poesie Stephen Dobyns

Ragioni per popolare un cosmo: due poesie di Stephen Dobyns

Stephen Dobyns è noto al grande pubblico come autore di romanzi gialli, pubblicati in Italia da Garzanti nei primi anni 2000; ma non tutti sanno che a quella di romanziere Dobyns unisce anche un‘intensa attività di poeta. In effetti, nel nostro paese, gli ultimi indizi di un interesse verso la poesia di Dobyns risalgono, almeno sul web, a più di 10 anni fa, quando su Poetarum Silva apparve una selezione di poesie a cura di Giovanni Catalano, per la maggior parte tratte da Velocities, ricca antologia edita da Bloodaxe Books nel 1994 sulla quale anch’io fondo buona parte della conoscenza dell’autore. A giudicare da quanto dichiarato dallo stesso Catalano su un commento che ho trovato su un altro blog, ancora nel 2010 nessun editore piccolo o grande aveva mai inteso pubblicare qualche libro di poesia di Dobyns. Alla luce di una mia rapida ricerca, non mi sembra che in dieci anni le cose siano cambiate. Ed è un peccato, perché, dalla teoria alla prassi, le idee di scrittura di Dobyns offrono ottimi spunti di riflessione.

L’ispirazione poetica nasce per Dobyns dalla metafora, in senso lato. Nel 2012, per introdurre una sua poesia sulle pagine del The New Yorker, Dobyns ha scritto: «le mie poesie iniziano sempre con una metafora, e l’accesso alla metafora può essere dato da una parola, da un’immagine, persino da un suono. Raramente conosco la natura della metafora quando inizio a scrivere; tuttavia lo scrittore sviluppa una certa accortezza, un stato d’allerta istantaneo che è molto simile alla sensazione di un pesce che sfiora l’amo.» (traduzione mia).

Dobyns si è espresso anche sul ruolo della poesia: durante un’intervista a cura di Laure-Anne Bosselaar apparsa su Ploughshares (Vol. 24, 4, Inverno 1998/1999, pp. 64-73) ha affermato che «una delle funzioni della poesia è creare una cosmologia» attraverso una «mappatura delle dimensioni di ciò che crediamo essere la realtà» e di ciò che invece la trascende. Nascendo però dal desiderio di affrontare il nostro «isolamento esistenziale» e di ridurlo, la poesia genera un’ulteriore esigenza: il «popolamento di quei confini con qualcosa di più grande dell’umano», e quindi, inevitabilmente, l’«identificazione della sua ragione d’essere» (trad. mia). Ma come si produce questa ricerca di senso? Le caratteristiche immediatamente riconoscibili della poesia di Dobyns sono il black humor e il gusto per l’evento inconsueto e l’immagine disturbante fino all’orrore, come veicoli verso il significato (o la mancanza di). Dal punto di vista formale, è altresì facile individuare una chiara struttura prosastica, non solo nella disposizione dei versi lunghi ma anche nel ritmo e nella struttura della narrazione.

Le poesie qui presentate sono tratte da Cemetery Nights (Penguin Books 1987), libro da cui addirittura Stephen King, nel romanzo Insomnia, ha citato la poesia Pursuit. Sono fulminanti e crudeli racconti in versi scatenati da un’intuizione significativa che trascende la vicenda narrata, toccando l’apice nell’illuminazione finale. Per spiegare meglio questo meccanismo tipico dei racconti in versi di Dobyns, vale la pena leggere un breve e illuminante paragrafo di David Shields, tratto da Fame di realtà (Fazi 2010):

Secondo Stephen Dobyns ogni poesia implica una narrazione, anche se il poeta potrebbe benissimo rispondere che ogni poesia narrativa ne adombra una più lirica. Il tizio al ristorante che frantuma un bicchiere nel palmo della mano compie un gesto istintivo non del tutto spiegabile con una giornataccia in ufficio o con la fregatura presa da un tassista o con una sgarberia detta dal suo commensale. Se lo scrittore di narrativa è istintivamente incuriosito dalla “storia” da individuare, la sequenza di eventi che hanno preceduto la frantumazione del bicchiere, il poeta potrebbe invece essere affascinato da quel singolo momento di frustrazione: il picco distillato e indelebile sul grafico emotivo.

Spiritual chickens e Tomatoes, le due poesie che ho tradotto e qui presento, riflettono proprio questa dinamica, come ha osservato anche Sally B. Segall in questo saggio dedicato a Charles Simic, Bill Knott, Thomas Lux e allo stesso Dobyns, autori individuati come figure fondamentali della poesia post-surrealista americana. Si rende necessario un patto tra il poeta e il lettore: quest’ultimo sperimenterà l’emozione generata dal testo solo se in lui si sarà prodotta una sospensione dell’incredulità. Secondo la Segall, in queste poesie di Dobyns «grazie alla distanza generata dall’uso del fantastico (che neutralizza l’emozione), noi possiamo “vedere” più in profondità di quando sarebbe accaduto se [il concetto] ci fosse stato offerto direttamente. Questo uso del fantastico unito allo humor ci disarma tanto quanto ha dato libertà al poeta» (p. 10, trad. mia).

Spiritual chickens inizia raccontando un fatto ordinario in una quieta ambientazione domestica ma, a seguito di un evento inatteso (topos riscontrabile in ogni racconto surrealista che si rispetti), scatta il patto poeta-lettore, il grafico emotivo si impenna e la poesia sfocia in una tagliente riflessione epistemologica sulla conoscenza del mondo, tra follia, fenomenologia del reale e speculazione soggettiva. Tomatoes è a sua volta una vicenda grottesca dai risvolti tragici (e, sospettiamo, edipici) sul tema dell’amore filiale: dopo aver esposto in modo rapido e implacabile l’assurda cronaca dell’accaduto come dato di fatto non negoziabile, a Dobyns non resta che accumulare la tensione narrativa fino al picco distillato e indelebile, così da far esplodere davanti agli occhi di noi lettori il trauma dentro la trama.

Bernardo Pacini


Due poesie da Cemetery Night (1987)

SPIRITUAL CHICKENS

A man eats a chicken every day for lunch,
and each day the ghost of another chicken
joins the crowd in the dining room. If he could
only see them! Hundreds and hundreds of spiritual
chickens, sitting on chairs, tables, covering
the floor, jammed shoulder to shoulder. At last
there is no more space and one of the chickens
is popped back across the spiritual plain to the earthly.
The man is in the process of picking his teeth.
Suddenly there's a chicken at the end of the table,
strutting back and forth, not looking at the man
but knowing he is there, as is the way with chickens.
The man makes a grab for the chicken but his hand
passes right through her. He tries to hit the chicken
with a chair and the chair passes through her.
He calls in his wife but she can see nothing.
this is his own private chicken, even if he
fails to recognize her. How is he to know
this is a chicken he ate seven years ago
on a hot and steamy Wednesday in July,
with a little tarragon, a little sour cream?
The man grows afraid. He runs out of his house
flapping his arms and making peculiar hops
until the authorities take him away for a cure.
Faced with the choice between something odd
in the world or something broken in his head,
he opts for the broken head. Certainly,
this is safer than putting his opinions
in jeopardy. Much better to think he had
imagined it, that he had made it happen.
Meanwhile, the chicken struts back and forth
at the end of the table. Here she was, jammed in
with the ghosts of six thousand dead hens, when
suddenly she has the whole place to herself.
Even the nervous man has disappeared. If she
had a brain she would think she had caused it.
She would grow vain, egotistical, she would
look for someone to fight, but being a chicken
she can just enjoy it and make little squawks,
silent to all except the man who ate her,
who is far off banging his head against a wall
like someone trying to repair a leaky vessel,
making certain that nothing unpleasant gets in
or nothing of value falls out. How happy
he would have been to be born a chicken,
to be of good use to his fellow creatures
and rich in companionship after death.
As it is he is constantly being squeezed
between the world and his idea of the world.
Better to have a broken head—why surrender
his corner on truth?—better just to go crazy.
GALLINE SPIRITUALI 

Un uomo mangia tutti i giorni per pranzo una gallina,
e ogni giorno il fantasma di un’altra gallina
si unisce alla folla nella sala da pranzo. Se solo
potesse vederle! Centinaia e centinaia di galline
spirituali, accovacciate sulle sedie, sui tavoli, ricoprono 
il pavimento, strizzate spalla a spalla. Alla fine
non c’è più spazio e una delle galline 
balza dal piano spirituale a quello terrestre.
L’uomo è intento a stuzzicarsi i denti.
Improvvisamente c’è una gallina in fondo alla tavola,
che zompetta su e giù, senza guardare l’uomo
ma sapendolo lì, come spesso accade alle galline.
L’uomo cerca di acchiappare la gallina ma la mano
le passa attraverso. Prova a colpire la gallina
con una sedia e la sedia le passa attraverso. 
Chiama la moglie, ma lei non riesce a vedere niente.
È la sua gallina personale, anche se
non sa riconoscerla. Come fa a sapere
che quella è la gallina che ha mangiato sette anni prima
in un afoso mercoledì di luglio,
con un pizzico di dragoncello, un goccio di panna acida?
L’uomo inizia ad aver paura. Corre fuori di casa 
sbattendo le braccia e facendo strani zompetti
finché le forze dell'ordine non lo portano in cura.
Trovandosi di fronte alla scelta tra qualcosa di bizzarro
nel mondo e qualcosa di guasto nella sua testa, 
lui opta per la testa guasta. Senza dubbio,
è più sicuro così che mettere a rischio
le sue convinzioni. Meglio pensare di averlo
immaginato, che averlo fatto accadere. 
Intanto, la gallina zompetta su e giù
in fondo alla tavola. Stava lì, pigiata insieme ai
fantasmi di seimila pollastre morte, poi 
all’improvviso ha avuto tutto lo spazio per sé.
Persino l’uomo nervoso è sparito. Se lei
avesse un cervello, penserebbe di esserne stata la causa.
Diventerebbe vanitosa, egoista, cercherebbe
qualcuno con cui rifarsela, ma essendo una gallina
non può che godersela emettendo piccoli starnazzi,
silenziosa per tutti tranne che per l’uomo che l’ha mangiata 
che, lontano da lì, sbatte il capo contro un muro
come chi provi a riparare un recipiente che perde,
accertandosi che niente di sgradevole entri
niente di prezioso esca. Sarebbe stato 
davvero felice se fosse nato gallina,
rendersi utile ai compagni di ventura
avere amici in abbondanza dopo la morte.
Così, invece, è perennemente schiacciato 
tra il mondo e la sua idea del mondo.
Meglio avere la testa guasta – perché rinunciare
alla sua verità esclusiva? – meglio diventare pazzi.

TOMATOES

A woman travels to Brazil for plastic
surgery and a face lift. She is sixty
and has the usual desire to stay pretty.
Once she is healed, she takes her new face
out on the streets of Rio. A young man
with a gun wants her money. Bang, she's dead.
The body is shipped back to New York,
but in the morgue there is a mix-up. The son
is sent for. He is told that his mother
is one of these ten different women.
Each has been shot. Such is modern life.
He studies them all but can't find her.
With her new face, she has become a stranger.
Maybe it's this one, maybe it's that one.
He looks at their breasts. Which ones nursed him?
He presses their hands to his cheek.
Which one consoled him? He even tries
climbing into their laps to see which
feels most familiar but the coroner stops him.
Well, says the coroner, which is your mother?
They all are, says the young man, let me
take them as a package. The coroner hesitates,
then agrees. Actually, it solved a lot of problems.
The young man has the ten women shipped home,
then cremates them all together. You've seen
how some people have a little urn on the mantel?
This man has a huge silver garbage can.
In the spring, he drags the garbage can
out to the garden and begins working the teeth,
the ash, the bits of bone into the soil.
Then he plants tomatoes. His mother loved tomatoes.
They grow straight from seed, so fast and big
that the young man is amazed. He takes the first
ten into the kitchen. In their roundness,
he sees his mother's breasts. In their smoothness,
he finds the consoling touch of her hands.
Mother, mother, he cries, and he flings himself
on the tomatoes. Forget about the knife, the fork,
the pinch of salt. Try to imagine the filial
starvation. Think of his ravenous kisses.
POMODORI

Una donna fa un viaggio in Brasile per la chirurgia
plastica e un lifting facciale. Ha sessant’anni
e il desiderio ordinario di rimanere graziosa.
Dopo la cura, esibisce il suo nuovo volto
per le strade di Rio. Un giovane 
con una pistola vuole il suo denaro. Bang, morta.
Il corpo viene rispedito a New York,
ma in obitorio avviene un qui pro quo. Viene convocato
il figlio. Gli viene riferito che sua madre
è una di quelle dieci donne.
A ciascuna hanno sparato. Così va al giorno d'oggi. 
Lui le esamina ma non riesce a trovarla.
Con il suo volto nuovo, è diventata un’estranea.
Forse è questa, o forse quell'altra.
Guarda i seni. Quali lo hanno allattato?
Si preme le loro mani sulle guance.
Quali lo hanno consolato? Prova persino
ad arrampicarsi sui grembi per vedere quale
gli sembri più familiare ma il medico legale lo ferma.
Beh, dice il medico, qual è sua madre?
Lo sono tutte, dice il giovane, me le faccia
portare via in stock. Il medico tentenna,
poi accetta. In effetti, risolve molti problemi.
Al giovane vengono spedite le dieci donne a casa, 
che poi crema tutte assieme. Avete visto come 
alcune persone tengano un’urna sulla mensola del camino?
Quest’uomo ha un enorme, argenteo bidone della spazzatura.
In primavera, trascina il bidone della spazzatura
in giardino e inizia a incorporare al suolo 
i denti, la cenere, i frammenti d’ossa.
Poi vi pianta i pomodori. Sua madre amava i pomodori.
Crescono direttamente dal seme, così grandi e veloci
che l’uomo ne è meravigliato. Porta i primi
dieci in cucina. Nella loro rotondità,
intravede i seni della madre. Nella loro morbidezza,
riconosce il tocco consolante delle sue mani.
Madre, madre, grida, e si lancia 
sui pomodori. Scordati il coltello, la forchetta, 
il pizzico di sale. Prova a immaginare la voracità 
di un figlio. Pensa ai suoi baci famelici.

Traduzione di Bernardo Pacini
Revisione di Clarissa Amerini

Stephen Dobyns (1941) è nato a Orange, nel New Jersey. Conosciuto in Italia come autore di romanzi thriller, ha pubblicato anche raccolte poetiche e saggi sulla poesia. Le sue raccolte poetiche principali (dalla più recente alla più antica) sono: The Day's Last Light Reddens the Leaves of the Copper Beech (2016); Winter's Journey (2010); Mystery, So Long (2005); The Porcupine's Kisses (2002); Do They Have a Reason? (2000); Pallbearers Envying the One Who Rides (1999); Common Carnage (1996); Velocities: New and Selected Poems, 1966-1992 (1994); Cemetery Nights (1987), vincitore del Melville Cane Award; Black Dog, Red Dog (1984), vincitore del National Poetry Series; Heat Death (1980) e Concurring Beasts (1972). 

Immagine in copertina: Lucia Heffernan, Chicken for Dinner


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