Per gentile concessione dell’editore italiano Crocetti-Feltrinelli e dell’editore americano Farrar, Straus & Giroux, pubblichiamo un’anticipazione di 4 poesie tratte da Breve storia dell’ombra di Charles Wright, nella traduzione di Antonella Francini, che ha curato anche l’introduzione. Il libro, in uscita il 27 maggio 2021, è la seconda edizione aggiornata del volume, che era già uscito nel 2006 per Crocetti.
Si tratta di un’antologia di poesie scelte dai libri giovanili di Wright e dalla sua scrittura più matura. La scelta dei testi è avvenuta nel 2006 con la collaborazione dello stesso poeta. In appendice al volume, si trova un Dialogo dell’autore con la traduttrice, in cui vengono riportati stralci dei vari commenti che Wright fece ai testi in supporto al lavoro di traduzione.
«Una cascata di cose nella cascata del mondo»: breve nota alle poesie
«Quando il mondo sarà scomparso, qualcuno dovrà sostenerci / invisibile e per tutta la notte. / Quando il mondo sarà scomparso, amigo, / qualcuno dovrà raccogliere il fardello.» (Step-children of Paradise)
Sin dagli esordi, la poesia di Charles Wright si è rivelata quale tenace effemeride personale, un fardello di parole di un poeta non nomade bensì pellegrino, il cui lavoro è stato vivere testimoniando continuamente la lenta scomparsa del mondo verso una fine. Ma quale mondo, se non quello la cui superficie consuma (e consumiamo con) i nostri passi? E quale fine, se non quella che noi stessi dovremo anticipare con una certa e più rapida sparizione nella «caverna dei morti»?
Per un lettore italiano non è difficile riconoscere nella poesia di Wright la presenza di un certo numero di archetipi che svelano un sostrato comune alla letteratura europea, per tensione, forma e contenuto. Come è noto infatti, la vicenda letteraria del poeta nato a Pickwick Dam (Tennessee) nel 1935 prende il largo non sulle rive dell’Oceano Atlantico ma su quelle del Lago di Garda, a Sirmione. Durante il servizio militare, appena ventiquattrenne, Charles legge Blandula, Tenulla, Vagula di Ezra Pound, una poesia che evoca proprio Sirmione quale specchio di un «culto fondato sulle onde». Di quel culto Wright diverrà da quel momento seguace nel senso più stretto: non stanco adepto di una religione sterile che chiuda il mondo in un lirismo senza sbocchi e a sé bastante, bensì viaggiatore alla continua ricerca di un varco, del Dio che lo ha aperto e vi è sparito dentro come nebulizzato. «Viviamo la vita come stelle, stelle senza costellazione, accanto alla / grande forma e alla grande struttura, / sparse, fuori luogo»: pur laico e dolorante, questo è indizio di un senso religioso che riporta alla mente – anche per analogia iconica con il noto autoritratto riflesso sul lago – il poeta Gerard Manley Hopkins, che certamente risuona nella poesia di Wright come in buona parte della poesia anglofona del secolo scorso.
Dopo Pound, in Italia Wright tradurrà Montale e Campana e leggerà Dante che – da novello, ironico Orfeo americano con il banjo – riconoscerà quale maestro irraggiungibile nell’esperienza del cammino claudicante dentro il contemporaneo. La poesia di Wright testimonia il tentativo (riconosciuto fallace in nuce) di ricalcare in versi la forma del mondo lasciandone emergere le imperfezioni, i difetti di fabbrica degli umani slanci verso il trascendente, come ha scritto Ted Genoways, parlando di «[…] search for transcendence in the landscape of the everyday […]. Wright’s poems yearn for the ideal, but are tempered by a suspicion of futility» (An Interview with Charles Wright, in Southern Review, Vol. 36, No. 2, Spring, 2000, pp. 442-52).
Il tempo speso dal poeta esistendo «avanti e indietro sulla terra, sapendo / che nulla cambia, o tutto» (Skins) è in funzione di una ricerca che non può, per statuto di coscienza, esaurirsi nel conseguimento di un obiettivo: un movimento ondivago e ventoso che sempre rifiuta di imboccare, nel fascio infinito di linee, quella che pretende di far quadrare il cerchio. Il sollievo di aver trovato per un attimo l’unità tra sé e il dato esteriore è sempre accompagnato da un salubre «mal di denti come […] richiamo d’un santo nella bocca» (Step-children of Paradise). Cosa fa dunque la poesia? «Ci porta a un punto. Ci porta e se ne va» (Skins). Slancia, slaccia e continuamente rilancia, polverizza in ironia la protervia dell’uomo, le sue dimenticanze, le manovre altissime e ridicole («Che cosa avevo in mente?», si chiede Wright in California Twilight, distratto dal ronzio di un pattino mentre contempla la natura “elettrica”). Come un’ombra tra le tante del pianeta, il poeta (s)misura la realtà consapevole della propria insufficienza: i versi sono «tristi segni, frasi analizzate a metà, ellissi e fregi sul terreno» (ancora Skins), ma il mondo si assenta solo negli occhi di chi lo guarda esistere e vi partecipa e precipita dentro, come «una cascata di cose nella cascata del mondo» (Snow).
Bernardo Pacini
from Skins (Bloodlines, 1975) 20 You’ve talked to the sun and moon, Those idols of stitched skin, bunch grass and twigs Stuck on their poles in the fall rain; You’ve prayed to Sweet Medicine; You’ve looked at the Hanging Road, its stars The stepstones and river bed where you hope to cross; You’ve followed the cricket’s horn To sidestep the Lake of Pain… And what does it come to, Pilgrim, This walking to and fro on the earth, knowing That nothing changes, or everything; And only, to tell it, these sad marks, Phrases half-parsed, ellipses and scratches across the dirt? It comes to a point. It comes and it goes.
da Skins (Bloodlines, 1975) 20 Hai parlato al sole e alla luna, quegli idoli di pelle impuntita, cespugli e ramoscelli attaccati ai loro pali nella pioggia d’autunno; hai pregato la Dolce Medicina; hai guardato la Via Sospesa, le sue stelle gli scalini di pietra e il letto del fiume che speri di guadare; hai seguito l’antenna del grillo per scansare il Lago di Dolore… e dove ci porta, Pellegrino, questo andare avanti e indietro sulla terra, sapendo che nulla cambia, o tutto; e, per raccontarlo, solo questi tristi segni, frasi analizzate a metà, ellissi e fregi sul terreno? Ci porta a un punto. Ci porta e se ne va.
from China Trace (1977) Snow If we, as we are, are dust, and dust, as it will, rises, Then we will rise, and recongregate In the wind, in the cloud, and be their issue, Things in a fall in a world of fall, and slip Through the spiked branches and snapped joints of the evergreens, White ants, white ants and the little ribs.
da China Trace (1977) Neve Se noi, come siamo, siamo polvere, e la polvere, com’è certo, risorge, allora risorgeremo, e ci raduneremo nel vento, nella nuvola, e saremo il loro effluvio, una cascata di cose nella cascata del mondo, e scivoleremo fra i rami puntuti e le giunture spezzate dei sempreverdi, formiche bianche, formiche bianche e le piccole nervature.
California Twilight Late evening, July, and no one at home. In the green lungs of the willow, fly-worms and lightning bugs Blood-spot the whips and wings. Blue Asters become electric against the hedge. What was it I had in mind? The last whirr of a skateboard dwindles down Oak Street hill. Slowly a leaf unlocks itself from a branch. Slowly the furred hands of the dead flutter up from their caves. A little pinkish flame is snuffed in my mouth.
Crepuscolo californiano Sera tarda, luglio, e nessuno in casa. Nei polmoni verdi del salice, insetti volanti e lucciole macchiano di sangue le fronde e le ali. Aster blu diventano elettrici sulla siepe. Che cosa avevo in mente? L’ultimo ronzio d’un pattino si dissolve lungo la collina di Oak Street. Lentamente una foglia si stacca da un ramo. Lentamente le mani incrostate dei morti s’agitano dalle loro caverne. Una fiammella rosata è spenta nella mia bocca.
from North American Bear (2000) Step-children of Paradise Dark of the moon, bear’s tail through triage of winter trees, Back yard a deep tabula rasa, where to begin? With or without language, there’s always room for another life. We’ve downloaded this one into an anxious indeterminacy, Doing a little of this and a little of that, As time, the true dissolver, eats away at our fingertips, Leaving us memory and its end game, blurred star chart in the black light. When the world has disappeared, someone will have to carry us, Unseen and nightlong. When the world has disappeared, amigo, Somebody’s got to pick up the load. Rainy Saturday, January doldrums, toothache Like a saint’s call in my mouth, unavoidable, up and down. We live our lives like stars, unconstellated stars, just next to Great form and great structure, ungathered, uncalled upon.
da North American Bear (2000) Figliastri del Paradiso Luna al buio, coda dell’orsa al triage d’alberi invernali, il giardino una profonda tabula rasa, da dove cominciare? Con o senza lingua, c’è sempre spazio per un’altra vita. Abbiamo scaricato questa in un’incertezza inquieta, facendo un po’ di questo e un po’ di quello, mentre il tempo, disfattore vero, ci erode la punta delle dita, lasciandoci la memoria e la sua mossa finale, carta del cielo sfocata nella luce nera. Quando il mondo sarà scomparso, qualcuno dovrà sostenerci, invisibile e per tutta la notte. Quando il mondo sarà scomparso amigo, qualcuno dovrà raccogliere il fardello. Sabato piovoso, sconforti di gennaio, mal di denti come il richiamo d’un santo nella bocca, inevitabile, su e giù. Viviamo la vita come stelle, stelle senza costellazione, accanto alla grande forma e alla grande struttura, sparse, fuori luogo.
traduzione di Antonella Francini
Charles Wright Breve storia dell'ombra a cura di Antonella Francini Data d’uscita: 27 maggio 2021 Editore: Crocetti/Feltrinelli Collana: Poesia Pagine: 216 Prezzo: 16,00€
Charles Wright (Pickwick Dam, Tennessee, 1935) è un poeta di primo piano negli Stati Uniti. Ha studiato al Davidson College, all’Università dell’Iowa e all’Università di Roma. Dal 1957 al 1961 ha prestato servizio nell’Intelligence Service dell’esercito americano a Verona. Qui ha iniziato la sua vicenda di poeta sollecitato dalla lettura della poesia di Ezra Pound e dai paesaggi del nord Italia che l’avevano ispirata. Borsista Fulbright a Roma dal 1963 al 1965 con il progetto di tradurre La Bufera e altro di Eugenio Montale, si è avvicinato in questo periodo anche alla poesia di Dante e a quella di Pavese. Ha insegnato all’Università di Padova e all’Università della California a Irvine; dal 1983 ha insegnato scrittura creativa, titolare della Souder Family Chair, all’Università della Virginia dove è attualmente professore emerito. Ha avuto incarichi accademici anche alle Università di Princeton, Columbia e Iowa, e, nella primavera del 1992, all’Università di Firenze. Nel 1998 alla sua opera è stato assegnato il premio Pulitzer per il volume Black Zodiac, l’Ambassador Book Award e, a Firenze, il Premio Antico Fattore. Ha inoltre ricevuto il Bollingen Prize nel 2013; nel 2008 il Bobbitt National Prize per la poesia dalla Library of Congress e, in Italia, il Premio Internazionale Mario Luzi; nel 2007 il Griffin International Poetry Prize e, a Pistoia, il Premio Internazionale Leoncino d’Oro; il National Book Critic Circle Award nel 1997, il Lenore Marshall Poetry Prize nel 1996, il Ruth Lily Poetry nel 1993 e il PEN Translation Prize nel 1979. Nel 2020 ha ricevuto il Premio Laurentum Dante Alighieri. Nel 2014 è stato nominato Poeta laureato degli Stati Uniti dalla Library of Congress di Washington, carica che ha ricoperto per due anni.
Antonella Francini insegna letteratura presso la sede fiorentina della Syracuse University, dove è anche coordinatrice di programmi accademici. Si occupa prevalentemente di poesia americana e ha pubblicato saggi su autori statunitensi e italiani e sul rapporto fra poesia e arte. Le sue numerose traduzioni di poesia americana sono uscite in rivista e in volumi dedicati all’opera di Mina Loy, Jorie Graham, Yusef Komunyakaa e Charles Wright. Nel 2004 ha curato l’Antologia di Poesia Americana per il Gruppo Editoriale L’Espresso. Collabora a Alias-Il Manifesto. È redattrice della rivista di poesia comparata “Semicerchio”. Nel 2020 ha ricevuto il Premio Nazionale per la Traduzione dal Ministero della Cultura.