Ho incrociato la poesia di Antonio Settimuleio Campano (1450-1469 ca.), detto Campanino, quasi per caso, mentre frugavo nel mare magnum della poesia quattrocentesca alla ricerca di rivisitazioni del mito di Ganimede. La mia prima reazione è stata di profondo stupore: morto a circa vent’anni, a seguito delle torture subite da papa Paolo II, oggi Campanino sarebbe considerato un enfant prodige per l’irriverenza delle sue poesie e la raffinatezza del suo latino: un’operetta come la sua avrebbe forse incontrato l’interesse di un altro romano, Dario Bellezza, e meriterebbe almeno una menzione nei programmi scolastici.
Non stupisce che Campanino sia andato incontro alla sorte di tutti i poeti moderni che hanno scelto il latino come lingua letteraria esclusiva: se si eccettuano pochi studi, tra cui spicca l’edizione critica di Laura Casarsa, è come se Campanino non fosse mai esistito.
Eppure è facile entrare in empatia con la sua storia e i suoi testi: la produzione del poeta laziale si esaurisce quasi interamente in un Libretto di epigrammi (epigrammatum libellus), composto da 69 poesie, che si leggono in poche ore.
I nomi dei dedicatari aprono uno squarcio sul milieu culturale da cui nascono queste elegie: Campanino era membro dell’Accademia Romana di Pomponio Leto, cenacolo di umanisti animati da ideali di restaurazione pagana e avvezzi a praticare rituali profani nelle antiche catacombe cristiane. Ne fornisce una descrizione suggestiva Anthony D’Elia in A Sudden Terror (HUP, 2011), p. 7:
Hidden in these deep underground caverns, the humanists felt well protected from church authorities. Here the friends could lose themselves completely in their devotion to antiquity and each other. Among their many scandalous activities, they performed secret pagan rites and mock religious ceremonies, at which Pomponio was called Pontifex Maximus – the “High Priest” – a title reserved for the pope.
Le inclinazioni omoerotiche degli accademici romani – riconducibili nel Quattrocento alla stessa categoria di altre inclinazioni sessuali estranee al fine procreativo, cioè quella di «sodomia» – potevano apparire agli occhi di papa Paolo II come una conferma del loro epicureismo; a ciò si aggiungeva un atteggiamento apertamente anticlericale, tipico in particolar modo di Bartolomeo Sacchi, detto Platina.
Le tensioni tra la Chiesa e l’Accademia Romana degenerarono nel 1467, quando alcuni accademici vennero torturati tra le mura di Castel Sant’Angelo con l’accusa di aver cospirato contro il pontefice. È Platina stesso a raccontarci quel che accadde nel Liber de vita Christi ac omnium pontificum, descrivendo la cospirazione come una montatura e il papa come un paranoico. Dispiace ritrovare fra i nomi dei torturati i dedicatari delle poesie di Campanino: la violenza del papa comporta, in questo senso, la dissoluzione di un intero mondo letterario, che da quel momento perde la sua forza eversiva. Oltre allo stesso Platina, ne sono vittima Filippo Buonaccorsi (detto Callimaco) e Marco Lucido Fazini (detto Fosforo). Verso Campanino Platina mostra grande pietà: nell’accennare alla sua morte, attribuita alle torture, sembra anche suggerire che il ragazzo fosse caduto in depressione.
Di tutto questo però non v’è traccia nell’epigrammatum libellus: vi è documentata, invece, la fase precedente alla cospirazione; l’atmosfera che si respira nei testi è paganeggiante e goliardica, intrisa di omoaffettività e scetticismo religioso (su quest’ultimo tema cfr. 63, Ad Platynam). Al centro dei carmi erotici, tutti rivolti a ragazzi, si accampano dettagli fisici e ornamenti dei corpi amati: il viso, le labbra, il berretto, l’incarnato lucente; alle dichiarazioni di poetica si alternano nel libellus scenate di gelosia, resoconti di episodi specifici, riflessioni sull’amore. La componente omoerotica è dunque strutturante e riguarda quasi la metà dei testi: figure come Acasto e Severo danno vita a piccoli cicli poetici e variazioni sul tema, che fanno supporre una composizione ravvicinata.
Nelle libere traduzioni che riporto di seguito, condotte in linea con le scelte metriche e formali della rubrica Neolatina, ho provato a restituire la dolcezza e la sfrontatezza di una lingua poetica che coniuga gli elegiaci a Catullo e Marziale. Quest’ultimo è talmente presente che, nel leggere il libellus, sembra di sfogliare la copia degli Epigrammi sottolineata e annotata da Campanino.
Ad Acasto, che evita la compagnia del poeta, è dedicato il carme 19, mentre il dittico costituito dal 23 e dal 26, a Fosforo e Calvo, sottende una tenue simbologia letteraria che oppone luce e buio (specie il carme a Fosforo, “portatore di luce”); il 54 risente di suggestioni stilnovistiche, salvo poi chiudersi con un riferimento all’usanza antica di segnare i giorni lieti e infelici con sassolini di diverso colore; il carme 63 è il racconto di una sbornia epica, suggellata dal fulmen in clausula; il 68 racconta il discidium del poeta dal giovane Severo, tornato fra le braccia di un vecchio amante; solo l’ultimo testo, il 2, è tratto dall’Appendix e risale alla prigionia, quando il poeta era ossessionato dall’immagine della gabbia e del recinto.
Con i se e con i ma non si fa la storia letteraria, ma di fronte a un libretto così raffinato è forte la tentazione di immaginare un futuro possibile per la carriera di Campanino: travolgendolo nel pieno della giovinezza, la morte lo condanna all’oscurità, confermando la sinistra profezia che il giovane poeta aveva chiuso nei vv. 3-6 del carme 8 e troncando i suoi sogni di conoscenza: «Non che io rifugga il tempo atroce d’una morte certa / o che voglia sottrarre al rogo ultimo il corpo; / ma voglio prima intendere la causa delle cose / e sotto quale guida il nostro mondo ruoti» («Non quia fatalis fugiam fera tempora leti, / Et nolim extremo reddere membra rogo; / Ante sed exopto rerum cognoscere causas / Et duce quo mundi vertitur iste globus»).
Dall’epigrammatum libellus
19. ad Acastum
Si me turba frequens primo consistere cogit
Limine gymnasii, tu penetrale petis.
At cum densantis turbae discesserit agmen,
Si penetrale peto, limina prima petis.
Cur facis hoc dicas, et qua ratione rogamus:
Ne prope me sedeas, esse ut ubique velis.
19. Ad Acasto
Quando al ginnasio il flusso della folla mi costringe
a fermarmi all’ingresso, tu sgattaioli dentro;
ma quando si disperdono le schiere della folla
che pullula, se io vado dentro, tu torni fuori;
perché mai tu lo faccia, e con che logica, ti chiedo:
per non sedermi accanto, per essere dovunque.
23. ad Splendophorum
Sordida cur nimium sit cellula nostra requiris,
Splendophore, et multo pulvere mersa domus.
Ille meus, sine quo non horam vivere possum
(Nec iuvat), a nobis pulcher Acastus abest,
Cuius ob adventum radiabant limina tota
Non aliter Clarii quam face tacta dei.
23. A Fosforo
Ti chiedi perché la mia cameretta faccia schifo,
Fosforo, e casa mia anneghi nella polvere.
Il bel mio Acasto, senza cui non posso un’ora sola
vivere (né mi aggrada), non ce l’ho più vicino.
Quando arrivava lui, tutta la casa mi splendeva:
pareva la toccasse la fiaccola di Apollo.
26. ad Calvum
Cur obscura domus mea sit, rogo, quaerere noli,
Cum mea non ullus hostia pulset amor.
Quis, nisi mentis inops, quaerat cur nocte tenebrae,
Dumque latet Phoebus, nubilus aer eat?
26. A Calvo
Non chiedermi, ti prego, perché casa mia sia buia,
ora che non c’è amore che bussi alla mia porta.
Solo uno scemo chiederebbe perché faccia buio
di notte, o perché l’aria sia scura senza sole.
54. ad Severum
Non si Sarmaticas coles pruinas
Extremum aut Tanaim bibes, Severe,
Nostro pectore decides: manebit
In te mens mea semper et remotum
Horis omnibus usque te videbo
Et ficta fruar allocutione.
O, quae candidulum meis remittes
Votis incolumem, dies notanda,
Dum vivam, oceani nitente gemma!
54. A Severo
Se anche vivrai nel gelo di Sarmazia,
Severo, o ti abbevererai nel Tanai,
mai mi cadrai dal cuore: il mio pensiero
rimarrà chiuso in te. Benché lontano
ti vedrò di continuo, a tutte le ore,
ti parlerò con dialoghi fantasma.
Oh, ma quel giorno che ai miei desideri
ti riporti – lucente, sano e salvo –
io lo dovrò segnare, purché campi,
con una pietra chiara dell’oceano.
66. ad Callimachum
Rem dignam auribus et tuo cachinno
Audi, Callimache, elegantiarum
Princeps et Latiae lepos Thaliae.
Bacchi dum pateras capaciores
Et Phryx pocula crebriora siccat,
Vacillant oculi manus pedesque.
Huic dicunt “Bibe parcius” sodales.
Ridens Phryx petit alteros trientes
Et servo iubet afferat lagoenam,
Quam nymphae Numa condidit sub antro.
Tandem multiplici madens liquore
Et vino miser hinc et inde plenus
Lasso corpore debilis tremensque
Adiutus socia manu cubile
Ascendit crapula movente somnum.
Vix horae spatio quiete functus
Assurgens medio toro resedit
Et prensa digitis virilitate
Bacchi flumina iecit in sodales,
Nec soli nocuit sibi bibendo.
Arrident socii, iacens sed ille
Laxo podice ter quater pepedit.
66. A Callimaco
Sta’ a sentire, Callimaco, una storia
che si accorda al tuo orecchio e al tuo sghignazzo,
re del buongusto, cocco della musa
latina. Mentre Frige scola tazze
larghe di vino e coppe a profusione,
gli occhi, le mani, i piedi non gli reggono;
gli fanno i suoi compagni: “Vacci piano”;
Frige ride, pretende altre litrate,
domanda al servitore la bottiglia
che Numa aveva messo in sicurezza
nell’antro della ninfa. Finalmente
zuppo dal troppo bere, da una parte
e dall’altra – ahilui! – saturo di vino,
debole, il corpo a pezzi, tutto un tremito,
monta sul letto in forza d’una mano
compagna e crolla, tanta è la sua sbornia.
Non dorme manco un’ora che si rialza,
si accomoda sul letto e, con le dita
afferratosi il membro, sui compagni
getta fiumi di vino: la sua sbornia
ha mietuto così più d’una vittima.
Ridono gli altri, ma lui, steso, sgancia
tre quattro peti, rilassando il culo.
68. ad Lucidum
Torvus ab incultis rediit modo vallibus Argus
Et nimium nostro laesus amore furit.
Non datur, ut quondam, formosi intrare Severi
Limina, quae multo durior hospes habet.
Roma relinquenda est, si non licet ore Severi
Et facie nivibus candidiore frui.
Nunc aestus pulvisque mihi sentitur amanti
Meque magis tepidi territat aura Noti.
Nunc Scythiam videor Pontumque habitare rigentem,
Nunc mihi sentitur, sed sine sole, dies.
Omnia sunt invisa mihi mutataque rerum
Semina non solita condicione manent.
Vivere me credis conclusum faucibus Aetnae?
Non vivit si quem, Lucide, torquet amor.
68. A Lucido
È appena tornato Argo dalle valli incolte: nero
di rabbia, dà di matto offeso dal mio amore.
Non è più dato, come un tempo, in casa dello splendido
Severo entrare: un altro più duro ospite è dentro.
Che vale stare a Roma, se non posso più godere
del viso di Severo più bianco della neve?
Mi sento addosso, innamorato, un’afa polverosa
e a tratti è il soffio mite dell’Austro ad angosciarmi;
l’attimo dopo, un freddo! come se abitassi in Scizia
o nel Ponto; anzi, il giorno lo sento, e non ha sole.
Qualsiasi cosa mi tormenta: gli atomi del mondo
s’invertono, nessuno ce n’è che stia al suo posto.
Pensi che io viva chiuso nelle viscere dell’Etna?
No, Lucido: non vive chi è vittima di amore.
Dall’Appendix
2. ad Phosphorum
E cavea infelix dilectos specto sodales,
Quos vidi media liber in urbe prius,
Nec datur e cavea minimam dimittere vocem,
Quod tibi non ullus, garrula pica, negat.
Cum sit sors eadem nobis caveaque premamur,
Cur mihi non eadem quae tibi lingua datur?
2. A Fosforo
Ahimè, ché da una gabbia guardo i miei amati compagni,
gli stessi che vedevo da libero in città,
né dalla gabbia posso tirar fuori mezza voce –
grazia che a te soltanto tocca, gazza pettegola.
Com’è che se una sola gabbia, un solo fato opprime
sia me che te, la lingua non ce l’abbiamo uguale?
In copertina: La morte di Giacinto (1801), di Jean Broc