Il mostro è sempre un segno da interpretare – Immaginario e follia

Il mostro è sempre un segno da interpretare

Tendiamo a pensare alcune categorie della nostra percezione del mondo come metastoriche, proprie a qualsiasi latitudine, tempo e civiltà: ancestrali, se non innate. Ci sembra che alcune reazioni di fronte agli enti che incontriamo nel mondo si rifacciano a esperienze primigenie, irriducibili e poco strutturabili. Forse, però, un approccio storico-critico minimamente avvertito potrebbe farci vedere le cose da un altro punto di vista.

Prendiamo, tanto per facilitarci la vita, una percezione che richiama terrori ctoni e riflessi dell’amigdala: quella del mostruoso, di ciò che scombussola, in modo spesso minaccioso, la nostra visione del mondo, ordinata e ordinaria. Ebbene, vi è una profonda differenza tra il mostruoso degli antichi e quello moderno, non soltanto per gli orizzonti, per così dire, derivati di funzione, significato e interpretazione, ma nella percezione del mostruoso in sé, nella reazione che suscita.

Cominciamo dalle parole: monstrum, in latino, deriva da moneo, ossia indicare, segnalare. Il mostro è sempre un segno da interpretare, la traccia di una discontinuità nell’ordine delle cose, da riportare a uno specifico contesto e significato; in altre parole, siamo sul terreno della divinazione. Vediamo un passaggio dal trattato ciceroniano De Divinatione (I, XLII, 93), in cui il significato dei segni viene ricondotto a quello delle parole che li esprimono:

Il cui significato, come tu sei solito dire, è dimostrato dalle parole stesse foggiate sapientemente dai nostri antenati: poiché fanno vedere (ostendunt), prognosticano (portendunt), mostrano (monstrant), predicono (praedicunt), vengono chiamati apparizioni miracolose (ostenta), portenti (portenta), mostri (monstra), prodìgi (prodigia).

Vale lo stesso per il greco: téras ha il senso di portento, prodigio, miracolo, ma anche segnale e soltanto secondariamente quello di mostro, cosa terribile. Insomma, l’orrore, lo spavento, il terrore (appunto, da téras), tutto quello che parrebbe il sostrato emozionale primigenio, è in realtà semplicemente un caso particolare e soggettivo in un complesso di fenomeni che ha tutt’altre declinazioni e significati. Forse, in questo senso, la formulazione più efficace è quella di Mosè Maimonide (Dalālat al-hā’ irīn – Guida dei perplessi, III, 23), per parlare del mostro biblico per eccellenza:

La natura del Leviatano possiede una combinazione delle peculiarità corporee che si trovano separatamente in diversi animali, in coloro che camminano, che nuotano e che volano. La descrizione di tutte queste cose serve a imprimere nella nostra mente che non siamo in grado di comprendere in che modo queste creature transitorie vengano all’esistenza […] Tanto meno, possiamo paragonare il modo in cui l’Onnipotente regola e organizza le Sue creature con quello in cui noi lo facciamo per certi esseri.

Il filo conduttore è chiaro: il mostruoso ha un posto ben definito nello spazio cognitivo. Se ciò che esiste è manifestazione e proiezione di un ordine superiore, sia quello degli dèi, del fato o dell’unico Dio onnipotente, se l’esistente ha fondamentalmente un valore di segno, allora il mostro è un supersegno, pieno di significato in forza della sua stessa eccezionalità. Per questo la caratterizzazione del mostro come unico ha un valore duplice. Se non fosse unico, non sarebbe altrettanto prodigioso: dalla teratologia, si passerebbe al bestiario, alla zoologia. Poi, il mostro stesso è sterile e celibe: la sua stessa nascita è prodigiosa perché asessuata, esclusiva, estranea al ciclo naturale e normale delle cose.

Il metodo scientifico contro i mostri

Con questi presupposti, è chiaro che lo statuto classico del mostro venga dalla prospettiva scientifica del pensiero moderno, che mira esplicitamente a formulare leggi generali secondo uno sviluppo metodico uniforme che descrivono un universo omogeneo. Prendiamo Cartesio (la quarta Regola per la direzione dell’intelletto):

Per metodo intendo delle regole certe e facili, osservando le quali esattamente nessuno darà mai per vero ciò che sia falso, e senza consumare inutilmente alcuno sforzo della mente, ma gradatamente aumentando sempre il sapere, preverrà alla vera cognizione di tutte quelle cose di cui sarà capace.

L’espulsione del mostruoso dall’orizzonte di ciò che possa essere analizzato con cognizione di causa è quindi precondizione per il metodo scientifico, che, a sua volta, indica una specifica concezione del mondo. La differenza tra un bestiario medievale e la tassonomia di Linneo è proprio questa: il primo che illustra animali favolosi come simboli di Dio e del peccato in un processo di semantizzazione per il quale nessuna “cosa” ha un significato completamente autonomo, mentre nello studio scientifico della natura gli animali sono propriamente l’oggetto della ricerca e la loro classificazione è arbitraria ma, proprio per questo, tanto più esatta.

Pertanto, l’idea che il mondo sia il luogo di un dialogo continuo tra l’umano e il divino, nel quale ogni evento, animale o mostro siano segni da decifrare, viene abbandonata insieme alla convinzione che essi possano riferirsi ad altri segni e simboli, in un rimando infinito. Se ogni elemento deve avere uno e un solo significato per essere compreso sistematicamente e la classificazione prende il posto dell’ermeneutica, allora il dialogo tra umano e divino è strutturalmente interrotto. Per questo, la prospettiva scientifica è fondamentalmente ateistica, almeno nel senso che la ragione umana cerca di comprendere l’universo soltanto mettendo da parte l’idea stessa della rivelazione divina. Se non ci sono dèi, non ci sono nemmeno i mostri, e viceversa: come dice il dottor von Frankenstein in Frankenstein Junior:

questo è il ventesimo secolo, Kemp. I mostri sono fuori moda, come i fantasmi e i folletti.

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Francisco Goya, Il sabba delle streghe (1821-1824)

Thaumàzein: il mostruoso nel nostro immaginario

Eppure, le cose non stanno proprio così: il mostruoso continua a essere presente nel nostro immaginario e persino nella nostra realtà, e non soltanto come sopravvivenza di miti passati. Il mostro si trova bene nelle narrazioni contemporanee: ci sono miti moderni, come le innumerevoli versioni di Frankenstein che esprimono l’inquietudine della modernità rispetto alle sue creazioni (il cui antenato è un mito alle soglie della modernità, il Golem della Praga tardo-cinquecentesca, quasi contemporaneo all’altro grande mito, quello di Faust). Ci sono versioni moderne di mostri più antichi, come vampiri e lupi mannari, o di creature provenienti da immaginari variamente “esotici”, come gli zombie. E c’è la mostruosità della storia umana, i suoi inesauribili orrori, l’abissalità di un male che, guardato da vicino e messo in una prospettiva oggettivante e scientifica, rivela inevitabilmente – appunto – la sua banalità.

Ma c’è anche la possibilità di continuare a interpretare il mostro come segno, riconoscendogli un valore di ordine cognitivo. L’identificazione stessa del mostro è in primo luogo l’interpretazione dei suoi segni, secondo una pratica narrativa il cui modello è il romanzo giallo, capace di soddisfare sia i bisogni deterministici dell’età della scienza, sia quelli esplicativi del mito. L’esempio classico è quello dei Delitti della rue Morgue, in cui il mostruoso, il sovrannaturale, l’inesplicabile vengono ridotti a eventi plausibili. Questa prospettiva disincantata non è, dopotutto, una gran novità. Proprio nel De Divinatione (II, XXVIII, 60) troviamo infatti queste parole, che potrebbero benissimo essere dette da Auguste Dupin o da Sherlock Holmes:

Tutto ciò che nasce, di qualunque genere sia, ha necessariamente origine dalla natura, di modo che, anche se risulta inconsueto, non può tuttavia essere sorto al di fuori della natura. Ricercane dunque la causa, se ci riuscirai, in qualcosa di insolito e di strano; se non ne troverai alcuna, tieni per fermo in ogni caso che nulla può avvenire senza causa, e scaccia via dal tuo animo, senza ricorrere al soprannaturale, quel terrore che ti avrà arrecato la stranezza del fatto.

Cicerone, da bravo cultore della filosofia greca, sa bene che il pensiero scientifico nasce dal thaumàzein, da quel senso di stupore per la molteplicità dell’essere da cui si dipana un processo di problematizzazione e conoscenza che trasforma l’incanto iniziale in maturo disincanto. Tuttavia, la sua visione del mondo è ancora quella di un ordine trascendente, nel quale si passa dalla percezione sensoriale a una visione metafisica che ne costituisce la verità. Insomma, se possiamo immaginare Auguste Dupin far proprio questo passaggio cicerioniano, sembra più difficile l’inverso, e cioè che l’Arpinate possa riconoscersi in queste parole (dagli Omicidi della rue Morgue, naturalmente nella traduzione di Manganelli):

Si può eccedere anche nella profondità. La verità non sempre sta in fondo al pozzo. Credo anzi che ciò che soprattutto interessa stia in superficie. Profonde sono le valli in cui la cerchiamo, ma non le cime montane su cui la si trova.

Questa scelta metodologica mette in evidenza gli aspetti più appariscenti del caso da risolvere, ritrovando proprio in essi la possibilità di un’interpretazione normalizzante: “a mio avviso, questo mistero è considerato insolubile, proprio per la ragione che dovrebbe renderlo di più agevole soluzione: intendo dire, il suo carattere outré. […] Sono caduti nel grossolano ma non tanto raro errore di confondere l’inconsueto con l’astruso. Ma appunto seguendo queste deviazioni dal consueto, la ragione esplora la strada verso il vero”.

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Arpia peruviana in codice miniato

La fruizione commerciale del mostro

La procedura usata da Auguste Dupin per risolvere i casi della rue Morgue ha un punto di partenza essenziale: deprivare di qualsiasi valore significante la caratteristica primaria del mostruoso, la sua inconsuetudine, per trasporla in un contesto nel quale non sia soltanto più un fatto, da classificare e riconoscere. L’assassino viene così riconosciuto come un semplice orang-utan sulla scorta di una pagina di Cuvier. Accade lo stesso per l’altro carattere del mostruoso, il suo essere inaudito, irriconoscibile perché irriconducibile a qualcosa di noto. Così, la Babele dei diversi testimoni, da diversi paesi, che riconoscono nella voce dell’assassino solo accenti di lingue che non conoscono viene trasformata da portento incomprensibile a equivoco fattuale semplicemente riducendo l’eccesso interpretativo.

Tutto questo sfocia nella forma più estrema di normalizzazione, quella della merce. La bestia, infatti, è fuggita al suo padrone, un marinaio che l’aveva portato a Parigi per venderlo; una volta risolta la vicenda, la normalità viene definitivamente sancita dal fatto che l’orango “venne successivamente catturato dal proprietario, che ne ricavò una somma ragguardevole dal Jardin des Plantes”. La transazione economica compie così il declassamento del mostruoso.

La fruizione commerciale del mostro trova, però, la sua forma più compiuta in un racconto breve di Maupassant, La madre dei mostri. La protagonista è una contadina, soprannominata la Diavola per i suoi figli mostruosi, che sono così per un disegno deliberato. Si tratta di “una donna satanica, un vero demonio, un essere che ogni anno dà alla luce volontariamente un essere deforme, schifoso, spaventoso, un mostro, insomma, e lo vende al proprietario di baracconi da fiera”. La mostruosità è divisa equamente tra la deformità fisica dei figli e l’abiezione morale della madre; ed è anche moltiplicata, dato che il primo figlio mostruoso nacque dalla necessità di nascondere una gravidanza dovuta a una relazione illecita:

Volendo nascondere a qualunque costo la sua disavventura; si stringeva il ventre in modo violento con un sistema di sua invenzione, una camicia di forza fatta d’assicelle e di corde. Più il grembo le s’ingrossava coll’inoltrarsi della gravidanza, più ella stringeva lo strumento di tortura soffrendo il martirio, ma forte di fronte allo spasimo, sempre sorridente e alacre, senza lasciar scorgere o sospettar nulla. Storpiò nelle proprie viscere il piccolo essere costretto dalla macchina orrenda: lo compresse, lo deformò, ne fece un mostro. Il cranio schiacciato s’allungò, e si appuntì, e gli occhi enormi sporgevano dalle orbite. Le membra oppresse contro il corpo si svilupparono contorte come tralci di vite, s’allungarono smisuratamente, terminate da dita simili a zampe di ragno. Il torso rimase piccolo e rotondo come una noce. Ella partorì in un campo una mattina di primavera.

Il mostro, la repressione e quindi la psicanalisi

Dunque, la responsabilità prima della produzione di mostri ricade sull’oppressione sociale e sulla repressione sessuale, e successivamente sull’avidità di denaro. Ma c’è dell’altro. La narrazione, infatti, ha inizio in un contesto completamente diverso, che presenta l’episodio principale a partire da un’associazione stravagante, apparentemente incomprensibile (ancora una volta!): “Mi sono ricordato di quella terribile storia e di quell’orribile donna vedendo passare l’altro giorno, su una spiaggia preferita dai ricchi, una parigina assai nota, giovane, elegante, affascinante, adorata e rispettata da tutti”. Il legame tra le due donne viene chiarito soltanto alla fine, quando entrano in scena i figli della bella signora: “Un paio di stampelle che giaceva per terra, mi colpì: allora m’accorsi che i tre piccoli erano deformi, gobbi e rachitici, repellenti”. La loro deformità, come spiega l’amico medico del narratore, è causata dai corsetti indossati dalla madre durante la gravidanza, per non rovinarsi la figura.

Al di là di ogni parabola contro la frivolezza, è chiaro il senso del racconto:

il mostruoso è la conseguenza diretta, fisiologica di una norma sociale che reprime la sessualità, impone stereotipi estetici e, infine, esibisce i propri prodotti mostruosi dopo averli ridotti a merci.

Qui il recupero apparente della funzione significante del mostruoso avviene del tutto all’interno di una filogenesi pragmatica, nella quale l’apparato sociale non tanto si esprime quanto si esercita. Del resto, la linda casetta di periferia in cui abita la Diavola “si sarebbe detta la casa di un notaio ritiratosi a vita privata”.

Così, l’apparizione del mostruoso assume una funzione strettamente collegata a quella della psicanalisi, come manifestazione di temi rimossi. In questo senso, può aiutarci un altro, più celebre testo di Maupassant: L’Horla, il cui tema è proprio la visibilità e riconoscibilità del mostruoso. Fin dalla prima pagina, è presente il tema dell’invisibilità, quando si tocca l’inaccessibile regno di forze abominevoli: “da dove provengono quegli influssi misteriosi che cambiano in scoramento il nostro buonumore e la nostra serenità in angoscia? Si direbbe che l’aria, l’aria invisibile, sia piena di inconoscibili Forze, di cui subiamo la misteriosa vicinanza.”

La conoscenza del mondo in cui viviamo è determinata, nella prospettiva del racconto, da ciò che i nostri sensi possono afferrare, e ne è necessariamente limitata: “non possiamo sondarlo con i nostri sensi miserevoli […] Sono delle fate che fanno il miracolo di cambiare in rumore il movimento e mediante questa metamorfosi danno origine alla musica, che trasforma in canto l’agitazione muta della natura…”

La strategia testuale di Maupassant mira a coinvolgere completamente il lettore in una forma di allucinazione, che porta a diffidare della propria esperienza del mondo. Al tempo stesso, la struttura a diario permette di presentare, in ogni momento, il più radicale dei dubbi, quello sulla propria sanità mentale. Il lettore filosoficamente avvertito avrà presente, quanto meno, il passaggio nella prima delle Meditazioni metafisiche di Descartes, in cui la possibilità radicale della follia appare brevemente nella costruzione del dubbio metodico, solo per esserne immediatamente esclusa senza ulteriori indagini:

E come potrei negare che queste mani e questo corpo siano miei? A meno che, forse, non mi paragoni a quegli insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti d’oro e di porpora, mentre son nudi affatto; o s’immaginano di essere delle brocche, o d’avere un corpo di vetro. Ma costoro son pazzi; ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio.

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Francis Bacon, Tre studi per figure alla base della Crocifissione (1944)

L’esclusione programmatica della follia

La razionalità moderna si fonda sull’esclusione programmatica della follia, con una petitio principii che è una delle maggiori inconseguenze (ma non certo la sola) del ragionamento cartesiano. Maupassant, quasi anticipando le successive critiche di Foucault e di Derrida, non si accontenta di questa soluzione e, per tutto il racconto, continua a manifestarsi il dubbio sulla sanità mentale del narratore, che si sottopone a un’estenuante serie di esperimenti per capire se debolezza, mancanza di volontà e depressione siano dovute a un parassita mostruoso e sconosciuto o abbiano una causa più convenzionale. Ancora una volta, siamo al conflitto tra scienza e soprannaturale, che può sfociare in due esiti:

la negazione in quanto frutto dell’immaginazione o l’inclusione come fenomeno spiegabile. La prima possibilità afferma la possibilità più spaventosa, quella della follia, mentre l’altra rende la realtà ancora più terrificante.

In questo scambio conflittuale tra quotidiano e ignoto, la presenza invisibile acquisisce un punto di origine:

Ho appena letto questo nella Revue du Monde scientifique: “Una notizia piuttosto curiosa arriva da Rio de Janeiro. Una follia, un’epidemia di follia, paragonabile alle pazzie contagiose che colpirono i popoli d’Europa nel Medioevo, infierisce in questo momento nella provincia di San Paolo.
Gli abitanti smarriti lasciano le loro case, disertano i loro villaggi, abbandonano le loro culture, dicendosi perseguitati, posseduti, governati come bestiame umano da esseri invisibili benché tangibili, una sorta di vampiri che si nutrono della loro vita, durante il sonno, e che bevono inoltre acqua e latte, senza sembrar toccare nessun altro alimento. […]”
Ah! Ah! mi ricordo, mi ricordo il bel tre alberi brasiliano che passò sotto le mie finestre risalendo la Senna, lo scorso 8 maggio! Lo avevo trovato così grazioso, così bianco, così allegro! L’Essere vi si trovava sopra, provenendo da laggiù, dove la sua razza è nata! E così mi ha visto! Ha visto anche la mia casa bianca; ed è saltato dalla nave sulla riva. Oh! mio Dio!

La catena di cause ed effetti è completa, ma proprio questo fa sorgere una possibilità estrema, la fine del dominio umano sulla Terra. Il nome stesso della creatura non ha nulla di razionale ma sembra, al contrario, un grido di angoscia:

È venuto, Colui che prevedevano i primi terrori dei popoli primitivi, Colui che esorcizzavano i sacerdoti inquieti, che gli stregoni evocavano nelle notti scure, senza vederlo apparire ancora, a cui i presentimenti dei padroni effimeri del mondo prestarono tutte le forme mostruose o graziose degli gnomi, degli spiriti, dei geni, delle fate, dei folletti. Dopo le grossolane concezioni della paura primitiva, uomini più perspicaci l’hanno previsto più chiaramente. Mesmer l’aveva indovinato e i medici, già da dieci anni, hanno scoperto, in modo preciso, la natura della sua potenza prima che l’avesse esercitata lui stesso. Costoro hanno giocato con l’arma del nuovo Signore, il dominio di una misteriosa volontà sull’anima umana divenuta schiava. Hanno chiamato questa cosa magnetismo, ipnotismo, suggestione… che ne so? Io li ho visti divertirsi come bambini imprudenti con quest’orribile potere! Sventurati noi! sventurato l’uomo! Lui è venuto, il… il… come si chiama… mi sembra che mi gridi il suo nome, ma io non lo sento… il… sì… lui lo grida… io ascolto… non posso… ripete… l’Horla… ho sentito… l’Horla… è lui… l’Horla… è venuto!

Il mostro come specchio

Alla fine, la possibilità di vedere il mostro, di avere una visione diretta dell’oggetto dei propri orrori, al termine di una ricerca attenta e metodica, non dissipa l’angoscia:

Dunque facevo finta di scrivere, per ingannarlo, poiché anche lui mi spiava; e subito, mi accorsi, fui certo che lui leggeva al di sopra della mia spalla, che lui era là, che sfiorava il mio orecchio. Mi alzai, con le mani tese, voltandomi così in fretta che stavo per cadere. Ebbene?… ci si vedeva come in pieno giorno, ma non mi vidi nel mio specchio! Quest’ultimo era vuoto, chiaro, profondo, pieno di luce! La mia immagine non vi stava sopra…

Il mostro non è più al di là della conoscenza, simbolo misterioso dal significato profetico. Anzi, è un oggetto conoscibile, completamente assoggettato alla forza totalizzante della scienza. E proprio così, rivelando se stesso, ci fa conoscere ciò che preferiremmo ignorare: ci mostra l’abisso della follia, il terrore della distruzione, la terribile falsità della celebre equazione baconiana per cui la conoscenza è potere. Il mostruoso oscura il nostro riflesso, ma alla fine, una volta recuperata la sua rimozione, ci mostra di nuovo a noi stessi, mostra che noi siamo il mostro. Esaurita ogni possibilità di riportarlo a una dimensione ultraterrena, in un mondo nel quale siamo soli, esso ci pone di fronte alla nostra responsabilità. Qualunque cosa facciamo, non possiamo ucciderlo e sopravvivere:

“No… no… senza alcun dubbio, senza alcun dubbio… Lui non è morto… E allora… allora… bisogna dunque che io mi uccida!…”

Il mostro come specchio, il de te fabula narratur che finisce sempre per mettere al centro il lettore: forse qui, in questa relatableness che viene ritenuta imprescindibile per il successo di qualsiasi prodotto culturale, sta la grande attualità di questa interpretazione del topos mostruoso. Diventa possibile tracciare una parabola della significatività del segno mostruoso: da rivelazione di un senso al di là dell’esperienza mondana a prodotto di una normalità variamente feroce, tanto più inquietante quanto meno sovrannaturale, fino a diventare riflesso non tanto dell’umanità in generale, ma del lettore stesso. Il mostro si fa idiosincratico ed egoriferito e, se ha una dimensione sociale, questa resta nel confirmation bias dell’ascolto selettivo, in cui viene registrato soltanto ciò che ci ripete noi stessi. Il mostro è l’io che rende impossibile l’altro, il solipsismo social che mette in circolazione soltanto nuove copie di se stesso, che non può staccarsi dalla propria ombra.

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Hieronymus Bosch, Il Giardino delle delizie, particolare (1480-1490)

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