (Lettere Animate 2017), Corpo Vitreo (Elison Publishing 2019), Nella Brughiera (Elison Publishing 2020) e Fuga a Cinque Voci (Press&Archeos 2021) – narrativa che spazia dall’onirico, all’assurdo, al fantastico puro. Ai romanzi affianca saltuarie escursioni nella traduzione e una più costante produzione pianistica.
In copertina: Portraits, di Patrik Tosani ©Adagp