poesia contemporanea

Snuff box: poesia e presa di parola | Un sommario

Lay0ut ci ha chiesto di “chiudere” il (primo?) ciclo di Snuff box con due nostri interventi, dopo le cinque interviste a due voci della poesia contemporanea italiana. Abbiamo pensato che, da un lato, un commento alle risposte dei nostri interlocutori non fosse necessario, dall’altro, un contributo di risposte a domande da noi formulate potesse apparire, e in effetti fosse, una bizzarria. Allora ci siamo datə una certa libertà di riunire alcune riflessioni che hanno portato a quelle domande, per sondare un certo tipo di pensiero sul rapporto tra poesia e presa di parola. Eccole.


Massimo Palma – Poesia contemporanea e spreco di parola

Vergogna

È uscito di recente un saggio importante, La vergogna è un sentimento rivoluzionario, di Frédéric Gros. È un breviario su quanto sia complicato vergognarsi, su quante implicazioni abbia. Gros spiega che la vergogna va presa davvero sul serio, da Eva a Socrate, da Ernaux a Coetzee. Non è solo una passione triste, ma struttura le relazioni sociali, coabita col dominio, suscita immaginazione. La provano in tanti.

Per esempio, chi è poeta si vergogna. Non solo di dirsi tale, oggi, come funzione, come ruolo e parola pubblica. Proprio di esserlo. Sta di fronte alla pagina, allo schermo e si vergogna. Di cosa? Di prendere parola in quel modo. Del suo statuto precario. Come tutti, chi è poeta ha nella precarietà un nemico. E ne parla. Ma appena ne parla si vergogna.

Gros ci offre un principio di definizione utile: la vergogna provocata da Socrate, dice, certifica nell’interlocutore il non-sapere. Ecco, la poesia è un modo di portare alla vergogna il sapere. E la vergogna di essere poeti non è solo scrivere versi e pubblicamente dirli, è sapere che nel farlo si dà retta a voci che nella realtà non si sentono, magari non parlano neppure.

Chi è poeta è a suo modo malata di coscienza, magari a sua insaputa. Malata di coscienza vuol dire che dentro la parola, dentro i suoi ritmi, nella sintassi dei suoni e tra i doppi fondi dei significati, riesce a pensare un tempo autonomo da quello di cui scrive. Non sa dire la realtà se non duplicandola, lasciandola proliferare in realtà ulteriori.

La vergogna di essere poeti, forse, è il fatto stesso di riflettere dentro ogni immagine e ogni materia fonica un proprio tempo – dover raddoppiare, imitare, cambiare tutto mentre si usa lo stesso termine, la stessa frase o la stessa figura, mentre si cita questo o quella. La poeta sa che ripete, si vergogna a ripetere (eppure lo fa). Si vergogna a dover rendere in suono, a mettere in figura ogni sua questione. Eppure lo rifà.

Nemici

“Il nemico è la nostra stessa questione messa in figura”. È un verso del Canto a Palermo di Theodor Däubler nato a Trieste. Il suo amico Carl Schmitt (anche se nei diari lo chiamava maiale) dopo la fine del nazismo lo ripeteva a ogni occasione. Il nemico sta quindi davanti a noi come sfigurazione, come deformazione di noi stessi. E questa figura la vediamo e non la vediamo.

Faccio un esempio. Prendo tre versi da un libro recente e d’esordio dal titolo enorme, Tu devi prendere il potere di Pietro Cardelli. Cardelli parla tre volte di nemico (forse quattro).

“Identificare è un verbo che conforta. Nemico è una bella parola” (Costellazione, III)

“Il nemico è anche in ciò che non vedi” (Il nemico).

“Ci sono molti nemici, / ci sono molti lamenti” (La radice).

Tre occorrenze della parola nemico, dunque, e una progressione.

La prima è classica: è il piacere della definizione, delle identità contrapposte. Oltre a Carl Schmitt, teorico dell’inimicizia governata, tre canzoni lontane possono venire in soccorso. Sappiamo chi sono i nostri nemici (Oh Comely, Neutral Milk Hotel). Il nemico inizia dove io finisco (Where I End and You Begin, Radiohead). Scegli i tuoi nemici con attenzione, perché ti definiranno (Cedars of Lebanon, U2). Il nemico determina – nel farlo produce addirittura un piacere estetico, quello della messa in forma. La forma dà godimento.

La seconda occorrenza localizza il nemico “anche” altrove rispetto al visibile. Qui il nemico è l’indeterminato, è talmente grande che è tutto il mondo meno quel poco che conosci – dove pure è il nemico. Non si sta a proprio agio a questo mondo. La poesia lo sa – a volte lo dice con la sua calma.

Nella terza occorrenza il nemico è diventato puro suono, anzi lamento. Tanti nemici sono molti lamenti – non è un’identificazione, è l’indicazione di un rumore di fondo. Il gesto che s’impegna, allora, vorrebbe dare voce ai lamenti, e dire il lutto di non riuscire a vedere chi soffre quei colpi. Se da ere non passa chiaramente “a volo un messo infernale / tra un alalà di scherani” (Montale), oggi nel discorso diffuso, nella visione diffusa pare che non vediamo nulla, non vediamo chi è oppresso o represso e tantomeno il nemico. E allora? Prendere parola è solo un lamento di noialtri come ciechi?

Per ampliare il quadro si può ripensare un’altra formula ancora, ancora classica, più inquietante: il nemico interno. Nemico è chi non mi comanda né mi obbedisce, dice Hobbes nel De Cive parlando di figli (II, 3). Inimicizia, dunque, è ogni rapporto che non è dominio. È il non detto dell’ordinare e del servire. L’ombra.

In Verifica dei poteri Fortini usa un’espressione ambivalente che sembra proseguire questo ragionamento, pare chiosarlo: «Se scrivere è opera di delazione o di doppio gioco né esiste altra lingua fuor di quella degli schiavi (o dei padroni), scrivere, voler poesia o letteratura è alludere (mai non più che alludere) anche a una diversa codificazione del reale e del linguaggio».

Mettiamola così: in poesia il nemico è interno, è chiunque con la parola giochi, faccia giochi doppi, giochi sporchi. Prendere parola è alludere. Prendere parola è sporcare, spiare la lingua – da schiavi e da padroni. Menzionare figurare e sfigurare il nemico, in poesia, è provare a usare ciò che nella lingua non è (ancora) organizzato in dominio.

Precarietà

Ma la poesia è precaria, socialmente precaria. Non (solo) per il suo ruolo sociale – chi è poeta verifica ogni giorno che la sua è attività vicaria, economicamente accessoria –, ma per la lingua che usa appena prende parola. Se la precarietà è il nemico bisogna poter determinare il significato di precarietà dopo quello di nemico. Proviamo.

Precario è un lavoro che appena accordato può essere tolto senza conseguenze per chi lo dà e poi lo toglie. Lo scarico delle conseguenze è su chi se lo vede tolto.

Il poeta lavora? «Stento a chiamare lavoro vero e proprio quella serie di operazioni microscopiche e silenziose che uno compie dialogando con sé stesso» (Sereni). Diciamo che il poeta s’impegna, e sconta la sua precarietà.

Precaria è la lingua del poeta perché appena ha la parola il senso le si toglie, scivola via e non avverte e non chiede scusa. Chi è poeta capisce intensamente la precarietà. Ma questa comprensione profonda spesso apre la strada a una sua elevazione a potenza – la precarietà viene messa su un piedistallo, resa asociale e trascendente, e diventa l’inscalfibile atmosfera di tutti e di ciascuno.

Ancora Fortini, ancora Verifica dei poteri può aiutarci: «a chi per destinazione di classe o elezione viva al confine fra certezza e precarietà, fra partecipazione dell’esistenza e diniego di essa […] a costui l’Altro, il Diverso, se apparve dapprima con la maschera incantevole e repulsiva del Sacro, può finire col rivelarsi per quel che invece è, ossia composto di uomini. […] Quegli uomini – e noi siamo del loro numero – vicini o lontani, non cessano di tornare ad essere Altro o Diverso, perché il loro formicolio può, per l’operatore di poesia, rifarsi inafferrabile».

Per Fortini il rischio di chi scrive poesia è non riconoscere i processi sociali, e assecondarli persino. Sul crinale tra accettazione e rifiuto dare ai conflitti solo il colore delle proprie emozioni. E quindi accompagnare la resa dando etichette inumane ai soggetti immersi nel reale: ed ecco apparire maiuscole, patenti d’alterità, il ritorno addirittura del sacro. L’attitudine della poesia a farsi ieratica.

Invece in ogni istanza poetica, siamo sempre noi – “operatrici di poesia” – dentro il formicolio umano. Il formicolio che tendiamo a non riconoscere in noi e a chiamare perciò estraneo, straniero. Le apparizioni dell’estraneo sembrano tutte apparizioni dell’altro radicale: invece sono un fatto spaziale, preciso. Una presenza nello spazio popolato degli umani che noi siamo e che parliamo.

Stranieri

«L’essere straniero significa che il soggetto lontano è vicino», dice Simmel nell’Excursus sullo straniero. Lo straniero fa parte del gruppo, dal gruppo non esce più. Straniero, meglio estraneo: è parte di noi ma lo diciamo lontano. La poesia gioca con questa dialettica. Perché non si può fare a meno di estraniarsi dalla realtà mentre si prende la parola: nella parola ogni rappresentazione è un’esposizione, una messinscena, una spaziatura. Se la lingua poetica elabora lo spazio dei suoni, lo fa per renderli forestieri dove li penseremmo familiari. Ma lo spazio resta uno.

Di fronte all’estraneo chi è poeta cede ai piccoli smottamenti del linguaggio, ai lapsus, alle ripetizioni – sono proprio loro “il sacro nella vita quotidiana” (Michel Leiris in una conferenza del 1938 amata da Zanzotto). Cede e lascia si aprano faglie che alludono a un turbamento di quell’ordine in cui tutto tecnicamente funziona. Prendere parola può voler dire lasciarsi abitare dai disordini della parola stessa, della frase (un esempio: Bordini).

Sottrazione

Poi c’è sempre un rapporto tra poesia e rischio di afasia.

Ma ci sono – ne siamo pieni – anche poesie che tolgono la voce. Non solo quelle che riempiono gli spazi editoriali, ammucchiano echi lirici, lusingano desideri piatti. Quelle che saturano l’aria di un’egemonia loquace. Di fronte a queste è bello che ci siano poesie di sottrazione, che svalutano la parola rispetto a chi ne ha troppa. Che frammentano l’ordine del discorso che davvero domina.

Si può essere più precisi: e dire che la troppa voce è anche di chi si dà la parola (la vergogna, ancora). Se ha vergogna, se ospita lo straniero – quell’impersonale “essere parlati da”, e ancora l’entusiasmo, l’immersione l’affondare nell’espressione – la lingua poetica offre esperienze di non-riconoscimento, disallinea. Non fa tornare i conti. Toglie davvero la voce.

Luigi Di Ruscio, parlando dello shock del venire al mondo, suggerisce che la poesia rimette “le cose a posto”. “La poesia retrocede verso la prima angoscia / e potevamo immaginare che l’elettroshock / rimettesse le cose a posto /perché lo shock iniziale/ doveva essere continuamente ripetuto”.

Spreco

Regredendo e ripetendo, la poesia parla ai margini.

Il Faust in un punto famoso menziona il “resto della terra”. «Ci rimane un resto di terra/va portato con pena», (“Uns bleibt ein Erdenrest/Zu tragen peinlich”). La poesia va a occupare e a occuparsi di questo spazio. Ci resta il resto. La poesia che prende parola dà voce – cerca se il resto di terra abbia una voce. È una posa antica – Zanzotto fa rima a Montale –, si canta nel fango. Ma se intendiamo la terra, lo scarto, come una cosa di umani che si incontrano, un fenomeno sociale, un fatto sociale totale come il dono di Mauss, allora la voce di questo resto in cui stiamo e parliamo, magari affogando, è “sprecata”.

Sprecare è immaginare uno scambio, un contraccambio possibile che magari non avviene (forse perché la parola è l’ultimo dei pensieri del fango, l’ultimo dei pensieri precari). O invece avviene, felicemente (Rosselli: “Nel letargo che seguiva l’ingranaggio dei/ pochi, io giacevo, felice e disordinata, disordinata /all’estremo”).

Sara Sermini – Appunti (in forma di balbettamenti)

I wish to plead incompetence.

Monty Python, Dirty Hungarian Phrasebook

Ppp-oesie

Il verbo puffare (non) esiste. Lo usano i Puffi nella versione italiana del fumetto di Peyo, e nel cartone (su questo Umberto Eco, Schtroumpf und Drang, pubblicato su «Alfabeta» nel 1979). Le parole puffo e puffare sono formate a partire da un suono che dice il rumore di un corpo che cade, un soffio di vapore, un rapido scomparire. Puff. Le labbra si toccano, si gonfiano appena e l’aria esce rapida. Pausa.

Due poeti si incontrano. Sono un uomo e una donna. Lei lo riconosce e gli chiede: «Ah sì Lei scrive / Ppp-oesie!? – non senza stento / Puffando la labiale / Muta…». “Lei scrive Ppp-oesie?” aveva chiesto Amelia Rosselli a Giovanni Giudici, il quale se n’era ricordato alla morte di lei e così aveva messo in versi il loro primo incontro, coagulandolo in una Labiale muta, a fatica balbettata. Se n’era ricordato quando Amelia si era lasciata cadere dalla finestra. Puff dice bene la scomparsa. Improvvisa. E dice ciò che scompare perché non si riesce a dire. «Posponi la tua convinta orazione per / un babelare commosso», scrive Rosselli.

La poesia c’entra con il balbettio, con Babele, con i belati. È il tentennìo di una lingua che non sa o non può dire. E intanto dice. C’entra con il verbo puffare. Con la ricerca di quella parola – proprio quella – che “non viene”. Con la ricerca di un suono capace di mettere in crisi la pretesa del linguaggio di sorvegliare e organizzare ogni processo di significazione. Impulso ritmico e vocale, oltre la legge del segno. A volte è un rapido schtroumpf… starnuto, trattenuto goffamente, che esplode, è già passato. La poesia c’entra con l’essere goffi. Certo, a dire che il poeta è goffo ci ha pensato Baudelaire. Qualcuno pensa ancora che sulla pagina il poeta resti “il re dell’azzurro”?

In inglese goffo si dice awkward, che indica letteralmente qualcosa di girato nella direzione opposta rispetto a quella giudicata giusta. In francese si dice gauche o maladroit; si è goffi come un destrorso che tenti di portare il cucchiaio alla bocca con la mano sinistra. Si è poeti maldestramente, scrivendo verso per verso. Sbrodolando. Si è poeti con e per vergogna. Secondo un antico proverbio greco, ricorda Anne Carson, “la vergogna vive sulle palpebre”. Chi scrive poesia si ostina a volerla guardare, la vergogna.

Posture

In una scena del film L’eternità e un giorno (1998) del regista Theo Angelopoulos si racconta la storia di un poeta che vuole cantare la rivoluzione ma non sa la lingua del paese in rivolta, perciò si mette a vagare tra la gente, annotando le parole che conosce e comprando, invece, le più preziose: quelle che non conosce. Trovare una parola, anche una sola e tenerla. Come si tiene una parola? E, ancor prima, come si fa a raccoglierla?

Le parole, come le cose, si possono grappiller oppure glaner. Di questi due verbi francesi, traducibili rispettivamente con “raccogliere” e “spigolare”, dà due definizioni distinte Huguette, proprietaria di un bar in Borgogna, una delle protagoniste del film Les glaneurs et la glaneuse (2000) di Agnès Varda. «On grappille ce qui descend et on glane ce qui monte», dice Huguette. In entrambi i casi, si raccolgono i resti, gli scarti del raccolto, le parti improduttive.

Due verbi per dire due movimenti: le mani vanno verso il basso, a raccogliere ciò che resta sulla terra, oppure verso i rami, verso i frutti non selezionati per la vendita e lasciati sulla pianta a marcire. Il corpo si piega o si tende, la testa si reclina. In entrambi i casi è questione di inclinazione. Scrivere poesia significa forse inclinarsi, sporgersi, tendere verso ––– mettendo in discussione, per riprendere il pensierodella filosofa Adriana Cavarero, rettitudini e frontalità.

Nelle sue memorie, la danzatrice e pensatrice Isadora Duncan racconta il percorso che l’ha portata a disarticolare il modello della danza classica, il quale collocava il punto propulsore del movimento nel centro della schiena, alla base della colonna vertebrale: «From this axis, says the ballet master, arms, legs and trunk must move freely, giving the result of an articulated puppet». Duncan sposta il centro del movimento nel plesso solare, dunque nell’addome, appena sotto il diaframma. Lo fa incominciare nelle parti molli del nostro corpo, le più flessibili, quelle che consentono di ripiegarsi. Spezza la rigidità della danza classica e, ironia della sorte, muore col collo spezzato: sporgendosi dal finestrino di un’auto in corsa sulla Promenade des Anglais, a Nizza, il lungo foulard che indossava si impigliò nelle ruote, strangolandola. Ma questo c’entra e non c’entra.

Ancora a proposito di piegamenti e di pieghe. In una nota poesia, Seamus Heaney osserva se stesso osservare la penna che tiene tra il pollice e l’indice, «comoda come una pistola». E poi osserva dalla finestra suo padre, anziano, intento a rimestare la terra con un badile: «…guardo giù / finché la sua groppa tesa tra le aiuole / si piega verso il basso / risale vent’anni prima / curvandosi a ritmo tra i solchi di patate / dove sta scavando». Riflette, il poeta: usare la penna, come si usa la vanga… I’ll dig with it. Scaverò con questa. Cambiare la postura e il movimento. Cambiare lo sguardo. Digging. Un gesto politico. Continuando a scavare.

Gesti

Dare voce, prendere parola. Penso all’uso che se ne fa in relazione ai termini impegno e marginalità: “dare voce a chi non ce l’ha”, “prendere la parola per ribellarsi e soggettivarsi”. Torno alle due espressioni. Penso prima ai gesti, poi cerco di occuparmi dei verbi. È un gesto, quello del ‘dare’, che presuppone un movimento fisico nello spazio che va oltre il soggetto per aprirsi all’esterno. Mentre ‘prendere’ presuppone che si porti verso di sé qualcosa, tenendola. Nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Émile Benveniste spiega che «dare» ha la stessa radice di «prendere» e «l’ittita, che dà alla radice *do- il senso di ‘prendere’, invita a considerare che in indoeuropeo ‘dare’ e ‘prendere’ si ricongiungono, per così dire, nel gesto». Resto a pensarci, poi provo a collegare i gesti agli ipotetici fini racchiusi negli “oggetti” voce e parola.

Due oggetti che mettono in crisi i due verbi che li precedono, dando loro forza simbolica, una forza che risiede nella pura tensione del gesto che, come scrive Agamben, «non è né un mezzo, né un fine: è, piuttosto, l’esibizione di una pura medialità». Usare queste espressioni significa voler “esibire” una medialità radicalmente simile e dissimile a un tempo. Questa ambiguità è data dai due verbi, che indicano il movimento apparentemente inverso dei due gesti, ed è rafforzata dai due termini: voce e parola. La voce, si sa, viene prima della parola.

Eppure è ancora salda la concezione che stabilisce il primato (non cronologico ma simbolico) della parola sulla voce secondo la quale la voce sarebbe vicina ai bisogni fisici e corporei, dunque ancora oggi giudicati “bassi”, mentre la parola raggiungerebbe le “vette” di quelli morali. Questo perché la parola è intesa come base del linguaggio in quanto sistema. Mentre la voce è “asistemica”. Eppure entrambe le espressioni, “dare voce” o “prendere parola”, usate nel loro significato più politico, creano un cortocircuito e sembrano infine, in maniera del tutto problematica e finzionale, avvicinarsi: si dà voce a chi non ce l’ha affinché possa prendere parola autonomamente, mentre si prende parola per dare voce a se stessi, in quanto soggetti invisibilizzati, oppure a chi non ha voce.

Ma cosa c’entra tutto questo con la poesia? In un primo momento ho pensato: niente. Poi ho pensato che la poesia costituisce di per sé il cedimento di ogni “statuto”, inteso come ciò che è saldo e stabilito. È lo smottamento del sistema-linguaggio. Ha a che fare con il corpo, con le posture e con i gesti. Vive nel margine. Lì, in ascolto, il/la poeta dà e prende, parola e voce. Parola e corpo. Parola e cosa. Si muove mettendo sulla pagina la corporeità delle voci e l’incorporeità delle parole. Nella poesia la parola torna corpo, voce vibrante in una gola di carne.

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Massimo Palma ha pubblicato Berlino Zoo Station (Cooper 2012), Happy Diaz (2015, Castelvecchi 2021), Nico e le maree (Castelvecchi 2019). Con Movimento e stasi (Industria & Letteratura 2021) ha vinto il Premio Fortini per la poesia. Ha scritto i saggi I tuoi occhi come pietre. Trauma e memoria in W.G. Sebald, Paul Celan, Charlotte Salomon e Foto di gruppo con servo e signore (Castelvecchi 2020 e 2017). Ha curato opere di Max Weber (Economia e società, Donzelli 2003-2018), Walter Benjamin (Senza scopo finaleEsperienza e povertà, Castelvecchi 2017 e 2018), Georges Bataille (Piccole ricapitolazioni comiche, Aragno 2015), Georg Heym (Umbra vitae, Castelvecchi 2020), Fredric Jameson (Dossier Benjamin, Treccani 2022).

Sara Sermini lavora come ricercatrice all’Université Paris Nanterre. Ha dedicato una monografia alla figura e all’opera di Amelia Rosselli: «E se paesani /zoppicanti sono questi versi». Povertà e follia nell’opera di Amelia Rosselli (Olschki, 2019). È autrice di una raccolta di poesie intitolata Diritto all’oblio, in parte pubblicata nel Quindicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2021).


L’immagine di copertina è tratta dal docu-film Senzachiederepermesso, di Piero Perotti e Pierfranco Milanese. La seconda immagine è tratta dal film Cleo dalle 5 alle 7, di Agnès Varda e l’ultima proviene dal film Già vola il fiore magro di Paul Meyers.

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