La ridondanza: come il Premio Strega Poesia espone le ipocrisie di un intero sistema culturale

Il sistema culturale della poesia contemporanea in Italia è guasto. Per sistema culturale intendo tutto ciò che esiste prima, durante e dopo la pubblicazione di un libro di poesia (come forma, anche negata), dunque le relazioni interpersonali tra poet*, i laboratori, i concorsi per inediti, le discussioni pubbliche (e social), i blog, le riviste (tra i due c’è una differenza normativa), le operazioni antologiche, l’industria editoriale, i concorsi per editi, i premi, le presentazioni, le masterclass, i convegni (anche se sono nelle isole), i festival, le fiere. È guasto, prima di tutto, per come funziona la pubblicazione di un libro di poesia: in teoria esattamente come la pubblicazione di un oggetto-libro qualsiasi, quindi secondo un processo di produzione che integra l’azzardo finanziario (tutto a favore della distribuzione) nel processo industriale. Solo che la poesia non vende e tutto si esaspera: l’editoria di poesia si fonda anch’essa sullo sfruttamento della manodopera, ma per mezzo dell’accumulazione di capitale prevalentemente simbolico (e non materiale), per la gestione del potere da parte di pochi.
Il Premio Strega Poesia, quest’anno arrivato alla terza edizione, è l’ennesimo strumento che un certo establishment culturale usa per confermare ed estendere il proprio dominio. Attraverso una narrativa “mitica” della poesia come arte nativa, intrinsecamente libera, previene le “rivoluzioni” collettive, cioè ogni proposta alternativa, lasciata invece all’iniziativa della singola persona e, dunque, destinata a fallire.
Chi sta alla “regola” non è colpevole di per sé della sua riproduzione, perché ha introiettato la necessità di pubblicazione e, dunque, di riconoscimento; o rimuovendo la contraddizione o tematizzandola. In questo articolo provo a esporre i meccanismi del (sotto)sistema con l’obiettivo di liberare il campo, per quanto possibile, dalle ipocrisie, sperando di avviare un dibattito sui presenti possibili.

Come funziona l’industria editoriale [paragrafo saltabile se conosci già l’argomento]

Tipicamente, dopo aver selezionato il testo (o i testi), e aver firmato il contratto (che dovrebbe comprendere un anticipo sulle vendite e delle royalties) l’autore intraprende con l’editor un percorso di editing (correzione orientata a far esprimere a pieno le potenzialità del testo) o, nel caso si tratti di un libro in lingua, un percorso di traduzione e dunque di revisione della stessa. Quando il testo ha raggiungo una forma quasi definitiva, in redazione si sta già lavorando a una copertina provvisoria e a una “scheda” di promozione, ottenute le quali si mobilita l’ufficio commerciale, per far sì che la promozione, agendo con almeno tre mesi in anticipo, con il supporto della suddetta scheda possa contattare le librerie (tramite degli agenti) e convincerle a tenere in negozio il prodotto, possibilmente in più copie. Il distributore, dunque, raccoglie le prenotazioni e sulle prenotazioni calcola la tiratura. Dopo aver concluso l’editing, il testo viene sottoposto a correzioni di bozze, dunque passato a chi si occupa di copertina e impaginazione (sempre più spesso chi si occupa dell’aspetto redazionale si occupa anche dell’aspetto grafico, lavorando su una griglia creata da professionist*). È a questo punto che si sguinzaglia l’ufficio stampa e, se l’incarico è ricoperto da un’altra persona, chi organizza gli eventi, perché all’uscita del libro possano uscire già le prime recensioni (o le prime segnalazioni social) e il tour sia già parzialmente costruito. Pronto il pdf stampa, viene inviato alla tipografia, la quale fa delle prove (ormai digitali), chiede il “visto si stampi” e infine stampa. Pronte le copie, queste vengono inviate al distributore, il quale si occupa dello stoccaggio (è anche solitamente il magazzino) e dell’invio delle copie alle librerie, nonché all’editore stesso. In questo processo, le librerie pagano all’editore le copie prese in carico. È proprio qui il momento dell’«integrazione» dei meccanismi da azzardo finanziario: questi “introiti” non sono reali perché riguardano delle copie non ancora vendute – però in predicato di esserlo (l’ottimismo crudele di tutti i soggetti coinvolti) –, il cosiddetto “sell in”, e soprattutto che possono essere restituite in qualsiasi momento, con un rimborso del prezzo di acquisto. Non potendo prevedere nemmeno lontanamente il successo di un libro, a meno che l’autore o l’autrice non sia di certa fama (e anche in quei casi è complesso), non si può sapere se il profitto è reale o soltanto una promessa di profitto. E non finisce qui: la casa editrice spenderà immediatamente tutto ciò che ha forse-guadagnato per pagare i debiti accumulati con i libri precedenti. Anche la libreria è vittima di questo meccanismo: il rimborso, prima di tutto, varrà di meno (perché viviamo una società costantemente sotto inflazione); in secondo luogo ha occupato dello spazio e investito lavoro che non ha portato a nessun risultato. L’unica posizione che garantisce guadagni costanti e francamente sproporzionati è il distributore: trattiene, statisticamente, tra il 30% e il 60% del prezzo di copertina di un libro (la percentuale cresce anche in baso alle movimentazioni previste e reali). Va da sé che in Italia la distribuzione sia praticamente un oligopolio: EmmeEffe libri è il risultato della fusione avvenuta nel 2015 tra il gruppo Messaggerie e il gruppo Feltrinelli. Segue Distribuzione Libri Mondadori, che ha acquistato il 50% di A.L.I. da poco, e il C.D.A. ovvero il Consorzio Distributori Associati, nonché una serie di piccoli distributori poco rilevanti. È la distribuzione “indiretta”; la distribuzione “diretta” (con qualche eccezione), ovvero la distribuzione senza mediatori, è a livello economico poco rilevante, a livello gestionale un inferno. Per come funziona l’editoria, dunque, il sentiero più battuto per sopravvivere è assecondando il dogma della crescita, quindi aumentando sempre di più la pubblicazione di titoli: ormai ogni anno in Italia vengono pubblicate più di ottantamila novità.

Che cos’è il lavoro editoriale

Per complicare il quadro del sistema editoriale in generale, rimando al blog di Redacta (un articolo qui), a Lipperini (qui, a partire da Più libri più liberi 2024) e Pilia (a una serie di post, di cui il più completo mi sembra questo). In sintesi, l’editoria funziona esattamente come funzionano altri settori all’interno dell’economia neoliberale (si registra anche la progressiva esternalizzazione e delocalizzazione di quasi tutti i processi), con alcune specificità che però ne peggiorano la situazione: si pubblica troppo per assecondare il funzionamento a credito della distribuzione, ovvero l’unico soggetto che alla fine dei conti ne trae vantaggio, lasciando editori (in particolare indipendenti) e librerie ad annegare nei debiti. I problemi aumentano se distribuzione ed editoria sono strutturate per oligopoli (una mappa qui).
Per distogliere le risorse e, allo stesso tempo, distrarre i possibili lavoratori dal futuro e certo sfruttamento, l’editoria si è inventata i master: ha esternalizzato persino la formazione, trasformando un dovere in un’occasione di guadagno. Non esiste master in editoria in Italia che garantisca una formazione adeguata (i “professionisti” dell’editoria non sono quasi mai dei buoni insegnanti, anche perché a loro volta sfruttati per formare) e soprattutto che non usi la promessa di una presunta corsia preferenziale per offrire stage da fame o addirittura gratuiti. Istruzione, università e industria hanno da tempo solidarizzato in questa direzione, per cui l’editoria non è il solo settore.
Non esiste casa editrice in Italia che non fondi la propria esistenza sullo sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici, con la naturale conseguenza che in editoria lavora solo chi viene da una condizione di privilegio.

Sono (dando per scontata una critica marxista ai modi di produzione attuali) le condizioni normative e l’assenza pressoché generale di sindacalizzazione (Redacta sta provando a rimediare) a lasciare che il lavoro editoriale sia strutturato così. Per mantenere questo stato, è necessaria una forte copertura ideologica, una declinazione particolare del realismo capitalista: il sistema editoriale italiano costruisce attivamente, in quanto produttore “ufficiale” della cultura (insieme alla scuola e all’università), con le parole di Marco Gatto in Egemonia della superficie (Castelvecchi, 2024), il processo di «superficializzazione ed estetizzazione del mondo», per cui «l’illusione di una completa libertà dell’immaginario» finisce per garantire la pervasività delle «condizioni di subalternità» del tardo capitalismo. In altre parole? Il «campo» ancor più «chiuso» – rispetto alla “cultura” – dell’editoria si illude di essere un campo «aperto». In altre parole ancora, l’illusione di agire all’interno di un ambiente artistico naturalmente libero rimuove il conflitto. Se vogliamo parlare assieme a tutto Mimmo Cangiano: a furia di combattere (o credere di combattere) guerre culturali, ci si è dimenticati delle guerre reali, anzi le prime sono mobilitate attivamente per prevenire le seconde.

Come (non) funziona l’editoria di poesia

Il mercato editoriale relativo alla poesia non è mai stato in buona salute: la maggior parte dei libri pubblicati non vende più di venti copie e non sto esagerando. Questo vuol dire che le case editrici di poesia non fanno alcun profitto (per chi pubblica anche poesia la storia è senza dubbio diversa). Perciò nella maggior parte dei casi tolgono di torno la retribuzione, non rientra proprio nell’orizzonte di senso, nessuno se l’aspetta più. Gli autori solitamente non ricevono né anticipi né royalties; chi cura il libro in quanto oggetto non viene pagato o viene pagato poco, o addirittura la retribuzione consiste in spazi editoriali (tu curi questo libro, io pubblico il tuo libro. Meccanismo che facilita la confusione tra lavoro editoriale e lavoro “creativo”); l’aspetto promozionale è completamente in deroga a chi scrive. Le librerie non guadagnano nulla dal tenere i libri in negozio o quasi, e così via. È prassi ormai che gli autori e le autrici paghino direttamente i costi vivi della stampa o, con una qualche forma di pudore, debbano garantire un acquisto minimo di copie (a volte quel “devono” è un “possono”, ma fa lo stesso). La lista degli editori che non fondano il proprio modello su queste forme di garanzia più o meno subdole sarebbe molto breve.

Questa marginalità economica dà campo libero all’accumulazione dell’unico capitale disponibile: quello simbolico, che per pochi significa accesso al, o consolidazione del, potere. Le persone che scrivono poesia coincidono con chi lavora alla pubblicazione di libri di poesia, coincidono con chi fonda i blog e le riviste di poesia, con chi scrive le recensioni, con chi organizza i convegni, i festival e, dunque, i premi letterari. Queste “coincidenze” non destano sospetti perché il sistema si è auto-organizzato in una rete di relazioni clientelari inconsce che evita le sovrapposizioni palesi. Perché dico “inconsce”? Perché questa tessitura dipende perlopiù dall’introiezione della necessità di riconoscimento. In molti casi senza politicizzazione degli strumenti. Chi è consapevole della contraddizione può scegliere di rimuoverla, cioè disinteressarsene, o di tematizzarla. La tematizzazione è già un recupero dell’agency politica, anche se spesso risulta in scrittura – in casi precisi, diventa persino l’elemento “salvifico” del libro, cioè una giustificazione, una “paraculata”.
C’è anche un tema, che ho sollevato in un recente post su Facebook, interessante per le risposte ricevute, di interferenze narcisistiche nell’approccio critico al sistema:

«non appena veniamo “integrati” nelle liste, nelle classifiche e compagnia, smettiamo di contestare il sistema, perché contestarlo significherebbe perdere posizione, anche in futuro (inimicandosi tutt*). Tutt* conosciamo i problemi, e in questo caso la velleità dell’istituzione stessa del Premio Strega Poesia, ma al posto di disertare o, più costruttivamente, elaborare alternative decidiamo semplicemente di adeguarci. È meno difficile, ma se la poesia è qualcosa è la difficoltà.

Penso ci sia un ulteriore errore epistemologico alla base di questo (errore che ho fatto anche io), o anche un errore di interferenze narcisistiche nel metodo: e cioè che se siamo noi il soggetto riconosciuto, allora il “sistema”, per una volta, ha lavorato bene. Bisogna crederlo».

Significa credere che la nostra presenza all’interno del sistema, con la nostra buona volontà e la nostra buona morale ma soprattutto la nostra buona scrittura, possa dare inizio alla trasformazione.
La distinzione va fatta anche sulla frontalità, quindi: su quanto ci si espone al contrattacco del sistema, alla sua violenza o meno. Il limite dei limiti del risultare in scrittura (o, a questo punto, del risultare nel: cambiare il sistema dall’interno) è che non può avere luogo senza l’editoria di poesia, ciò che la precede e ciò che le succede, rituali compresi. Del resto, neanche questo articolo potrebbe esistere senza, dunque facciamo incetta di contraddizioni attraversandole.

Il mito della poesia come contestazione in sé

Il sistema culturale della poesia contemporanea in Italia è guasto perché riproduce in scala i meccanismi della produzione tardo capitalista pensandosi libero a priori, anche dal mercato. Dalla propria posizione di presunta marginalità può non smettere mai di raccontare un mito enorme: quello della poesia come luogo ultimo dell’arte, dunque quello della sua natura intrinsecamente contestatoria. La comunità originaria che di conseguenza vuole ricostruire è quella dei poeti veri, gli unici che hanno accesso alla intuizione – sia come scrittori, sia come lettori – della poesia vera (idea ancora tutta crociana). Questo popolo indiviso non è nient’altro che un mito dentro il mito usato come centro propagandistico per giustificare l’accumulazione di capitale simbolico e la permanenza del potere nelle mani di pochi. Per far passare il robottino aspirapolvere, per togliere dalla vista l’aspetto “materiale”. È un meccanismo collettivo alla quale tutti e tutte partecipiamo, per questo provare a distinguere le intenzioni è fondamentale. Non posso mettere sullo stesso piano chi sfrutta questo meccanismo per consolidare il privilegio, chi è coinvolto inconsapevolmente, chi è coinvolto consapevolmente e chi contesta. È una questione morale e sta alla base delle possibilità di realizzazione di un’alternativa reale e collettiva, contro l’isolamento.
L’interesse verso il disinteresse della maggioranza (direbbe Bourdieu) da parte di chi avrebbe i mezzi per invertire il meccanismo (fingendo di attivarsi per invertirlo) è uno dei più ovvi frutti consentiti del tardo capitalismo. Noi facciamo semplicemente finta di non vederlo, anche quando lo sforzo di nasconderlo finisce per esporlo. Dal sito del Premio Strega Poesia (grassetti miei):

«La poesia è una forma d’arte che non ha mai perso prestigio sociale e che nel pensiero comune è istintivamente connessa alla riflessione sulle cose ultime: rimanda da sempre a un’espressione nativa della parola, legata al respiro naturale e al canto. E tuttavia, come è stato scritto, “poesia” rischia di essere un concetto astratto, generico: non esiste tanto la poesia, quanto le poesie, diverse esperienze che meritano tutte ascolto e rappresentazione. Il Premio Strega Poesia nasce per dare loro visibilità, segnalando la produzione di più alta qualità letteraria e significato nel mondo contemporaneo».

Il Premio Strega Poesia

Però i premi non vengono mobilitati con l’obiettivo di dare visibilità e rappresentazione alle «diverse esperienze» delle «poesie», ma quello di riaffermarsi in quanto strumento canonizzante e, dunque, di inspessimento delle relazioni di potere, in verticale. È il caso del Premio Strega Poesia, paradigmatico perché “estremo”. I libri proposti quest’anno sono 170 (li trovate qui), un numero molto più alto dei libri proposti al Premio Strega per la narrativa (81). Le sottili differenze nei processi di selezione possono illuminare le ragioni di questo squilibrio che, in relazione al peso specifico del libro tra il numero delle novità, può sembrare almeno strano: da un lato la candidatura viene dagli editori (che possono applicare solo un libro) ed è vagliata da un “comitato scientifico” (che può prendere iniziativa e includere titoli non sottoposti autonomamente); dall’altro la segnalazione viene dagli “amici della domenica”, corredata da un breve giudizio critico. Da un lato il “comitato scientifico” (tutte le bio sono pubbliche qui) seleziona la dozzina e la cinquina, per poi delegare la scelta a cento «uomini di cultura che si occupano a vario titolo di poesia» tra cui anche i componenti del comitato scientifico, cioè gli “amici della poesia” (qui il regolamento completo); dall’altro il “comitato direttivo” individua le opere concorrenti (la dozzina) e poi è preposto al coordinamento degli “amici della domenica” nelle fasi successive, cioè la selezione della cinquina (o sestina, se nella cinquina non è presente un editore indipendente) e del vincitore – sistema complesso, che suggerisco di leggere direttamente dal sito (dall’articolo 5).
Se l’istituzione degli “amici della poesia” vuole replicare gli “amici della domenica” (nella riproduzione del prestigio del Premio Strega per la narrativa), l’istituzione di un comitato scientifico, differente al comitato direttivo anche per l’assunzione di “scientificità”, ha una funzione di giudizio “sacerdotale”. Dico, proseguendo la metafora, che officia un rituale (doppio) di iniziazione, di accesso al popolo indiviso dei poeti veri e di accesso al prestigio della prosa. Il più grande desiderio di ogni poeta è essere riconosciuto dalla critica di poesia e dal pubblico della prosa. La giuria, officiando, accede direttamente a questa forma di riconoscimento (o ponendosi addirittura al di sopra) e, in più, accede o conferma il proprio ruolo nella rete di relazioni di potere, ne fa presidio simbolico. La giuria è lì perché questo accesso funzioni in continuità con il sistema preesistente, per «dare visibilità» (accessibilità) a chi ce l’ha già, tra chi giudica e chi viene giudicato: ruoli per gran parte simulati.

Il mondo della poesia contemporanea in Italia è fondato sulla ridondanza, ovvero su persone che occupano più ruoli contemporaneamente svolgendo la medesima funzione: quella di gestire il potere. Quasi tutti i componenti della giuria del Premio Strega Poesia sono autori e autrici (spesso di major e spesso che hanno superato le selezioni iniziali di uno dei Premi Strega), in molti casi sono critici accademici e docenti universitari, giurati in altri premi, direttori di collana (oltre a guardare le bio, è possibile consultare pagine Wikipedia e siti personali, che non nascondono nulla). La loro “scientificità” coincide con la “sacralità” dei ruoli che ricoprono: Maria Grazia Calandrone è parte della redazione di Poesia e collabora alla direzione della collana I domani di Aragno, con Andrea Cortellessa – nella redazione del «verri» e tra i fondatori di «Antinomie. Scritture e immagini» – e Laura Pugno, che fa talmente tante cose che non riesco a produrre una sintesi. Mario Desiati ha vinto il premio Strega con Gli Spatriati (Einaudi), dopo aver pubblicato diversi libri in poesia. Elisa Donzelli dirige la collana di poesia contemporanea della Donzelli editore. Roberto Galaverni non ha bisogno di presentazioni. Vivian Lamarque ha vinto la prima edizione del Premio Strega Poesia con L’amore da vecchia per Lo Specchio Mondadori, editore tra i tanti anche di Maurizio Cucchi (che in pratica si autopubblica, perché collabora “attivamente” con Lo Specchio), che è nella dozzina quest’anno, e Antonio Riccardi, che è stato direttore editoriale della Mondadori, degli Oscar e di SEM, adesso di Aboca. Melania G. Mazzucco è autrice Strega. Patricia Peterle non solo è docente e saggista, ma anche traduttrice (come altri e altre) e salta all’occhio anche di chi: Maria Grazia Calandrone e Valerio Magrelli, giudice i due anni precedenti – sarebbe da introdurre il tema della traduzione non solo come ricerca, in molti casi, ma come processo di attribuzione e, contemporaneamente, di accumulazione di capitale simbolico. Tradurre ti rende speciale, essere tradotti ugualmente: è la metafora delle relazioni poetiche, il do ut des. Stefano Petrocchi è direttore della Fondazione Maria e Goffredo Bellonci ed è segretario del comitato direttivo del Premio Strega. Infine Gian Mario Villalta è dal 2002 direttore artistico di Pordenonelegge. Magrelli non è più in giuria come Enrico Testa, giudice alla prima edizione e, dunque, in dozzina alla seconda.
Le prime due edizioni le hanno vinte Vivian Lamarque e Stefano Dal Bianco, prevedibilmente. Chiunque vincerà la prossima (e non saranno i tre outsider, inclusi proprio in un’ottica di parvente legittimità) sarà perfettamente in serie.

Una precisazione dovuta. Non è solo il Premio Strega Poesia che funziona così, ma tutti i premi (Ceppo, Pordenonelegge, Tirinnanzi, Viareggio-Rèpaci…) e le operazioni antologiche (le antologie di Interno Poesia e Ladolfi Editore, le Poesie dell’Italia contemporanea uscite per il Saggiatore il Quaderno italiano di poesia contemporanea di Marcos Y Marcos), nondimeno perché sono assenti discorsi docimologico e metodologico completi, cioè che non si fermino al di qua della costatazione del problema. 

Il Quaderno italiano di poesia contemporanea

Importante fare un esempio di questa “similarità” tra premi e antologie: il Quaderno italiano di poesia contemporanea edito da Marcos Y Marcos, giunto alla diciassettesima edizione (trentaquattro anni di attività), ha pubblicato più di cento autori e autrici, con l’obiettivo esplicito di dare una rappresentazione critica (ogni silloge è anticipata da una nota critica) della poesia contemporanea, principio che garantisce la presenza dentro ogni volume di un campione di ogni “ricerca”: poesia non assertiva, poesia lirica, poesia civile e via discorrendo; finendo però, per la solita logica ridondate, per garantire la presenza di campioni dalle principali “realtà” del sistema. L’eccesso quantitativo degli scrittori e delle scrittrici che hanno attraversato questa esperienza (che comprende un piccolo editing, un tour e dunque la spontanea composizione di un “gruppo”) sommata alle politiche di rappresentanza hanno col tempo re-inventato il Quaderno, appunto, come rito di passaggio al canone, come iniziazione. Si viene, inoltre, a creare un meccanismo circolare (chiuso) per cui il Quaderno è fondamentale alla carriera poetica quanto la carriera poetica dei singoli e delle singole serva al Quanderno nella sua volontà di eternarsi, di istituzionalizzarsi.
La giuria è composta da Franco Buffoni (coordinatore), Massimo Gezzi, Fabio Pusterla, Umberto Fiori e dall’editore Marco Zapparoli. Franco Buffoni e Fabio Pusterla sono anche nella giuria, con Uberto Motta, al Premio Tirinnanzi. Franco Buffoni dirige la collana Lyra giovani per Interlinea. Fabio Pusterla dirige la collana Le Ali di Marcos Y Marcos, di cui è anche autore. Massimo Gezzi è stato nel nono quaderno, è autore Marcos Y Marcos con Sempre mondo, in dozzina al Premio Strega Poesia del 2023, è direttore di «Le parole e le cose» ed è in giuria nel premio Pordenonelegge Poesia Giovani. Con Tommaso Di Dio, che è autore Lyra giovani con Verso le stelle glaciali, anch’esso nella dozzina al Premio Strega Poesia del 2023, nonché curatore del volume Poesia dell’Italia contemporanea. 1971-2021 (il Saggiatore, 2023). A suggerimento, forse, che la Lyra giovani funga talvolta da “spin-off” del Quaderno. Dentro Lyra giovani, con Trasparenza, e dentro il dodicesimo quaderno c’è Maria Borio, che cura la sezione poesia di «Nuovi Argomenti» e dirige PoesiaEuropa. La rete è così verticale che è davvero impossibile da rappresentare.

Rompere la ridondanza

La costruzione dell’immaginario poetico in Italia non può che risultare estremamente parziale. Tutt* noi, introiettate delle precise regole, alimentiamo una parvenza di sistema che esiste solo in quanto esclusivo: prima di tutto di soggetti non privilegiati (da quale classe proviene la maggior parte dei potei e delle poete? Quanti poet* non italian* per sangue sono rappresentat*?), dunque di scritture non convenzionali. Voglio dire, con parole diverse, che la connivenza a questa ideologia (fondata sul rituale, sul mito, sulla ridondanza) ci illude di stare rivoluzionando posizioni del soggetto, forme e addirittura contenuti, cioè che stiamo scrivendo davvero, stiamo facendo “ricerca”, stiamo studiando, ma la verità è non riusciamo a vedere “oltre”, “fuori”; e che la nostra esistenza è possibile solo perché altr* non riescono a persistere.

(Tra l’altro, diventa impossibile agire davvero il politico all’interno del sistema, perché nella prassi ereditata anche il politico finisce per rientrare nelle logiche di accumulo del capitale simbolico, dunque si svuota).

Il problema è riuscire a immaginare una soluzione che non ricostruisca, proprio per quell’autoreferenzialità dell’ambiente e per le dinamiche editoriali, la stessa gerarchia di potere che si vorrebbe superare.
Le esperienze solitarie di contestazione, anche se in “gruppo”, non possono trasformare il sistema, perché diventano presto un alibi (un altrove) o uno scandalo, finendo cioè per confermarlo “a distanza” e come “negazione”. In fondo, l’identità di un popolo mitico (i poeti veri) e le caratteristiche del suo oggetto rituale (la poesia) si fondano anche su chi sceglie di rimanere ai margini continuando ad indicare il medesimo oggetto. È una validazione.
Ho fatto una critica dura del sistema non con una funzione moralizzatrice ma per destabilizzare il campo chiuso. Chi si sentirà chiamat* in causa, può scegliere di mettersi in discussione o meno. L’unica possibilità risiede in un’esperienza collettiva di contestazione e, contestualmente, di immaginazione del dopo (che è un fuori, appunto). L’immaginazione del dopo non può venire da me, ma da una prassi collettiva. Significa aprire davvero il campo, rompere la ridondanza.