Là fuori: esile e leggero quanto il titolo che porta, l’ultimo libro di Corrado Benigni – vincitore del premio Ciampi-Valigie Rosse 2020, con una nota di Paolo Maccari e 6 fotografie di Olivo Barbieri – ha per contrasto un peso specifico rilevante e merita qualche parola che non sia impressionistica. Innanzitutto un inquadramento: formalmente, è questo un libro di poesie senza ombra di dubbio, ma alla lettura dà la netta impressione di essere soprattutto un discorso per come lo si intende noi, ovvero un’attenta opera di riflessione su posizionamento, identità e responsabilità del poeta di fronte alle immagini del mondo.
Secondo Andrea Cortellessa su Antinomie, in questo libro la scrittura poetica di Benigni riconosce nell’immagine «uno specchio oscuro, un attivatore di ambiguità»: in effetti, senza essere gravemente metaletterario o indulgere in formalismi asettici, Là fuori è un libro di poesia che avanza una vera e propria teoria dello sguardo verificabile in un tracciato esistenziale ben preciso, un «nudo riconoscimento» (Maccari). Sembra confermarlo lo stesso poeta con un passaggio dichiarativo:
Le asserzioni, le interpretazioni della realtà di Benigni giungono a noi senza aggredire, come rallentate dai dissuasori di un ragionamento che viene pronunciato con tono riflessivo e lingua misurata. Su un altro piano del libro, a distanza solo apparente, è attivo un discorso di metafisica del paesaggio, nella fattispecie quello di provincia (o, per meglio dire, il terzo paesaggio, di cui Benigni ha già parlato con Laura Pugno su LPLC): la ricerca di una «grande apertura nello spazio, là fuori» (p. 11), «un segreto che [i paesaggi] ancora possiedono» (p. 24). In altre parole, l’attesa di, o il cammino verso qualcosa (p. 14), l’attesa di un chi o un cosa indefinito che chiama con voce insistente e insiste negli occhi come un frego rosso nell’implacabile geometria urbana di un luogo vissuto e invivibile. Aveva le sue ragioni Mario De Santis a definire Benigni, in una recensione del libro precedente (Tempo riflesso, Interlinea 2018), «un kafkiano che crede in Dio».
A partire dal titolo – e in quasi tutte le poesie del libro – Benigni fa uso metodico dei deittici come dispositivi di collocamento di soggetto e oggetto nella scena osservata: una sorta di compitazione “kasparhauseriana” del mondo circostante, cui segue la necessità di stabilire nettamente, annullandosi in essi, confini geografici e geometrici della realtà tramite il disegno in versi di curve, limiti, sensi unici, semafori, cigli della strada, recinti, aggregati di case, tralicci, fili, nomi di luoghi inesistenti. Preposizioni, aggettivi, avverbi vengono utilizzati come cippi confinari o cartelli stradali chiamati ad assestare lo sguardo, interrogando distanze e spazi, prendendo atto del funzionamento.
La parola poetica funge da cursore durante le prove di posizionamento del poeta nel mondo: la realtà (o presunta tale) viene intrapresa continuamente come qualcosa che è al di fuori di sé, una manifestazione quieta, materialisticamente epifanica che per qualche ragione occupa uno spazio al di là dagli occhi della mente, e attiva continuamente la sensibilità del poeta.
Per capire la dialettica che anima questo libro è utile individuarne i due poli: l’occhio come agente visivo circoscritto nella mente; lo sguardo come atto spirituale compiuto dalla parola, ovvero ciò che guarda all’esterno della mente («C’è uno sguardo delle cose / che fa del visibile una presenza», p. 19). La parola, in quanto creatura sempre esterna alla mente, pur senza appartenere alla «materia inerte del tempo» (p. 8) si trova sempre ad agire dentro il tempo, che è continuo andirivieni tra passato e presente nella «grande galera» dello spazio. Così, trasforma in memoria ciò che gli occhi della mente si limitano a guardare: un «eccesso di realtà» (p. 33) che, senza la profondità dello sguardo, condurrebbe alla sparizione di tutto (p. 33), un vuoto su una pianura «senza orizzonte» (p. 11) fatta di «fenomeni esterni» (p. 13) che hanno la stessa forma dei pensieri di chi osserva.
Per l’occhio della mente, la realtà appare come mero materiale organizzato su una superficie piana, punto prospettico che si sposta continuamente con colui che guarda («e quel punto si sposta con me mentre cammino», p. 17) fino alla «reversibilità dello spazio» (Maccari, p. 45), per cui io, soggetto, «vedo il paesaggio che guarda me». In questo processo di dizione speculare del reale, ai numerosi deittici, per paradosso vengono affiancati avverbi indefiniti che dis-orientano: «dappertutto quest’aria», «qui da qualche parte», «qui altrove», come se i luoghi sfidassero continuamente la loro sparizione, l’inesistenza a cui sono destinati.
L’unità d’immagine prodotta dagli occhi viene restituita in poesia da uno sguardo difettoso, un «difetto della vista» (p. 28) che, secondo Lorenzo Chiuchiù, «arrestando il fluire delle immagini, sospende il tempo» e spalanca alla «constatazione» (Maccari). La parola quale atto dello sguardo al di là dell’occhio fisico fa emergere le pieghe di un’incrinatura, una smagliatura (p. 24) d’ambiguità nella visione, quella «forma di indugio» (p. 7) che autorizza l’evasione della poesia dal circuito obbligato della mente, dai suoi criteri restrittivi.
E se parliamo di parole, forse possiamo prenderne una dal titolo del libro e utilizzarla come mera legenda fonosimbolica del libro, senza la pretesa di assolutizzarne il valore. Fuori: è il suono della fricativa labiodentale sorda f a indicare una possibile direzione dell’itinerario tra le parole utilizzate da Benigni. La parola nasce nella cornice-rifugio della mente, nel faro visto da vicino (e quindi insignificante), ma, per consistere, opera una fuga fuori dalla mente, che trasforma l’immagine in figura, come una fotografia o un faro che, visto da lontano, mostra finalmente il suo messaggio. Le figure sono «cariche di tempo, sfigurate / in perenne lotta con il fondo che le trattiene».
L’occhio si limita a vedere la realtà, mentre la poesia in quanto esito dello sguardo poetico corrisponde al meccanismo della camera oscura: ribalta l’immagine veduta dall’occhio e la riproietta all’interno di noi come figura, pietrificandola in memoria. Ed è per questo motivo che Benigni, guardandosi in una vecchia fotografia, può definirsi «Io contumace, ombra e sfuggente presenza / pixel o parte di un tutto / di quello che l’istante dopo non sono stato già più» (p. 32) nell’attesa di sentirsi non più immagine ma figura, accomunato a ogni altra cosa visibile nel mondo «da un disperato desiderio di persistenza / da un identico destino di creatura» (p. 37).
Bernardo Pacini
Corrado Benigni è nato nel 1975 a Bergamo, dove vive. Ha pubblicato i libri di poesia: Tempo riflesso (Interlinea, 2018, Premio Europa in versi) e Tribunale della mente (Interlinea, 2012). Con la raccolta Là fuori (Valigie Rosse) ha vinto il Premio Ciampi 2020.
Nel 2010 la sua silloge Giustizia è stata inclusa nel Decimo Quaderno italiano di poesia contemporanea, edito da Marcos y Marcos. Sue poesie sono tradotte in inglese, spagnolo, greco. Suoi testi sono apparsi su numerose riviste specializzate italiane ed estere.
Ha curato, per gli editori Silvana Editoriale, Humboldt Books e Mack, diverse pubblicazioni su fotografi italiani contemporanei, tra i quali Luigi Ghirri, Mario Giacomelli, Nino Migliori, Olivo Barbieri e Guido Guidi.
Corrado Benigni Là fuori Valigie Rosse con una nota di Paolo Maccari e 6 foto di Olivo Barbieri 19 gennaio 2021 Pagine: 48 p. 10 euro
Immagine di copertina: Francesco Terzago