GKN da lontano e lo strano effetto dei miei vestiti
GKN per me rimane qualcosa che posso vedere solo da lontano. Nell’ultimo anno ho visitato o ho vissuto molte città diverse: Milano, Dublino, Madrid, Bruxelles, New York – da settembre 2023 e per un anno, Londra. In nessuna parte del mondo c’è tanta moda come a Londra. Non è solo un fatto che riguarda le grandi vie del lusso, dove ti senti in imbarazzo a camminare perché sai che niente è fatto per te, che niente ti sta parlando. Ma riguarda anche i mercati di strada, le bancarelle sui marciapiedi di Spitalfields o Notting Hill. Da quattro o cinque anni circa ho smesso di comprare capi d’abbigliamento nuovi – compro solo second hand, usato, vintage, chiamatelo come volete, basta intendersi. Questo non vuol dire che compri meno, compro solo in maniera diversa. Consumismo bulimico applicato all’etica farlocca della mia generazione. In questo, Londra non aiuta e ogni fine settimana diventa un girone infernale tra la voglia di assecondare gli impulsi libidinali che arrivano dal bassoventre e un istinto di autopreservazione, almeno economica, che non di rado non riesce a prevalere. Di fondo, il problema è macroscopico: odio il capitalismo, ma amo i vestiti.
Vedo gli altri membri della redazione tutti insieme. I video durano il tempo di una storia, trenta secondi che sintetizzano una pulsione, una scommessa, un azzardo. Le notifiche sulla chat di gruppo mi parlano di altre foto, altre testimonianze di una giornata a cui non posso partecipare. Stanno mangiando seduti a terra, tra occupanti della fabbrica, membri del collettivo, privati cittadini che sentono il richiamo umano della lotta. Il dibattito prende corpo sullo scarno paesaggio industriale di Campi Bisenzio, tra due bandiere, qualche tenda. Chi ha il microfono in mano non ha la faccia di un conferenziere, nessuna camicia, nessuna cravatta e questo mi conforta. Poi marciano insieme, scattano un selfie in cui sono una piccola porzione di un serpente più grande di persone: le facce in lontananza si sfocano, ma non ha importanza. Gli indumenti sono quelli normali della militanza, scarpe comode per camminare finché serve, jeans – il logo giallo di GKN, una stampa industriale per contenere i costi sopra le felpe in cotone grezzo. Guardo il mio armadio e con la mente ne apro le ante e i cassetti, provo a visualizzarne il contenuto. Mi perdo. Se fossi là con loro non saprei che cosa mettermi.
Ho iniziato perché era alternativo e costava poco e questo ben si confaceva al mio profilo da studente liceale contrario e ostinato. Poi alla questione di gusto è subentrata una scelta etica, il riuso come forma di resistenza alla crisi climatica e all’inferno di un sistema produttivo che mangia vite e territori. Infine, ha di nuovo preso campo il desiderio del lusso: di quello infantile e inebetito di un ragazzino che guarda le sfilate di McQueen su Youtube e si chiede se un giorno gli sarà concessa l’ammissione a quel circolo. A quel circolo sono stato ammesso e alle sfilate ci sono andato. E la moda, pur usata, è tornata ad essere quello che è sempre stata, pelle di un’élite a cui appartengo, divisa di chi non dice, ma lo mostra, di non essere come voi. Per un po’ ho creduto nell’idea del lusso democratico, di quello a basso costo, dovuto al fatto che un capo usato è di fatto un pezzo unico. Ce l’ho io, è mio, ne è mio il possesso, ne è mia l’esclusività, ma in compenso costa meno. Ma più potente, a questo punto, è un richiamo di ritorno, che è il potere attrattivo della firma.
Mi rendo conto di essere diventato schifiltoso. Il capo usato, magari di ottima fattura, non mi basta più. Ci deve essere il bollo d’autenticità, la mente di un designer che ne certifichi il valore immateriale. Così, negli ultimi anni ho trasformato il mio guardaroba in un’infilata di piccoli tesori, cercati con cura, selezionati con fatica, scovati tra pile e pile di vestiti anonimi e senza volto. Perché quando li indosso sono io il mio piccolo tesoro di me stesso.
La psicogeografia del desiderio mi vorrebbe là con loro. Una sigaretta, un bacio, un fumogeno: le gambe incrociate di chi ascolta in un nodo tinto di blu denim. Non posso sapere cosa si sono detti e i riassunti non bastano a ricostruire. Da una parte l’amore pulsionale per questa metropoli londinese, dall’altra il bisogno fisico di tornare, per poter buttare il mio corpo nella mischia, per essere massa che si fa sentire, con la propria voce, le proprie ossa. Un anno a volte vola via, altre volta dura più di un anno. Il rosso delle felpe è l’unica cosa che risalta in mezzo a una cromia di grigi, di neri, di fumi di Londra. In ogni sorriso, in ogni frase che i miei amici condividono di quella giornata vedo la delega parziale e coscienziosa della propria individualità a favore di qualcosa di più grande di me, di loro, dei lavoratori della fabbrica. In quel contesto sento che i vestiti non sono frutto di una scelta. Nessuna possibilità di mediazione cosmetica, nessuna concessione all’estro, perché questo implica denaro e il denaro ora serve ad altro, il sottile equilibrio che si crea tra tassi d’inflazione, caro vita, cassa integrazione. Chi sarei io là dentro, con le mie polo di Missoni e i pantaloni di Armani? La verità è che non sono in grado di dismettere il mio privilegio. Penso davvero che si possa avere stile pur comprando magliette del mercato. Io però ammetto tutto: non voglio farlo.
Questa città mi fa capire la mia natura. E più la mia ricerca di capi d’archivio si infittisce, più i prezzi salgono. La febbre spasmodica dell’alta moda usata passa attraverso un’affilata presa di coscienza – quella di essere in una zona grigia di confine, un moto d’ambizione verso una classe a cui non appartengo, la vicinanza verso un gruppo sociale che per nascita forse non mi vuole. Affanculo, affanculo tutti. È il retropensiero malvagio di chi sgomita per aggrapparsi alla propria posizione, per la scalata sociale verso l’alto. I miei vestiti – retaggio simbolico del retro-terreno economico che mi definisce – mi danno libertà, mi donano soggettività. Ma mi muniscono anche di un potere e per questo sono un’arma. Devo imparare e indossare i miei vestiti con la sicura, perché non diventino una cesoia che mi recide da un tessuto vivo. Io ho scelto tanto tempo fa da che parte stare e quando ci penso i miei capi diventano per me motivo d’imbarazzo. Il più proletario dei borghesi: il più borghese dei proletari.
Entro in questo negozio come si entra in un parco giochi. Solo designer d’avanguardia, solo una selezione curata di capi usati importati direttamente dal Giappone: Issey Miyake, Comme des Garçons, Yohji Yamamoto, qualche pezzo di Van Noten. È qui che naufraga la mia etica del compratore. Impulso contro-consumistico sì, ma anche e soprattutto il lusso dell’esclusività. E infatti anche i prezzi esposti tendono a escludere. Centottanta sterline per una camicia in cotone con taglio asimmetrico di Yamamoto, duecentosettanta per un gilet in poliestere plissettato di Miyake. Cappotti e capispalla meglio sorvolare. Chiunque sa che quei prezzi non hanno ragione terrene di esistenza se rapportati al costo materiale. Ma c’è qualcosa che mi eccita fisicamente, direi quasi sessualmente, e ogni volta che trovo un pezzo che però non posso acquistare il mio corpo è trafitto dal malessere fisico di chi sa che quel capo non lo troverà mai più mai più mai più.
Di fronte alla prospettiva della perdita, forse val bene la spesa. Ma sì, affanculo, affanculo tutti e tutto. Mentre cammino verso la stazione della metro, ripenso a questo mio malessere e sento il seme maligno della colpa, che mi urla contro il tempo che mi è concesso, i soldi che posso investire, l’egoismo del possesso, l’ingordigia dell’eccesso, la brama del lusso. Qui, la favola scacciapensieri della moda. Là, l’umana e sanguigna lotta per un’esistenza dignitosa: GKN, un tumulto continuo che giunge fino a qui e che a gran voce traccia una linea, mi obbliga a fare una scelta, mi interroga sulle mie contraddizioni. Mi chiedessero di bruciare tutto il mio guardaroba per salvare quei posti di lavoro direi di sì! sì! sì! ma solo finché si resta nel campo delle presupposizioni.
Il giorno dopo torno nel negozio. Alla fine compro un capo di Miyake, costo centosessanta, ma me lo fa centoventi perché lo pago su Paypal senza scontrino. Penso a come potrei abbinarlo ad altri pezzi che già possiedo e in quali occasioni potrei metterlo. La London Fashion Week prossima ventura è sicuramente una di quelle. Ma per chi è questo rituale? Non sono un pankabbestia, non sono un gabber, non sono un hipster – le divise non mi sono mai piaciute. Sono solo un frutto della borghesia di provincia che ha trovato nella moda il primo elemento di fuga dall’omologazione a cui un piccolo paesotto della campagna toscana ti obbliga. Questa libertà non è venuta gratis e non voglio rinnegare le capacità espressive dei vestiti. Il superfluo inessenziale della moda, però, parla anche della mia profonda e imbarazzata discrasia tra forma e contenuto, tra l’implicito teorico e l’aspetto iconico, tra quello che si fa e quello che si indossa.
Qualche giorno fa ne ho parlato con mia mamma. Lei mi ha ricordato che le origini della nostra famiglia sono radicate nel proletariato degli operai della Solvay, dei contadini delle campagne pisane, dei falegnami di quartiere: ci ha nobilitato il lavoro, non il sangue. Ha anche aggiunto che ci sono altre famiglie che viaggiano su tenori di vita molto più elevati della nostra. Ho risposto che non dimentico le mani spaccate di mio nonno sulle pialle dell’officina. Ma proprio per questo non posso non sentire come scottante, stridente, ogni giorno, sulla mia pelle, il dramma che separa chi ha tutto e chi invece non ha niente. Qualcuno la chiama vanitas, qualcun’altro ipocrisia. Io per adesso la chiamo coscienza di classe ed è l’unica giustificazione che mi so dare. Per tutto il resto, scusate.
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