collage Martina Santurri

Neolatina #8 – Il cielo sopra il Titanic: su un poemetto latino del 1913

1. Morto un Pascoli…

Ci sono più poemetti latini sul naufragio del Titanic che sulla morte di Giulio Cesare: opere nate all’indomani della tragedia in seno a quella comunità di poeti latini che, nel 1912, animavano i circoli e le accademie di tutta Europa. Come si spiega un simile fenomeno?

Tra il 1844 e il 1978 le sorti della poesia latina sono legate a doppio filo a quelle del Certamen Hoeufftianum, prestigiosa competizione internazionale indetta dall’Accademia Reale delle Arti e delle Scienze dei Paesi Bassi. Per più di un secolo il Certamen rappresentò una specie di Nobel per la poesia neolatina: come alcuni manuali di letteratura italiana ricordano ancora, fu Giovanni Pascoli a detenere il record di vittorie, aggiudicandosi la medaglia d’oro ben tredici volte – l’ultima nel 1912 con il poemetto Thallusa.

Premessa necessaria per figurarsi l’atmosfera che i latinisti dell’epoca respirarono in quella primavera fatale. La terza settimana di aprile del 1912 «La Domenica del Corriere» dedicava un trafiletto alla morte di Pascoli. Vi si ricordava che egli aveva composto «poemi in lingua latina, coi quali vinse quasi ogni anno il premio del concorso di Amsterdam».

Pascoli era morto il 6 aprile e i funerali si tennero martedì 9. Il giorno successivo il Titanic salpava dal porto di Southampton per la sua prima e ultima traversata dell’Atlantico. «Terribile disastro marittimo: il più grande transatlantico “Titanic” affonda con 1600 persone nell’Oceano spezzato da un iceberg»: così «La Domenica del Corriere» a cavallo tra aprile e maggio.

Damsté, Fonts, Padberg, Rocci, Vignoli… Sono i cognomi di cinque classicisti che, secondo l’ottima ricostruzione di Nicholas De Sutter (1), si cimentarono nell’impresa di cantare in lingua latina il colossale naufragio. Se distinguersi al Certamen di Amsterdam contro Pascoli era un’ardua impresa, quella settimana di aprile dovette accendere qualche speranza negli autori latini di tutta Europa. Da un lato un posto vacante nell’edizione del Certamen del 1913; dall’altro un avvenimento epico, degno di essere celebrato come un mito antico. Con la sua tecnologia all’avanguardia, il suo nome reboante, il suo terribile destino, il Titanic corrispondeva perfettamente al gusto di numerosi autori latini del primo Novecento, che si ingegnavano di traghettare nella lingua di Virgilio fatti, invenzioni, costumi della modernità.

Al Certamen del 1913 nessun componimento sul Titanic riuscì a spuntarla, ma il gesuita olandese Hendrik Padberg ottenne una menzione per il poemetto elegiaco Titanicae interitus. Al suo lavoro, sepolto in edizioni fuori commercio, ho voluto dedicare questa puntata della rubrica, nella convinzione che il naufragio di un poemetto latino sia in tutti i casi meno desiderabile di un poemetto latino su un naufragio. 

Il trafiletto sulla morte di Pascoli
 sulla «Domenica del Corriere»,
14-21 aprile 1912.

La prima pagina
della «Domenica del Corriere»,
28 aprile-5 maggio 1912.

2. La Titanic di Padberg: un mito cristiano

Titanicae interitus, dunque, che in italiano suona più o meno come La morte della Titanic. Dico «morte», e non «fine», perché nell’elegia di Padberg la nave è personificata, e il suo nome declinato quasi sempre al femminile; al contrario del nostro «Titanic», che sottintende «transatlantico» o «piroscafo», ma che forse è invalso anche per un fraintendimento della natura aggettivale, anziché nominale, dell’inglese «Titanic» (2), come se la nave fosse un «Titano».  

L’elegia di Padberg racconta la notte della catastrofe, limitandosi a un breve cenno sui quattro giorni di viaggio precedenti e sullo sfarzo della vita a bordo; e si conclude con una celebrazione dell’eroismo dei passeggeri, funzionale a una rilettura cristiana dell’evento: mentre la nave affonda, tra di loro ha luogo una conversione di massa. Le scialuppe di salvataggio si allontanano fra le onde e la Morte si impossessa della nave, ma i sacerdoti Thomas Byles e Josef Peruschitz (3) invocano la Stella Maris, la Vergine Maria, e salvano le anime dei compagni di sventura, assicurando loro un posto in cielo.

Cartolina memoriale della collezione
«Nearer, My God, To Thee»,
Bamforth & Co. (1912)

3. Padberg e Cameron: due mondi a confronto

Nell’assurgere a mito, un evento come il naufragio del Titanic si trasforma – nelle diverse narrazioni che lo vedono protagonista – in un aggregatore di metafore, una specie di velcro in cui rimangono appiccicati i valori etici ed estetici di chi lo racconta.

Mentre scrivo queste parole, è la fine di gennaio 2023, e il film di James Cameron è tornato nelle sale cinematografiche per il suo venticinquesimo anniversario. Al momento della sua uscita, nel 1997, erano trascorsi ottantacinque anni dal naufragio del transatlantico e dalla composizione del Titanicae interitus di Padberg.

Benché tutte le narrazioni originali debbano confrontarsi con i nudi fatti, esistono modi diversi per tramandare il ricordo di una catastrofe. Leggendo il poemetto mi sono chiesto: ci sono delle costanti nel modo in cui, a distanza di quasi un secolo, raccontiamo artisticamente la fine del Titanic? Che cosa accomuna davvero l’opera di Padberg a quella di Cameron?

La prima analogia è meno che una suggestione: tanto il poemetto quanto il film entrano nel vivo del racconto con un’immagine potente e sinistra, quella di un oggetto tecnologico che fende le acque dell’oceano. In Padberg è la nave stessa, la cui epifania si accompagna a un tripudio di raggi e fragori misteriosi; in Cameron sono i sottomarini di Brock Lovett, il cacciatore di tesori che ispeziona il relitto del Titanic.

In tutti e due i casi la proiezione epica è immediata: il lettore/spettatore ha l’impressione di trovarsi di fronte a un evento archetipico, che nel film acquista maggiore risonanza dalla profondità storica. È il primo indizio di una tensione idealizzante che percorre entrambi i racconti, ove i passeggeri si muovono al confine tra la realtà materiale del disastro e una realtà che li trascende: in Padberg è la religione cristiana, con i suoi canti e i suoi rituali di purificazione; in Cameron è l’idillio di Jack e Rose, destinato non a spezzarsi, ma ad accrescersi nella sublimazione mortuaria dell’erotismo: «obsolete Hollywood romanticism in the age of casual sexuality (4)».

Il caos degli eventi si cristallizza così in un’utopia romantico-cristiana in cui la musica del violinista Wallace Hartley adempie a una funzione spiritualizzante: sono i «cantica sancta» di Titanicae interitus, le sacre melodie intonate dai passeggeri che vi pregustano la loro ammissione nelle sedi beate; ed è il concerto che i tre musicisti di Titanic eseguono coraggiosamente mentre la nave oscilla, estraniandosi dal tempo del disastro.

A guidare i passeggeri verso la morte gloriosa è una forza arcana di cui, al momento del naufragio, essi prendono coscienza. «Ah, il destino non piange, ride d’ogni loro lacrima» (A, lacrimas omnes fatum illacrimabile ridet) commenta Padberg: nel suo poemetto il «fatum» coincide con la Morte, nera mietitrice, la cui sconfitta in extremis per mano della Pax cristiana apre la strada al Regno dei cieli. Non meno fatalistica è la storia di Jack nel film di Cameron: «Winning that ticket was the best thing that ever happened to me. And I’m thankful, Rose» dichiara egli stesso prima di morire, alludendo alla fortunata vincita che gli ha consentito di imbarcarsi.

A dire la verità, né il romanticismo è assente in Padberg, che celebra l’abnegazione degli uomini per le loro compagne, né Cameron è insensibile a un afflato cristiano, se è vero che anche nel film padre Byles recita l’Ave Maria e versetti dell’Apocalisse di Giovanni. In quest’ultima scena, però, la voce del prete è una delle tante del coro, significativamente alternata a quelle di Jack e Rose che ricordano il loro primo incontro. La componente sacra di Titanicae interitus è piuttosto rimpiazzata, nel film, dai due valori tipici del post-Auschwitz, cioè la memoria e la testimonianza dei sopravvissuti. Con il suo discorso evocativo la Rose ormai anziana dimostra che la grande storia dura ostinatamente, esercitando sul presente la sua forza ideale.

Wallace Hartley,
violinista e direttore d’orchestra

Thomas Byles,
sacerdote cattolico

Josef Peruschitz,
sacerdote cattolico

4. «Where to, miss?» «To the stars.»

Due realtà, si diceva, l’una materiale, l’altra trascendente. Proprio come il poemetto di Padberg, la sceneggiatura di Titanic coagula intorno a questo tema una serie di metafore connesse al volo e al cielo stellato, di cui l’oceano è specchio. In una vicenda che sovverte per sua natura le nozioni di alto e basso con l’immagine della nave verticale, le stelle diventano l’unico approdo nel buio non appena le luci del transatlantico si spengono. Lo vede con chiarezza Cameron, che alle stelle dà ampio risalto («Where to, miss?», «To the stars») e, dopo la morte di Jack, le inquadra a tutto campo, mentre Rose canta «Come Josephine in my flying machine», memore delle promesse di volo dell’amato. Lo ribadisce la promo Mediaset del film, sintetizzandone i nuclei più importanti in uno slogan mellifluo ma efficace: «In una notte stellata il loro destino si compì».

Quanto a Padberg, il processo di celestificazione (5) che egli mette in atto è – se possibile – ancor più accentuato: nell’incipit la distesa del mare e quella del cielo si fronteggiano in versi contigui, definiti dalla stessa parola, aequor. La metafora che segue è tra le più riuscite del poemetto: l’oceano è il cielo, le stelle riflesse sono «stelle che nuotano» (stellae natantes) e il Titanic è un sole che sorge, cancellandone lo splendore; ma è un sole effimero, condannato a un rapido tramonto dinnanzi alla Stella Maris, la Vergine Maria che, integrandosi nell’apparato metaforico del poemetto col suo chiarore radioso e malinconico, ne inibisce la deriva clericale, potenziando per converso l’epicità del disastro.

Se già dalle prime cronache la «morte della Titanic» è trasfigurata in un archetipo atemporale, intorno alla nave tutto cambia: l’ecumenismo egualitario di Padberg, che nel 1913 parificava la comunità di naufraghi nel segno di un unico Padre, lascia il posto in Cameron alla rappresentazione del conflitto sociale e del più rampante individualismo. Alle porte del terzo millennio, la caritas universale rivive nell’amore romantico.

Le traduzioni che seguono sono condotte secondo i criteri metrici di Neolatina, esplicitati qui; nella versione italiana ho cercato di rendere tanto la lettera del testo quanto i suoi effetti retorici, assai vivaci in Padberg anche in presenza di errori o imperfezioni metrico-linguistiche: a monte è un’ispirazione sorgiva e fanciullesca che, temperando l’orrore della catastrofe con gli accenti di una voce materna, ricorda le maniere di un più tardo poeta latino novecentesco, Fernando Bandini

Il cielo stellato in Titanic (1997) di James Cameron


5. Titanicae interitus di Hendrik Padberg

vv. 1-16 Titanica pelagum transit

Nocte sub obscura requiescunt pontus et aer,
nec strepit aura fugax, nec tremit unda levis;
agmina stellarum rutilant super aequora coeli,
stellae mille micant aequore subter aquae.
Lumen luna negat niveum – verum ecce, quid inde,
Quod iubar exoritur sideris instar habens?
Dimanant radii longe magis – amplius –; audi:
Murmur quod crescit – ceu cataracta crepat –
Tota fragore tonans prorumpit atlantica moles,
Ut ieiuna Gigas milia longa vorans.
Aestuat unda, salit spumans stellaeque natantes
Hunc fugiunt solem, noxque quiesque pavent –
Est pelagi victrix! Rectrix, Titanica, classis!
Audacis nimium mirum opus ingenii!
Praecipitans, plaudente Europae iam procul ora;
Americae citior iam prope litus ovans.

vv. 1-16 La Titanic solca l’oceano

Riposano nel buio della notte cielo e mare:
non tuona vento in corsa, non trema onda leggera;
ardono stelle a schiera sulla tavola del cielo;
nella tavola d’acqua brillano mille stelle.
La luna occulta il suo chiaro di neve – ma ecco, quale
splendore sta sorgendo laggiù, che sembra un sole?
Scorrono più lontano i raggi… ancora, ancora…. Ascolta:
il brontolio che cresce… rulla come cascata…
erompe intera e strepita la mole dell’Atlantico,
gigantessa a digiuno: la lunga via la sfama.
L’onda gorgoglia, guizza in schiuma – fuggono quel sole
le stelle a nuoto, trema la quiete della notte.
È la padrona dell’oceano, la Titanic! Prima
della flotta, prodigio dell’intelletto audace!
S’affretta – e ormai l’Europa plaude da lontano. Rapida,
trionfa ormai vicina ai lidi dell’America.

vv. 71-152 Naufragium

Hac nocte est in nave dies splendetque chorea
concentu celerem concomitante pedem;
namque celebrantur primi, Titanius infans
quos fecit, gressus et fuga prima maris.
Ei per quinque dies, per iter nunc paene peractum
ecqua superba minax sustulit unda caput?
Mirificae subito vibrant per inania voces,
quas non aure bibens, ore neque edit homo:
«Zonam quae gelidam tangis cava cumque carina     
o cave» ait «glaciem! Magna pericla cave!»
Quae Titanica percipiens circumspicit atque
per pelagus passim parvula frusta videt;
indignansque gigas: «Formidem talia?» clamat;
frusta vorans pergit praecipitare viam.
Haud mora longa «cave!» speculator clamat ab alto,                 
«ante carinam mons! provida flecte gradum!»
«Auditumne? Cave!» speculans proreta reclamat,
«imminet! estque ingens! iam cita siste gradum!»
Formido, terror – celerem deflectere cursum
sero est! mortifero vulnere prora patet!
Indicus in densis sic taurus pascitur herbis,
altis confidens cornibus ille suis;
prosiliens tigris letali vulnerat ictu
collum – mugitu silva tonante pavet.
Sic pontus pavet et naves super aequora sistunt.
Regina implorat flebilis auxilium.
Rarus adhuc vector sibi conscius esse periclum;
ictus enim glacie tam levis ille fuit!
nec nisi mirantes cunctantes iussa sequuntur:
«Sursum munitus cortice quisque suo!»
Iamque vident solvi cymbas servare paratas,
iamque stupor crescit nec tamen inde timor.
«Annon tota – aiunt – moles supereminet undas?
proclivem esse parum nonnisi nauta videt.
Hausit aquas; ergo potuit quoque vulnere laedi.                     
Quid curae? certum est: mergier illa nequit!»
Atque videns unus nauarchum affansque iocatur:
quam sit atrox lusus, nescius ipse suus.
«Non iuxta votum tua navis sobria, nauta!
hausit, iam titubat moxque sepulta iacet.»
Tum digito monstrans cymbas iam paene solutas
«Non sunt, sed fiunt inde pericla, puto».
Lusibus his plaudunt omnes; nauarchus et ipse
applaudit ridens et citus inde fugit,
mater uti puero quae arrisit febre calenti                                    crebraque narranti de patre deque pilis.
A, dirum nimis est nautae sub pectore vulnus:
scit, scit, solus adhuc quam ioca vera tegant!
Mox, fors intra tres horas ex milibus illis
longe pars maior fata subibit aquis!
Atque o crudeles curae! quam dicere causam?
«Ipse ego nonne gravis plurima causa mali?
Ecquid enim vidi discrimina cuncta videnda?
Nonne audax animus, mens mea caeca fuit?
Angor. Sed non nunc plorandi tempus! agendum est!
Infans» exclamat «femina salva prius!»
Nunc demum plures vitae discrimen haberi,
coniciunt — capiunt — reiciunt – retinent!
Horrendum! cymbas onerat vel femina sola
omnes! Una manent unda geluque viris!
Una manet valida dispar cum morte palaestra;
una manent alti vasta sepulchra maris!
Stultum! vincla tenent tot tamque tenacia multos!
vires, nomen, opes, vivere cogit amor!
Vita oriens spargit nunc ipsum mille colores:
hanc laetam speciem mors tenebrosa tegat?
Albent ante pedem cum rubro lilia flore:
fluxis iam foliis sordeat illuvies?
Non moriar! iuvenem viridis me sponsa retentat!
Non moriar! mundus sed paradisus erit! –
Nec minus acre gemunt miserae queis vita relicta est,
fallor, mors potius lenta, cruenta magis!
illae quas tandem pepulit crudelis egestas
ut patriam fugerent caraque tecta patris;
unum queis mansit solamen amare maritum, 
unica spes validi brachia firma viri! –
Vivant, quae nequeunt sine coniuge vivere solae?
Cuncta quibus plaudunt, praecoce morte cadant? –
A, lacrimas omnes fatum illacrimabile ridet,
aurea vincla secans, ferrea falce pari.
Mors regina potens! quae vivunt morte domantur.
Indomitae rector tu quoque sceptra dabis!

vv. 71-152 Il naufragio

Stanotte è giorno sulla nave. Splendono le danze,
la musica accompagna i piedi agili: infatti
si celebrano i primi passi del Titano infante
e la sua prima corsa sul mare. A lui per cinque
giorni, per tutto il viaggio che è ormai prossimo a finire,
forse che un’onda oppose superba il capo ostile?
Parole favolose, a un tratto, vibrano nel vuoto:
non le ode orecchio umano; chi parla non è un uomo.
«Concava nave, tu che sfiori plaghe assiderate,
attenta» dice «al ghiaccio, alle sue grandi insidie».
Lo sente la Titanic e si guarda intorno: vede
minuscoli brandelli qua e là in mezzo all’oceano;
gigante incollerita, esclama: «Non le temo!», e seguita
la rotta rovinosa, sbranando quelle schegge.
Dall’alto, poco dopo, una vedetta grida: «Attenti!
A prora è una montagna! Sii cauta, cambia rotta!».
«Sentito? Attenti!» grida ancora una vedetta, e osserva:
«Eccola, è immensa! Presto, arresta la tua corsa!».
Spavento, orrore – è tardi per deviare dalla rotta
veloce: una ferita s’apre, mortale, a prua!
Così, fidando nelle lunghe corna, il bove indiano
pascola fra le erbe alte; la tigre balza fuori
e lo ferisce al collo d’una piaga senza scampo:
al suo muggito immenso trasale la foresta.
Così trasale il mare, e sulla sua distesa agghiacciano
le navi. La regina dolente chiede aiuto.
Ancora pochi macchinisti avvertono il pericolo;
è stato tanto lieve l’impatto con il ghiaccio!
Secondano i comandi, ma sorpresi, titubando:
«Di sopra, al suo giubbotto ciascuno s’assicuri!»
E vedono ormai sciolta la riserva di scialuppe:
s’accresce la sorpresa, non il timore. «Eppure»
dicono «la sua massa sporge tutta sopra le onde!
Che un po’ s’inclini è chiaro soltanto al capitano.
Ha preso acqua; perciò potrebbe anch’essere squarciata.
E allora? Non c’è dubbio: la nave è inaffondabile».
Vedendo il capitano, uno l’apostrofa per scherzo:
quant’è amaro lo scherzo nemmeno lui lo sa.
«Marinaio, la tua nave non è – come speravamo –
sobria! Ha bevuto, e adesso barcolla. Tra un po’ è andata!».
E poi, mostrando a dito le scialuppe appena sciolte:
«Se c’è un rischio, mi sa che ci verrà da quelle!».
Plaudono tutti alle battute; pure il capitano
plaude e sorride, e in fretta se ne va via: una madre
così sorride al figlio quando scotta dalla febbre
e va cianciando a lungo del padre, dei palloni.
Ahi, dentro ha una ferita troppo grande il capitano:
lui solo sa, lui solo che quello scherzo ha un fondo
di verità; che di quei mille, forse, entro tre ore,
annegherà nell’acqua ben più della metà.
Ed, oh!, crudeli affanni! Qual è mai la causa? «Forse
non sono io del disastro il primo responsabile?
Ho, in effetti, previsto ogni possibile pericolo?
Dunque imprudente il cuore, la mente è stata cieca?
Oh, angoscia… Bando ai pianti: ora bisogna agire! Prima
le donne,» esclama, «prima si salvino i bambini!».
La maggior parte, finalmente, subodora il rischio
di morte ora; l’intende; lo scaccia; l’ha per certo.
Che orrore! Tutte le scialuppe riempiono le donne
da sole; non resta altro che l’acqua diaccia agli uomini.
Non resta che una lotta impari con la dura morte;
non restano che i vasti sepolcri dell’abisso.
Che follia! Tanti vincoli legano tanta gente!
Risorse, fama, beni, amore a vita chiamano!
L’aurora della vita spande mille tinte ancora:
ne occulterà la lieta vista una morte oscura?
Albeggiano dinnanzi a loro gigli e fiori rossi:
cadute ormai le foglie, ristagnerà un pantano?
Non morirò! La mia giovane sposa mi trattiene:
sono giovane anch’io! Non morirò: sarà
un paradiso il mondo. Piangono anche le infelici
ancora vive, o meglio: dannate a una più lenta
e cruda morte. L’impietosa povertà le ha spinte
fuori dai cari tetti paterni e dalla patria;
l’amore del marito… non conoscono altra gioia,
altra speranza… il suo potente abbraccio! Vivono?
No, vedove, da sole, come vivere non sanno!
E tutto ciò in cui esultano tramonterà anzitempo?
Ah, il destino non piange, ride d’ogni loro lacrima,
spezza con la sua falce catene d’oro e ferro.
Morte, regina grande: ciò che vive ne è domato.
Tu pure, capitano, cederai all’indomabile!

vv. 193-202 Peccantium purificatio

Iam navis nutat iamque aufugit ultima cymba,
iam summa in puppi mors fera sceptra tenet.
Attamen ista sua modo corpora falce domabit,
aeternas animas vita beata manet!
Byles et Peruschötz, romanus uterque sacerdos,
officii memores nunc super omne gravis,
prosiliunt, quaerunt peccati vulnere laesos,
inventos sanant ut Samarita pius:                                      
vinum purificans, permulcens stillat olivum
inque animos mundos pax revocata redit.

vv. 193-202 La purificazione dei peccatori

Ormai la nave oscilla, fugge l’ultima scialuppa.
Al sommo della poppa Morte feroce regna.
Ma ella con la sua falce domerà soltanto i corpi:
le anime eterne attende una vita beata!
Byles e Peruschitz, sacerdoti di Romana Chiesa,
che i loro alti doveri neppure ora dimenticano,
si mostrano e, chi addosso ha le ferite del peccato,
da pii Samaritani, lo cercano e lo curano,
versano il vino che fa puri, l’olio che consola;
invocata, la pace torna nei santi cuori.  

vv. 215-244 Stella Maris

Ast supra nitido in tranquilli tegmine coeli,                                
lumina matris uti, sidera blanda micant.
Suspiciunt miseri; nova spes pia pectora replet;
«Sancta Maria» iterum «lucida Stella Maris,
lux tua nunc radiet; tu fac, ne corpore merso
spiritus aeternus naufragus intereat;
nunc radiet tua lux, ut de letalibus undis
cunctas mox animas coelica ripa vocet».
Dulces hasce preces alii quoque mente resumunt,
intrat corda quies, suspiciuntque polum.
O adsunt multi non sueti poplite flexo                             
coniunctis manibus labra movere pie;
forsan sunt – fallor? – quos stulta superbia duxit,
temnere supremum proque vocare Deum,
Titanes! – At nunc extincto lumine vitae
mortis per tenebras vera videre licet;
nunc Dominum credunt, qui resque hominesque creavit,
solus qui nostrum cor satiare potest;
nunc sontes aequam formidant Iudicis iram,
incipiuntque Patris nunc meminisse sui.
Stella Maris radiat! Nunc, o circumspice, quaeso,
fit mare delubrum, fit ratis ara Dei;
nunc curvare genu, nunc laevam iungere dextrae,
nunc orare: “Mei tu miserere, Pater!”.
Hartley, tu socios iam carmina sacra iubeto,
cantica nam sanctos nonnisi sancta decent!
Ecce, silente aura, tacitis scandentibus undis,
altos ad coelos “ultimus hymnus” adit;
hymnus o ille pius – vere Titanius hymnus,
sedes coelicolum qui petit atque rapit.

vv. 215-244 Stella maris

Ma, nella chiara volta del sereno, lassù, brillano
come occhi d’una madre le dolci stelle. Ammirano
i disgraziati, e una speranza nuova riempie i cuori
pietosi; e ancora: «Santa Maria, lucida Stella
del Mare, adesso splenda la tua luce: fa’ che l’anima
eterna non anneghi, naufraga insieme al corpo;
risplenda la tua luce, ora, perché dai micidiali
flutti la riva eterea richiami presto ogni anima».
Volgono pure gli altri fra sé e sé queste preghiere:
la pace entra nei cuori, tendono gli occhi al cielo.
Oh quanti, disavvezzi alle preghiere, a mani giunte
e in ginocchio, devoti, dischiusero le labbra!
gli stessi che – o mi sbaglio? – una superbia sciocca indusse,
Titani!, a disprezzare il Sommo Dio, e a sfidarlo.
Ma, spenta ora la luce della vita, nelle tenebre
di morte sono in grado di ravvisare il vero
e credono in quel Dio che fece gli uomini e le cose
e di cui, solo, il nostro cuore si sazia. Temono
i peccatori l’imparziale collera del Giudice;
rammentano, ora, il padre loro chi sia… La Stella
del Mare splende! Orsù, guarda: l’oceano si trasforma
in un tempio, la nave è un altare di Dio.
Piegano le ginocchia adesso, intrecciano le mani;
supplicano ora: «Padre, abbi pietà di me!».
Hartley, comanda canti sacri ai tuoi compagni! Ai santi
non si confanno, invero, che sante melodie.
Ed ecco, mentre tace il vento, le onde silenziose
salgono: l’ultimo inno penetra i cieli eccelsi;
oh, un inno di pietà, un inno titanico davvero,
che raggiunge e conquista le case dei celesti.

Note

(1) N. De Sutter, A Modern Myth in Classical Dress. The Titanic Disaster in Contemporary Latin Verse, «New Voices in Classical Reception Studies», 13, 2020, 45-65.

(2) Per altri transatlantici, come il Mauretania o il Lusitania, il maschile è prevalente, ma non ubiquo, nei documenti dell’epoca; cfr. ad es. un articolo della «Domenica del Corriere» del 28 aprile 1907, consultabile qui.

(3) Il nome di Peruschitz è storpiato da Padberg in Peruschötz.

(4) A. Karagiannidou – V. Siropoulos, Oops… Hollywood Did It Again: James Cameron’s “Titanic” and the Fantasy of the Absolute, «Interdisciplinary Literary Studies», 5, 1, 2003, 89-98.

(5) Ho impiegato la stessa nozione nella puntata di Neolatina dedicata all’Africa di Petrarca, che si legge qui.



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