Questo editoriale è un esperimento, organizzato come un fuoco da campeggio, all’innesco e al combustibile, cioè le ragioni che hanno spinto lay0ut a riunirsi in Aspromonte e nel Casentino per gli “stati generali”. Si sommano tizzoni ardenti, carta e cartone, foglie secche che bruciano, cioè narrazioni altre, anche fine a sé stesse, più le scintille e il fumo, ovvero i discorsi che vogliamo portare avanti, le proiezioni verso il futuro della rivista. Qui troverete, allora, un incipit narrativo che condensa le tante emozioni, anche conflittuali, che abbiamo provato, insieme al racconto di ciò che ci siamo dett*. Molte parti di questo articolo verranno approfondite in altre pagine, fino a renderlo un grande ipertesto, una simulazione.
Quali sono i limiti che scegliamo e i confini che ci vengono imposti?
Quali sono le distanze di cui abbiamo bisogno e quali sono i muri che ci isolano e ci distruggono?
Come possiamo distinguere fra limiti generativi e confini distruttivi?
Siamo pronti ad abbracciare forme rigenerative di adattamento?
Alexis Pauline Gumbs, Undrowned
Attorno al fuoco
Facciamo un giro di storie. Cosa mi raccontate se c’è una strana luce artificiale, un faretto alto da una delle tre case. Non si può spegnere, brucia il cielo come il flash di una macchina fotografica, ci aiuta a orientarci nel buio, abbiamo perso i riferimenti. Dànno la stessa nausea, io sono la nausea e ci devi curare. Sono il tuo desiderio di prenderti cura, di darmi da mangiare e di togliermi il nodo alla gola. Sono il fuoco che alimenti con piatti di carta e foglie secche, sono tutto ciò che hai sempre di fronte, che non puoi cancellare e che non sai come tenere a bada. Come: tuo nonno, l’amore, le tue ossessioni, i soldi. Vorresti bruciare la paura. Sono l’impossibilità del futuro, sono la macchia del padre o della madre, sono quella volta che ti sei disarmato, senza riuscire più a trovare nulla per terra. Non faresti un giro di storie, allora? Ti racconterei, ti parlerei. Nel carbone vedi la distanza tra due o tre di noi, sei muto che non si capiscono. Lei butta ciocchi d’erba ed è pericolosamente vicina al fuoco. Sa che la storia del giacchino beige è una storia sul raccontarci, su come combattiamo ogni giorno per decostruirci, per perdere l’armatura e sulla paura di non riuscire a sentirci più. Sa che la pelle secca e calda per il fuoco non ci ferisce, ma ci libera, faranno la beauty routine. Facciamo un giro di storie tipo quella del cappotto giallo, sale sale sale pepe. Dimmi perché chiedi così tanto alle persone e perché dài tutto e cosa c’entra quell’infiorescenza a spiga sul braccio. Tipo quella del frenulo che si rompe e che ti sentivi Mosè tra le risate di tutti, se non gli dici che vibri e ti alzi in volo per la prima volta, se sei sempre rimasto a terra. Siamo una famiglia no? Ma guardati negli occhi e dimmi perché hai perso la fiducia, perché non puoi osservare altro dolore nel mondo. Confessami come hai già fatto che non puoi vedere un neonato senza pensare al dolore che procurerà, molto più di quello che si permetterà di sentire. A distanza, gli stanno scrivendo di lasciarsi attraversare, ma cosa vuol dire? Sei sdraiata su un telo mare e mi fai un elenco con le mani di chi ti ha ferito, che non sei d’accordo che ti consolano, i bambini. Rivedremo le foto, gli alberi alti e senza nome dell’Ex Vivaio e i pipistrelli come stelle cadenti e ci verrà la nausea, che è fame o sazietà o il vino dolce? Se ogni cosa che non dici è più della forza del vento. Il vento è maligno, in Calabria. Porta cattive notizie ed emicranie. Il fumo è il passato del fuoco, lo sapevi? Sapevi che per portare a un cambiamento la crisi è inevitabile? Che ti è venuto in mente, quando ci siamo seduti a turno nella capanna cercando riparo come in Melancholia. Chi si pensava quando all’eliporto di notte non riconoscevamo le costellazioni. O quando l’immaginazione della morte veniva assieme alla fantasia di vivere, sul punto più alto della pista da scii, con le olive nere e le olive schiacciate e un tramonto che finiva prima del tempo, per la foschia della poca pioggia del pomeriggio. Facciamo un giro di storie e smettiamo di pensare, che è il punto. Attorno al fuoco e ridiamone anche se ci hanno diviso. Siamo arrivati fin qui per costruire, non c’è speranza ma va bene così, non abbiamo bisogno di speranza, soltanto di noi.
Attorno al tavolo
Tutto questo accade seduti su divisori in cemento per tagliare il fuoco. Recuperiamo la legna il tardo pomeriggio dal bosco contiguo alla strada, sono tronchi già vecchi e marci che fanno fumo denso misto a vapore. Ci dicono che non è legale, che la legna si deve comprare e quindi facciamo tutto furtivamente, pieni di adrenalina. Io e Alberto li trasciniamo da una parte all’altra lasciando residui e gli chiedo che cosa ne faremo. Lui mi fa: li frantumeranno le macchine, che vanno velocissimo, che non è normale. Oppure: pioverà e andranno giù. E io: ma no, dico di lay0ut. Siamo lì per fare il fuoco e bere insieme, prenderci qualche giorno di riposo fuori dal mondo ma soprattutto per capire cosa ne sarà di noi. Ci pensiamo domani, fa, non rompere ihcazzo.
Qualcuno sta cucinando, Martina legge, Dimitri prova a dispensare (dis-pensare), Matteo è alla piscinetta di acqua di sorgente. Dai, tutto è a posto.
La mattina, per quattro giorni di fila, ci vediamo attorno a un tavolo. Siamo arrivati in momenti diversi il 20 di agosto, da Lugano, Bibbiena, Siena, Como, Roma. L’ex Vivaio Forestale di Cucullaro, nel comune di Santo Stefano in provincia di Reggio Calabria, è un posto indefinibile. Con tanti ettari inesplorati abbiamo potuto vivere solo nello spazio compreso tra una piscinetta di acqua di sorgente, gelida, un eliporto, tre casette, un parco giochi per bambini, uno spazio di collettività con falò e zona picnic. Avremmo visto Montalto, un giorno di quelli, ma Martina si è slogata la caviglia mentre insieme giocavamo a Stripschiacciasette. Abbiamo preparato le camere mettendo su ogni materasso una pila di libri. Prima del campeggio, ho chiesto a ogni persona di suggerire un libro che avrebbe voluto gli altri leggessero. Il senso, l’ho capito dopo, viene da Il passeggero di Cormac McCarthy:
Condividere la lettura anche solo di qualche decina di libri costituisce un vincolo ben più potente del sangue.
Diminuire la distanza, quindi. La lista: il nuovo cartaceo di CTRL Magazine, È giusto che finisca così, e il sesto numero di Marvin Rivista; poi da effequ Per una rivoluzione degli affetti di Brigitte Vasallo e L’impensato. Teoria della cognizione naturale di N. Katherine Hayles; da Neri Pozza La vita che vive di Emanuele Dattilo e Non leggete i libri, fateveli raccontare di Luciano Bianciardi; da Tamu Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe di Brigitte Vasallo; da Time0 Materia vibrante. Ecologia politica delle cose di Jane Bennet e Undrowned. Lezioni di femminismo nero dai mammiferi marini di Alexis Pauline Gumbs. Le riviste e l’ultimo libro, tra l’altro allora ancora non uscito ufficialmente, li ho scelti io in aggiunta: le riviste perché bisogna comprendere cosa fanno gli altri, scontrarsi con visioni differenti; il libro perché chiude un cerchio.
Gli stati generali
Gli “stati generali”, cioè un momento di messa in discussione radicale di ciò che lay0ut ha fatto e vuole fare, è e vuole essere – un momento di progettualità. L’idea è venuta una mattina all’inizio dell’estate. Eravamo a casa mia (e sede legale di lay0ut) a Milano io, Franco Palazzi e Marie Moïse, il giorno dopo dell’incontro sull’agency politica al CSOA Lambretta. La sera prima era stata complessa perché il dialogo, che includeva anche Daniele Giglioli, è diventato presto uno scontro generazionale tra una sinistra intellettuale integrata e disillusa e dall’altra una sinistra intellettuale militante piena di rabbia. Palazzi leggeva un libro, se non sbaglio dell’editore Avanti, vintage ma nuovo, io lavoravo al cartaceo di lay0ut, Marie finiva di tradurre proprio Undrowned, chiedendosi come rendere questo titolo (poi, per l’appunto, felicemente non reso). Ci siamo presto distratti e Marie – difficile incontrare persone così capaci di longshots – mi ha guardato dicendo che lay0ut è fortissima, certo, ma che le manca qualcosa, un’idea di futuro. Non bisogna avere paura di progettare (il progetto porta spesso alla creazione di una struttura, la struttura tende a diventare istituzione e a preservare sé stessa, perdendo di vista la direzione originaria), bisogna avere il coraggio di farlo diversamente.
A quel punto ci siamo riuniti e abbiamo deciso – cercando di far partecipare tra presenza e virtualità tutti – di dividere gli stati generali tra due luoghi. La prima parte sarebbe stata a Reggio Calabria, e precisamente a Pentedattilo, un borgo fantasma sulla Jonica arroccato sulla mano del diavolo, con un mito fondativo degno di Shakespeare. Il paese però, come del resto ogni estate, è stato preso dagli incendi. Un abitante del luogo che avrebbe dovuto darci le chiavi dell’ostello mi ha chiesto di fare un passo indietro, di considerare che è l’inferno, che lì si muore. Temperature altissime, vento caldo di scirocco, fiamme vicino alle abitazioni. Dopo settimane di ricerca ho trovato l’ex vivaio forestale di Cucullaro, vicino alla meta turistica di Gambarie, in Aspromonte, grazie alla lungimiranza di Paolo Genoese, che lì stava conducendo Aspromondo, un’innovativa residenza artistica, pensata all’interno del decennale Face Festival (la cui casa era Ecolandia, nel quartiere di Arghillà a Reggio, ma è un’altra storia), con l’obiettivo di popolare una parte del bosco di Gambarie di opere d’arte permanenti ma esposte ad animali e intemperie. Esperimento artistico e socioambientale, il Bosco degli Artisti appunto. Comunque, Paolo mi fa noi siamo qui, in questo ex vivaio e c’è la piscinetta, dài, si sta da Dio a parte i ragni grandi quanto una mano (non devo dirlo all’entomofobo Alberto, non posso), mostrandomi i polpacci mangiati e gonfi. Dopo il sopralluogo che significa pranzo chi ’rrestatini (lasagne di funghi, parmigiana, pancetta calabra, pipi ’rrustuti e non so cos’altro) sono pieno ed euforico.
Dimitri ha subito detto: Bibbiena, la parte conclusiva facciamola a Bibbiena, facciamo un casino, la mettiamo sottosopra. Bibbiena è in provincia di Arezzo, nelle colline del mistico Casentino. Dico “mistico” perché lì San Francesco ha preso le stimmate, mica cazzi. Ha più di diecimila abitanti e un’automitologia eclettica, che vi spiegheremo un’altra volta. Due giorni a Bibbiena, in tenda attorno a casa sua, presentando il cartaceo, con un concerto magari e un’apericena. Diciamo sì, capiamo chi ci sarà, non consideriamo che spenderemo soldi che non abbiamo, non ci importa.
Anche quello che non volevo
Attorno al tavolo partiamo dai pro e dai contro. Ci sentite, da casa? Il cartaceo è bello, tutti d’accordo, un prodotto invidiabile. Domanda (di Alberto): perché un fotografo lo capisce subito? In che senso? Nel senso che se lo dai in mano a chiunque, lo gira lo rigira e non ci capisce granché, ci mette un po’. Uno del settore, per dire un fotografo come quello di Blablacar che avevo sul sedile posteriore un mese fa, lo capisce immediatamente. Cosa vuol dire? Alzo gli occhi, Matteo sta fumando e dice Porcozzio.
C’è qualcosa di strano, qui a mille metri di altezza.
Dimitri fa: che abbiamo fatto qualcosa di riconoscibile per il settore, quindi da un punto di vista stiamo lavorando bene. Esatto, esatto. Alberto dice: ma è quello che vogliamo? Non lo sappiamo, forse dovremmo provare a fare qualcosa di irriconoscibile, qualcosa che metta in difficoltà il fotografo, lo scrittore o il traduttore di turno, mentre mia nonna no. Quella che cucina con tanto olio? Entrambe, sì, ridiamo. Ma è una cosa seria, c’entra con l’inclusività ed è per questo che il libro che ho scelto io è Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe, di Vasallo:
Tutta questa architettura del mito della scrittura e del mito dell’arte, questa sacralizzazione con tratti di classe, ha una conseguenza diretta sull’accesso alla produzione del discorso. Tutto il dibattito sull’accessibilità è stato deviato verso il dibattito sull’accesso al consumo di arte, evitando così la questione spinosa della produzione. […] Come possiamo costruire discorsi politici liberatori anteriori al disciplinamento di classe?
Lo stavo leggendo prima, ha una lucidità particolare, fa Dim appoggiato alla porta della cucina, la lucidità dell’incazzata, è travolgente e capisco, davvero. I temi sono due, il primo è perché assecondiamo i miti che sentiamo tutt* così falsi, così sorvegliati; il secondo è come allora riflettere davvero sull’inclusività. Martina sta pensando a quella mostra privata a Roma che aveva sdoppiato i testi curatoriali, mettendone uno semplificato ad altezza bambino. E fa: noi stiamo già lavorando, col nuovo sito, all’accessibilità, al migliorare la fruizione degli articoli e delle immagini, Eva annuisce. Secondo me non è una cosa secondaria, anzi. Però non capisco cosa dovremmo fare oltre. Tornando a mia nonna, dico io, l’unico modo per farle capire cosa scriviamo, in realtà, è che lo scriva lei. Mi guardano divertiti: ma sì, in effetti è quello che dice Vasallo, anche, da una prospettiva strutturalista-marxista precisa Matte. Condividere i mezzi di produzione, perché se esiste un problema di accessibilità non è alle forme o ai contenuti, ma è verso i mezzi (e i media) che li producono. Faccio io che per come è adesso, il sistema culturale è controllo ideologico, perché vuole tradurre contenuti da A a B e questo è quanto. L’accessibilità, per essere inclusività, deve agire sia alla fonte, sia durante il corso, sia alla foce. Metafora del fiume a parte che fa storcere i nasi, tutti d’accordo, ciò che faremo quest’anno è lavorare in questa direzione. Non vogliamo limitarci al posizionamento e alla narrazione a caldo, dobbiamo lavorare culturalmente per una rivista politica nei meccanismi. Significa mettere in crisi, anche, l’apparente neutralità della cultura contemporanea, per creare un contesto dove le persone vogliano esprimersi autonomamente, senza sentirsi “chiamati” a farlo, che è il meccanismo, molto elitario, del “dare voce”. Ci viene bell hooks, che in Insegnare a trasgredire si chiede come creare una “comunità di apprendimento” in aula, dove il privato sia politico e dove il potere non sia temuto in quanto tale (quindi lasciato esercitare agli altri). Fuori dall’aula, se bisogna creare comunità inclusive, come si fa? E bisogna rinunciare al potere?
Questioni di potere
Per confermare le nostre buone intenzioni, non possiamo più avere un direttivo. Tutt* fanno sì, certo, ci salutiamo e ci stringiamo le mani. Anche dal computer sono d’accordo e c’è una caffettiera grande quanto un avambraccio sul tavolo, non quello di Dim sia chiaro, quello è troppo grosso. Martina alza gli occhi dai fogli volanti di appunti e fa: ok, però cosa si dice agli altri? Chi? Tutt*, dentro e fuori. Se manca chi prende le decisioni nessuno le prende, esperienza personale. Diventiamo comodi mentre disegno un diagramma verticale con su scritto:
Direttori editoriali: Demetrio Marra, Dimitri Milleri
Direttrice artistica: Martina Santurri
Caporedattor*: Noemi Nagy, Alberto Parisi
Traccio una X rossa sopra, poi disegno una freccia e provo a tracciare uno schema disorganizzato in cui ognuno possa avere un ruolo di “responsabilità”, senza accentrare nulla e soprattutto ammettendo la possibilità che cambino spesso [grafica con scritto: qui potete skippare, se non avete voglia. Sono le responsabilità che ci siamo distribuit*, nulla di più nulla di meno]:
Io farò il jolly, Alberto si occuperà del sito inglese (vedrete); Dimitri farà l’ufficio stampa e con Matteo e Noemi riavvieranno la rubrica di inediti in poesia. Social Media Manager incaricata Eva Brami, che sembra felice, dalla foto dell’anteprima video, formata da Martina che si incarica, volente e nolente, il coordinamento della sezione Figure (l’aiuteranno Gianmarco Gronchi, Beatrice Sartori, Sara Van Bussel). Bernardo continuerà a fare le sue cose americane, fiuoli permettendo. Gianluca Furnari si occuperà delle lingue morte, cioè delle traduzioni dal greco e dal latino. Federico Di Mauro si offre di fare l’editor e mi sono dimenticato (non è vero) che Eleonora Daniel, nostra ospite all’autofestival per fare formazione editoriale, durante tutti gli incontri a un punto si è alzata dal suo telo da mare e ha rinunciato alla tan per partecipare al dibattito.
Da fuori, a metà
Per questo, alla fine dei giorni, sarà inserita dentro il gruppo Whatsapp di redazione dove potrà esprimere il suo cinismo ma soprattutto dove potrà fare da editor, anche lei. Daria De Pascale e Claudio Bello dirigeranno una rubrica di racconti inediti (e ve lo droppiamo così?), Pietro Bocca non sa cosa fare della sua vita, figuriamoci in lay0ut. Luca Mannella dice che deve leggere cose, come sempre. La squadra di traduttori e traduttrici è armata, ovviamente, e via via. lay0ut è uno spazio di libertà.
Me lo mostrano le circostanze
Sì, bello tutto, ma sembriamo una parodia uscita dalla penna di Luciano Bianciardi. Quello che bisogna capire è: di cosa vogliamo parlare quest’anno?
Un’altra domanda? Sorrido e ci guardiamo negli occhi. Alberto dice, tornando ai contro, che forse non è mai stato convinto del tema dell’hackeraggio. Mhmm, facciamo. Perché non so, forse è vecchio, e soprattutto ci mette in gabbia e non ci abbiamo pensato abbastanza, tutta questa storia della spontaneità ci rende più deboli, più confusi. Qualche messaggio su Zoom di conferma, lunghi chilometri che non li abbiamo salvati, e io la prendo sul personale (ovvio): ma no! Dobbiamo difendere la spontaneità, è la cosa che ci permette di non auto-istituzionalizzarci, agitando il pugno mentre Dimitri tira fuori un po’ di fogli e mi interrompe che ci vorrebbe leggere un discorso dal titolo Formazione letteraria e discipline speculative [qui grafica con avviso che l’articolo uscirà, preso].Sostiene che la complessità ha bisogno di tempo e di sospensione del giudizio, che ci dobbiamo esporre con gentilezza alla difficoltà. La comprensione non è solo assimilazione ma anche modifica delle strutture cognitive. Questa trasformazione avviene attraverso la speculazione collettiva. Ognun* di noi, in lay0ut, potrebbe formare gli altri alla sensibilità per i propri saperi e interessi. Vorrebbe che ognuno accettasse l’incomprensibilità nell’attesa che diventi comprensibile, nel rispetto dei limiti e delle inclinazioni di tutt*. Questo è ciò che io (Deme) cercavo nella spontaneità ed è solo il contrario dell’assertività. Per quest’anno, parlare di come questo tipo di “speculazione” collettiva, cioè in comunità, possa essere una duratura messa in crisi di ciò che facciamo continuando a sentire la terra sotto i piedi. Anche: è l’amore come dimensione speculativa. Mi sono spiegato? Alberto raccoglie legna a dieci metri di distanza e urla di non disumanizzare l’amore. Gli rispondiamo che stiamo facendo il contrario, romanticizzandolo fino a questo punto. Dici che non dovremmo scegliere un tema solo per averlo lì, che ci orienti come stella polare, ma che è questo tipo di collettività complice che funziona come equilibrio? Sì, più o meno, ci capiremo meglio. Ridiamo. Martina fa: quindi niente tema, evviva evviva, con la caviglia nella pentola con acqua di sorgente. Come far entrare tutto ciò che siamo in una narrazione verso l’esterno coerente? L’antispecismo e il politico, la letteratura e il digitale, eccetera? Saranno cazzi vostri, dice qualcuno, tuoi e di Eva e nessuno ride, perché è la verità. Ma crediamo anche che questo è sempre quello che abbiamo fatto, soltanto non eravamo chiari a noi stessi. Ci sta, ci sta. Ripenso a quello che ha detto Dim il secondo giorno, cioè che è normale non capire tutte le stronzate bucoliche in poesia,
finché non si guardano le costellazioni senza un fascio di luce, in Aspromonte
Ci richiama la pasta? Pasta? Pasta, pasta. Vogliamo prenderci cura l’un* dell’altr*, no? O, come dice la mia terapeuta, prenderci cura del processo. Al di là di tutto, ognuno deve coltivare la propria autonomia rimanendo in relazione. Poi è tutto zibibbo.