Un’email in latino a firma di «Ioannes Lambardus», al secolo John Lambert, ventiduenne del Massachusetts che ci allega il suo poemetto in esametri latini su un’oscura leggenda del Kentucky. Il titolo è De occultis Lexintoniae (sive Athenarum Occidentalium) rebus poema didascalicum («Poema didascalico sui segreti di Lexington, ovvero dell’Atene Occidentale», per noi più semplicemente De occultis), e i suoi versi mettono insieme, in un unico grande arazzo, sepolcri indigeni, mummie giganti, corse di cavalli. Mentre scorrevo il file, non ho potuto fare a meno di chiedermi: «Esiste davvero John Lambert? Da quale varco dimensionale salta fuori un ventenne così?».
Questo accadeva la scorsa estate, quando la casella di posta elettronica del Certamen Poeticum Nubicentauricum – la gara di scrittura latina a tema fantastico organizzata da lay0ut magazine – si trasformava in un ricettacolo delle più audaci sperimentazioni. Ma c’era qualcosa, in questo componimento di Lambert, che lo distingueva da tutti gli altri: risonanze esoteriche, associazioni oscure, complesse arcate sintattiche, gusto erudito, un’immaginazione guizzante – qualità che hanno messo d’accordo la giuria, guadagnandogli il secondo posto nella categoria generale del Certamen.
1. Di cosa parla il De occultis
Dare spazio al De occultis nella rubrica Neolatina era diventata per me una questione di deontologia critica, perché opere del genere meritano di essere lette e conosciute al di fuori della ristretta cerchia dei Latin lovers.
Trattandosi di un poemetto didascalico, il De occultis non ha una trama in senso stretto. Si propone di documentare fatti che mettono radici nella storia locale di Lexington, in Kentucky: una leggenda weird su un’era antidiluviana, in cui il territorio della città sarebbe stato abitato da una stirpe di giganti, identificabili con i biblici Nefilim.
Ma andiamo con ordine. In apertura (vv. 1-4) è un breve epigramma di dedica a un amico altrimenti ignoto, presentatoci sotto lo pseudonimo ellenizzante di Corybas. Il doppio distico introduce il lettore a un clima di divagazione filosofica sul modello dei Greci, insistendo sulla natura leggera e «nugatoria» del poemetto. Sembra di cogliervi un sorriso da poeta preromantico, che guarda all’orrore come a un divertissement o a una forma del bizzarro.
Basta poco, tuttavia, perché la leggerezza si rovesci in raccapriccio. Ai vv. 5-17 il poeta si rivolge a Dio affinché si mostri misericordioso verso chi, come lui, è in procinto di dischiudere fatti che sarebbe meglio tacere. Passa quindi a esporre la leggenda dei Nefilim, giganti menzionati nel libro dei Numeri, 13, 33, e già presenti in Genesi 6, 4, che li descriveva come creature nate dai «figli di Dio» e dalle «figlie degli uomini» (ossia da «connubi illeciti», i «connubiis vetitis» del v. 23). Prima che un diluvio li travolgesse, essi avrebbero edificato una rete di catacombe sotto la città di Lexington (vv. 18-41). Dalle ossa ivi deposte scaturirebbero sorgenti dai poteri miracolosi. Se ne ricaverebbe, in particolare, quell’elisir di lunga vita di cui sembra essersi servita la regina Elisabetta II d’Inghilterra, frequentatrice delle gare ippiche della città (vv. 42-80).
La sequenza successiva (vv. 81-121) ha un taglio narrativo. Vi si racconta in forma romanzata la vicenda di Thomas Ashe, viaggiatore ottocentesco che, nei suoi Travels in America (1809), sostenne di aver visitato un sito ipogeo scavato dai nativi del luogo nei pressi di Lexington e di avervi rinvenuto cadaveri imbalsamati. Nel De occultis l’Ashe-personaggio è protagonista di una rocambolesca catabasi nella tomba di un Nefilim e ha un incontro ravvicinato con la sua mummia, prima che la chiusa in trimetri giambici (vv. 122-127) suggelli bruscamente la fine del testo.
2. Un «Lovecraft» in toga e calcei
Come molti poemetti didascalici composti dal Rinascimento in giù, il De occultis inietta suggestioni moderne nel corpo morto della classicità. Si prenda l’invocatio a Dio nei versi incipitari: struttura tipica della tradizione didascalica, nel De occultis intercetta anche uno stilema dell’horror, trasformandosi nella captatio di un narratore che cela goffamente le sue superstizioni sotto la corazza della fede: «ti prego, abbi pietà di quest’audace / poeta, se dissacro, ingiusto, simili segreti» («Parce, precor; vatis miserere procacis, / Si temere secreta haec Te nolente profano», vv. 14-15). Viene in mente Edgar Allan Poe in The Black Cat: «in so doing I was committing a sin — a deadly sin that would so jeopardize my immortal soul as to place it — if such a thing were possible — even beyond the reach of the infinite mercy of the Most Merciful and Most Terrible God».
Un topos più generico, al crocevia fra letteratura antica e horror moderno, è l’associazione antichità-saggezza-terribilità. A partire da Erodoto, che Lambert cita al v. 81, e anzi già da Ecateo di Mileto, gli storiografi greci si interrogarono a più riprese su quale popolo meritasse il titolo di più antico e più sapiente (vedi qui). La bilancia pendeva a favore degli Egizi, ritenuti depositari di conoscenze che si erano trasmesse intatte da centinaia di generazioni. Proprio da sacerdoti egizi il legislatore Solone avrebbe appreso il mito di Atlantide, i cui antichissimi abitanti furono travolti da un diluvio allorché Zeus, «potendo ben valutare la situazione, si rese conto che questa stirpe, pur essendo ben dotata, aveva preso una brutta strada» e «decise (…) di punirli nel giusto modo perché riacquistassero equilibrio e saggezza» (Crizia, 121 B-C, tr. Giovanni Reale).
Nel De Occultis ecco i Nefilim, semidèi vissuti «prima del Diluvio / noachico» («Noae ante Eluviem»); dalle loro ossa superstiti si effondono sorgenti di liquida sapienza, tale che «saggio è il suo [di Lexington] popolo, e sagace nelle dispute» («Sagiat ut populus nimium, iurgetque diserte», v. 53).
Quanto al versante horror, antichi per antonomasia, perversamente saggi e terribili sono i «Grandi Antichi» di H. P. Lovecraft, o gli «Antichi» che compaiono ne Le montagne della follia (in maiuscola, si noti, anche i «Veteres (…) sapientes» di Lambert); e una parentela archetipica – sotterranea, più che consapevolmente ricercata – con il solitario di Providence emerge dalla descrizione delle catacombe:
The hollowed layer was not more than seven or eight feet deep but extended off indefinitely in all directions and had a fresh, slightly moving air which suggested its membership in an extensive subterranean system. Its roof and floor were abundantly equipped with large stalactites and stalagmites, some of which met in columnar form: but important above all else was the vast deposit of shells and bones, which in places nearly choked the passage.
H. P. Lovecraft, At the Mountains of Madness, 2
(…) una camera quadrata,
estesa sotto quei deserti ostili, grande venti
braccia e alta cinque, fino al tetto grezzo, che coprivano
strati di fumo scuro. Si sarebbe detto un loculo
di quella razza, se non che la camera lasciava
pensare a mani umane ben più grandi, e nessun’urna
si distingueva nella tomba. Sulla soglia, stando
al racconto di Ashe, giaceva la tibia di un corpo
ignoto, fatto a pezzi, che – mostruosa – consentiva
a fatica il passaggio, ricoperta da una benda
di giunchi, come il lino egizio copre le sue mummie.
vv. 89-99
A caratterizzare passi del genere – e quello corrispondente dei Travels di Ashe, cui Lambert attinge a piene mani – è il rigore positivistico dell’osservazione. Esso si sposa con il gusto eziologico proprio dei poemi didascalici, anche laddove cede il posto ad aperture verso il mirabile, a esclamazioni di stupore e a similitudini orrorifiche, come al v. 99. Della modernità di tale gusto era cosciente Lovecraft, quando – nel saggio Supernatural Horror in Literature – celebrava in Poe «the impersonal and artistic intent (…) aided by a scientific attitude not often found before».
A ciò si aggiunge, in Lambert, l’incanto di un latino labirintico, dall’andamento accumulativo e incalzante, denso di incidentali e di enjambements; di un tono didascalico che contempera momenti di alto pathos ad altri dal taglio documentaristico; di un lessico contemporaneamente tradizionale ed esotico, che sa rilucidare schemi già noti (si veda il diluvio ai vv. 33-37), indulgere al preziosismo (la «catacumba» dei vv. 89 e 118), evocare minacce e splendori d’Oriente, come la«Pyramidum moles (…) Babylonica» del v. 26, il «bombyx» e la porpora «Tyria» del v. 58.
3. «Something like an urban legend…»
Si è detto che una fonte del De Occultis è rappresentata dai Travels in America di Thomas Ashe, che compare nel poemetto anche in veste di personaggio – eroe epico che fronteggia un monstrum evaso dalla Bibbia, plasmato dai culti dei nativi d’America e impastato di cosmicismo.
Del tutto peculiare è il riuso, da parte di Lambert, delle pagine di Ashe. Questi parlava, in effetti, della «mouth of a cave – deep, gloomy, and terrific» nella quale si sarebbe calato; e ancora di «nitches and compartments», e di sepolture indigene profanate dai bianchi, che ne avrebbero esumato cadaveri imbalsamati per prenderli a calci ed esporli alla luce del sole. Esaminando bende e resti organici, Ashe conclude che le mummie risalgono a una «remote antiquity».
Ma il De occultis non si limita a volgere in versi il racconto di Ashe. Pone al centro, invece, «a living mythology half-believed by a certain subset of Lexingtonians, something like an urban legend, but more serious and elaborate»: è lo stesso Lambert a spiegarmelo via email, quando lo interrogo sulle fonti del suo testo. E aggiunge: «The legend of the ziggurat under the city center was likely influenced by the vexed construction of a commercial hub (the CentrePointe complex)». Un insieme di eventi storici, superstizioni, dicerie di quartiere. Se ne trovano sparute tracce online, scavando in quel medesimo sottobosco da cui germinano creepypasta e altre mitologie condivise (vedi qui).
4. I tempi dell’io
Ziggurat e edifici commerciali, Atene e Lexington, Erodoto e Ashe, arcani universali e realtà locali, leggenda e storiografia s’intrecciano profondamente nel De occultis. Il latino di Lambert è tutte queste polarità insieme. Persino la struttura del poemetto si regge sulla dicotomia di leggenda e storia. Si vedano i vv. 81-83: «Fin qui ci informa la leggenda. Quanto al resto, occorre / affidarsi all’Erodoto nostrano, Thomas Ashe; / se a torto o meno, e quanto segue, non mi è noto» («Hactenus edocuit rumor: iam in cetera teste / Herodoto nostro, Thomas qui dicitur Ashe, / Nitendum est»).
Nel cronotopo dell’io narrante riposano sedimenti di epoche remote. Ma è vero anche il contrario: come se a scrivere fosse un religioso, uno storico, un filosofo in viaggio attraverso lo spaziotempo su un’astronave a propulsione esametrica, gli eventi del presente appaiono rischiarati da una luce atavica. È il caso della descrizione delle gare equestri di Lexington (vv. 55-62), che fanno balenare sfarzose «aeronaves» sui cieli dell’epica; e della menzione di Elisabetta II (vv. 66-80) che, attingendo alle miracolose acque della città per ricavarne un elisir di lunga vita, si trasforma in una sorta di alchimista fuori tempo massimo (simile, in questo, alla sua omonima Elisabetta I, simpatizzante dell’alchimista John Dee, di cui si è parlato in questo articolo).
5. Il fascino dell’incompiuto
Dopo ogni reminiscenza leggendaria, il baricentro temporale del De occultis si assesta di nuovo sul presente: «Dove ora sorge / questa città, nacque un cratere esteso, che c’è ancora» («crateraque gignitur ampla / In qua fundatum est nostrum, quod permanet, astu», vv. 40-41); oppure: «Si dà il caso che al museo della nostra biblioteca / sia finita la benda: è integra, appesa ora fra rocce / scolpite dalle frecce e antichi rimasugli bellici» («Casu autem sospes Museum bibliothecae / Pannus iit nostrae, iam inter caelata sagittis / Saxa et bellorum spolia antiquorum ubi pendet», vv. 119-121).
Se il De occultis fosse un film, ritroveremmo nella chiusa i colori terrei, desaturati di una miniserie weird degli anni ’90. L’orrore storico è sussunto in reperto e gli abitanti di Lexington conducono una vita ignara e pacifica nella loro ridente cittadina; sottoterra, intanto, una coscienza sepolta, in attesa del risveglio, perpetua un arcano legame con «unknown spheres and powers». Si avverte un sentore d’irrisolto, accentuato dalla fine non-fine del poemetto: la narrazione di Lambert rimane incompiuta, insabbiando la promessa di altre meraviglie.
6. Per un uso didattico del De occultis
Due proposte per i docenti e le docenti di lettere che ci seguono: leggete in classe i vv. 81-101 del poemetto (con testo a fronte, se necessario), inserendoli in un’unità didattica:
a. sul tema dell’horror: il percorso può abbracciare, ad esempio, il mito di Licaone nel I libro delle Metamorfosi di Ovidio, la descrizione splatter della maga Eritto nel VI della Pharsalia di Lucano, la ghost story nell’epistola VII, 27 di Plinio il Giovane, il licantropo petroniano di Satyricon 61-62 e/o qualche brano esemplificativo dei Prodigi di Giulio Ossequente; nulla impedisce di decentralizzare il latino, allargando lo sguardo ad altre letterature e forme d’arte (per chi insegna al classico, non dovrebbe mancare il Περἱ θαυμᾳσίων καἰ μακροβίων di Flegonte di Tralle); si provi a indagare quali strategie adottano artiste e artisti per raccontare il «supernatural horror», ovvero a che altezza storica quell’orrore che prima si atteggiava in forme realistiche, incarnandosi in vecchie sdentate e corpi putrefatti, diventa indistinguibile da un «sense of cosmic fear in its purest sense» (H. P. Lovecraft, Supernatural Horror in Literature);
b. sul riuso delle fonti in poesia: di concerto con il/la docente d’inglese, chiedete alla classe di operare un confronto fra il racconto del De occultis e il corrispettivo passo dei Travels in America di Thomas Ashe, dedicato alla scoperta delle catacombe indigene, individuando analogie e differenze narrative, strutturali, lessicali.
Quanto più weird sono le vostre classi, tanto più vi ringrazieranno.
7. Premessa alla traduzione
Ho tradotto il testo secondo i criteri metrici esposti qui, rendendo gli esametri in versi decapentasillabici, il pentametro in versi alessandrini, i trimetri giambici in endecasillabi. I titoli iniziali delle sequenze 3 e 4 sono stati aggiunti da me; i restanti appartengono all’originale di Lambert; le note sono d’autore.
8. Il De occultis Lexintoniae (sive Athenarum Occidentalium rebus) poema didascalicum: testo e traduzione italiana
vv. 1-4 Ad Corybantem
philosophum Lexintoniensem epigramma
Graecior est, Corybas, qui te stilus atque tuorum
Dignus agat lectu gaudia συμποσίων.
Arte ego Graeca expers solitas en hasce Latine
Conscripsi nugas: ridicule accipias.
vv. 1-4 Epigramma a Coribante,
filosofo di Lexington
Più greca penna, Coribante, si richiederebbe
per dire degnamente te e i tuoi lieti convivi.
Digiuno d’arte ellenica, ecco, ho scritto come al solito
queste inezie in latino. Tu accoglile con spirito.
vv. 5-41 Incipit poema
Alme Deus, cuius nihil iniussu accidit umquam,
Sponte tamen morti, ut moreretur et ipsa, dicate,
Mundi delapsi melius delapse Redemptor:
Cum quidquid placeat toleres nos velle, bonum sit
Sive malum, maneat seu corde sub interiore,
Sive (sed eventum forsan frustrere) petat vi
Membrorum effectum, tamen optima, Sancte, voluntas
Est Tibi: cui parere utinam possemus alacres!
At ne nosse quidem quam saepe hominum miserorum
Sors est. Parce, precor; vatis miserere procacis,
Si temere secreta haec Te nolente profano;
Sin autem memorare sinas, Ere, dirige carmen,
Harum ut Athenarum salvus miracula cantem.
Urbem antiquam igitur scito, lector, iacuisse
Hic ubi Athenae nunc, quae, longe priscior illis
Et Graecis, a semideis exstructa refertur
Noae ante Eluviem. Nephilim hos dixere prophetae:
Gens crudelis, atrox, vitiisque exculta, Gigantum,
Conubiis vetitis hominum generata deumque,
Quos ego–nomina sed taceam, ritumque nefandum. [1]
Templum urbe in media, peccatis quod celebrabant, Pyramidum moles tamquam Babylonica facta,
Spelunca super angusta situm erat tenebrosaque,
Huc illuc errante, instar serpentis: at illi,
Numinis hac etiam pro concessa male grati,
Calcem findentes mollem, penetralia subter
Vasta locant, artes possent ut et amplificare
Daemonicas. Ibi congressa est stirps improba cuncta,
Cum Deus, imbre ratus mundum lustrare, fenestras
Effringit caelorum, aperitque sine obice valvas
Tartareas: tunc flaminibus saevire procellae,
Tunc scindi rupes rapidique effundier amnes,
Terra quati, montes labi, maria omnia circum
Mergere. Sic Nephilim vitio prensi perierunt.
Cum quibus urbs: totis nam effossis fundamentis
Obruta subsidit, crateraque gignitur ampla
In qua fundatum est nostrum, quod permanet, astu. [2]
vv. 5-41 Ha inizio il poema
Dio della vita, senza il cui favore nulla accade,
donatoti alla morte perché Morte ne morisse,
Redentore precipite del mondo decaduto,
che, a nostra discrezione, ci consenti di volere
il bene o il male, sia ch’esso ristagni in fondo al cuore,
sia che (ma forse tu l’impediresti) cerchi sbocco
nella forza del corpo, o Santo, Tu che hai una perfetta
volontà – oh, se potessimo, solerti, assecondarla!
se non che spesso ai miseri mortali neanche è dato
conoscerla – ti prego, abbi pietà di quest’audace
poeta, se dissacro, ingiusto, simili segreti;
però, Signore, se acconsenti, guida Tu il mio canto,
perché io celebri – e sia salvo – i miracoli di Lexington.
Sappi, o lettore, che dove oggi è Lexington sorgeva –
assai più antica d’essa e d’ogni città greca – un’altra
città: si dice fosse eretta prima del Diluvio
noachico da semidèi. I profeti li chiamavano
Nefilim – stirpe fiera e micidiale di Giganti,
coltivata nel vizio, nata da connubi illeciti
tra uomini e dèi, che… qui ne taccio i nomi e i riti infami. [1]
Nella città era un tempio che onoravano peccando,
simile nella mole alle piramidi sumeriche.
Sorgeva in cima a una caverna stretta e tenebrosa,
che, al modo di un serpente, si allungava da ogni parte:
ingrati a Dio di tale concessione, quelli scavano
la molle calce e sotto vi costruiscono segrete
immense, per accrescervi le loro arti diaboliche.
Qui si adunava tutta quella mala stirpe, quando
Dio, per purificare il mondo con la pioggia,
sfondò del cielo le finestre e aprì – tolte le spranghe –
le porte dell’inferno: ecco infuriare una tempesta
di vento, fendersi le rupi, i fiumi rapinosi
effondersi, tremare terra e monti, i mari invadere
ogni cosa d’intorno. Così i Nefilim perirono,
preda del vizio, insieme alla città: svelta del tutto
sin dalle fondamenta, sprofondò. Dove ora sorge
questa città, che esiste ancora, nacque un gran caratere. [2]
vv. 42-80 De ossibus sepultis
Ossa at quae Nephilim cum corpore deseruere,
Miratus, simul intuitus, virtute valere
Immani haud dubites, gummi quae frigida sudent
Adsidue lento, summis candente tenebris
Lunae vi. Stillam autem acrem qui linxerit unam
Acriter extemplo sapiat, stultissimus etsi
Praeterito. Quapropter Lexintonia nostra
Illustri est donata “Novis” cognomine “Athenis”:
Namque ossa in tellure latent, antroque sepulta,
Fontes unde fluunt potum qui civibus omnes
Subministrant, niveo perfundunt rore liquorem,
Sagiat ut populus nimium, iurgetque diserte:
Haud aliter Veterum rixabantur sapientes.
Quin proceres etiam ditesque a gentibus orti
Omnibus huc ad equos veniunt (aiuntve) quotannis Spectandos, circensibus optima qui mereantur. [3]
Bombycem induti Palmarum et Tyria Festo
Argento gravidas huc vertunt aeronaves;
Fiat ut aurifero soli via, nubila proris
Pertundunt: certamina enim currenda sereno.
Istaec confirmat subridens clam sibi quisque.
Namque alia est ratio, sapiens quod qui scatet umor Perpetuam quoque det vitam; ritu modo scires
Quo esset opus, secretisve incantanda loquelis
Carmina quae possent, animam lymphis religatam
Haurires tibi. Quae (chymicis nunc testibus utor;
Consule, si qua parum sententia credita, tales)
Irrita torpet, iners, dum solis lucibus orba;
Quod si adsit radius, calefiat quo medicamen,
Sidera iunguntur gemina, et perfecta salutis
Alba rubescit vis. [4] Series perlonga hominum est, queis Fama artem attribuit: praestat Regina Britannum,
Elisabetha (eheu nobis quae nuper adempta).
Namque aetate magis provecta est fructa, minusque
Mens hebetata annis, plebs quam ut credibile ducat;
Cursibus accedit quod anus ne aegrota quidem absens,
Immo etiam, sunt qui dicant, nunc viva frequentat.
Horum autem vanum sermonem suspicor. Illa
Si vivat, valeat; ficta ecquid profuerit mors?
vv. 42-80 Le ossa sepolte
Ma non appena tu vedessi quelle ossa, che i Nefilim
hanno deposto insieme ai corpi, ti sorprenderebbe
la loro virtù immensa: quando in cima al buio la luna
biancheggia, senza sosta esse distillano una resina
tenace. Chi ne lecchi anche una sola, acida goccia,
gli si affila l’ingegno all’improvviso, benché prima
fosse il più sciocco. Ed è per questo che alla nostra Lexington
hanno donato il nome illustre di «Novella Atene»:
ché, nascoste sotterra, seppellite nelle grotte,
quelle ossa danno origine alle fonti che dissetano
i cittadini e spandono un liquore bianco neve,
talché saggio è il suo popolo e sagace nelle dispute:
così anche fra gli Antichi disputavano i sapienti.
Qui maggiorenti e ricchi di ogni paese, a quanto dicono,
giungono ogni anno e assistono alle gare dei cavalli
che nei giochi circensi si contendono il primato. [3]
Vestono abiti di porpora e di seta e la Domenica
delle Palme qui volgono aerei carichi d’argento.
Aprendo un varco al sole d’oro, battono le nubi
con la prora: le gare si tengono a ciel sereno:
lo ribadisce ognuno, sorridendo, fra sé e sé.
Vi è pure un altro metodo, per cui il sapiente liquido
che sgorga dà la vita eterna; purché tu conosca
il rito necessario, o quali incanti si pronuncino
con accenti segreti, attingeresti da quelle acque
lo spirito vitale (chiamo adesso a testimonio
i chimici; consulta loro, se non credi); quello
se ne sta inerte e sterile, se il sole non l’illumina;
ma se vi splende un raggio, il farmaco si surriscalda
e i due chiari si fondono: ormai pronta, da bianca
la sua virtù salvifica rosseggia. [4] Si vocifera
che in moltissimi appresero quest’arte: Elisabetta,
regina dei Britanni (ahinoi, strappataci da poco),
spicca su ogni altro: infatti s’è goduta la vecchiaia
più che non creda il popolo, e con mente ancora lucida;
sembra che, da malata, non mancasse mai alle corse;
alcuni, anzi, sostengono che, viva, le frequenti
ancora oggi: io ritengo che sia una bugia. Se è viva,
stia bene! A che mai gioverà una morte immaginaria?
vv. 81-121 De Thomae Ashe in catacumbam descensu
Hactenus edocuit rumor: iam in cetera teste
Herodoto nostro, Thomas qui dicitur Ashe,
Nitendum est; an falso, ignoro cum reliqua re.
Hic peregrinatum mediam exploratum Americam
Saeclo undevicesimo, et hic vidisse, ineunte
Scripsit [5] se indigenarum urbem, atque immane sepulcrum.
Illius heu superest, cuius vestigia tantum
Tunc etiam perpauca, nihil, si quid fuit umquam;
Nec multo catacumba est fortunatior urbe.
Conclave haec subter tesquis quadratum inimicis
Viginti ulnarum latum, tectoque supremo
Quinque tenus, rude quod fumus maculaverat ater;
Gentis forte columbarium, ni manibus aptae
Aediculae humanis maioribus, urnaque busto
Nulla videretur. Quippe, Ashe teste, iacebat
Frustatim sparsi sine nomine corporis una
Tibia trans postes, monstrosa qua obice clausae
Vix paterentur iter: circumdata fascia iuncis
Obtegit haud secus atque Aegyptia lina cadaver.
Sub qua Ashe repens noster nihilominus intrat,
Fertque pedes inter tinctos pice segniter artus,
Bracchia iam admirans ingentia, iam femur ingens,
Dum caput adveniat, comburat quod studio cor,
Mnemosyni ut cupidus detrito margine captans
Haud trepidis pannum digitis avellat ab ore.
Extemplo auditur fremitus defluxuum aquarum
Consimilis, nullo fluctu cogente; tremitque
Personitus diris loculus clamoribus omnis.
En sub direpto fulgebat vimine flavus
Se undique detorquens oculus, somnoque reposto
Tendit in Ashe aciem. Hic se audax ad tempora vertit
Celsa, et “Prodigia haec” declamat “inania quorsum,
Trunce Cyclops? Ulcisci num pote furta lacertis
Te laceris? Valido ne sis minitatus inermis.”
His dictis vectem iratus conquirit, abactum
Quo demat lumen, cum iam hoc (mirabile dictu)
Nictat: abit penetral, per silvas denuo oberrat
Ashe, nec poterat catacumba iterum reperiri.
Casu autem sospes Museum bibliothecae
Pannus iit nostrae, iam inter caelata sagittis
Saxa et bellorum spolia antiquorum ubi pendet.
vv. 81-121 La visita di Thomas Ashe alle catacombe
Fin qui ci informa la leggenda. Quanto al resto, occorre
affidarsi all’Erodoto nostrano, Thomas Ashe;
se a torto o meno, e quanto segue, non mi è noto. Questi
scrisse [5] che, giunto qui durante il suo viaggio in America,
all’inizio dell’Ottocento, vide la città
e l’immenso sepolcro degli indigeni. Già all’epoca,
se mai vi fu qualcosa, ahimè, ben poco ne restava
e ora più nulla. Ai sotterranei, poi, non è toccata
miglior sorte che alla città: una camera quadrata,
estesa sotto quei deserti ostili, grande venti
braccia e alta cinque fino al tetto grezzo, che coprivano
strati di fumo scuro. Si sarebbe detto un loculo
di quella razza, se non che la camera lasciava
pensare a mani più che umane, e non si distingueva
nessun’urna dentro la tomba. Sulla soglia, stando
al racconto di Ashe, giaceva la tibia di un corpo
ignoto, fatto a pezzi, che – mostruosa – consentiva
a fatica il passaggio, ricoperta da una benda
di canna, come il lino egizio copre le sue mummie.
Comunque sia, carponi, Ashe vi s’infila sotto, e porta
i passi pigramente in mezzo alle membra impeciate
e ammira le possenti braccia, il femore gigante,
finché, bruciando di curiosità, giunge alla testa
e, per portarsi un souvenir, con mani che non tremano,
afferra un lembo logoro e sottrae la benda al capo.
Subito s’ode un gran fragore come di cascata
senza che vi sia un’onda a generarlo; vibra tutta
la nicchia, rintronata da quel macabro rumore;
ed ecco, risplendeva un occhio sotto i giunchi laceri,
giallo, roteando intorno; ridestatosi dal sonno,
tende la vista su Ashe. Questi si volge, temerario,
all’altissima testa e grida: «A che questi prodigi,
mozzo ciclope? Vuoi tu vendicare il sacrilegio
con braccia rotte? O debole, minacci uno più forte!»
Dice così, e adirato, per privarlo della vista,
cerca una spranga, quando egli – incredibile a narrarsi! –
batte le palpebre, e lascia la grotta, e vaga ancora
per i boschi, smarrito. L’uscio non si trova più.
Si dà il caso che al museo della nostra biblioteca
sia finita la benda: è integra, appesa ora fra rocce
scolpite dalle frecce e antichi rimasugli bellici.
vv. 122-127 Auctoris satisfactio
pro carmine imperfecto
Post operis hanc prolusionem scripseram
Ultore Rafinesqui aliqua de phantasmate,
Modo sisset hora. Brevius a tempus fugax Contritum abest, currente nec primus quidem
Rota liber perfectus exiit. Haec tamen,
Corybas, recipe, futura ne excludas bona.
vv. 122-127 Soddisfazione dell’autore
per il carme incompiuto
Ciò premesso, avrei scritto del fantasma
di Rafinesque vendicatore. Invece
lo nega il tempo, e va via in fretta, ahi, fugge
perduto. Il tornio gira ancora, e a mezzo
è il primo libro. Coribante, accoglilo
e altro di buono attendi dal futuro.
[1] Si quis velit plura de hac re discere, legat vel audiat dialogum de Terra Gigantum a PP. Andrea et Stephano excogitatum, sub indice Domini Spirituum vulgatum.
[2] Huius craterae vel vallis, quamquam multi aiunt eam permagnam fuisse, nullum apud chartas vestigium inveni. Aut falso tradiderunt maiores aut, quod veri similius videtur, post eorum tempus aequata vel impleta est.
[3] Quo tutius verum propositum dissimularent, urbis cognomen conati sunt, nec frustra, mutare in “Equorum Totius Orbis Capitolium.”
[4] Chymicum quendam cognovi qui, simili ratus opinione corpus suum μικρόκοσμον solis vi carere, inguina luci obicere solebat, quo melius influxum sorberent.
[5] Nempe in Itinerum libri secundi epistula vicesima secunda.
Expliciunt notae. Vive feliciter.
[1] Chi volesse saperne di più legga o ascolti il dialogo A Land of Giants, opera di Fr. Stephen e Fr. Andrew, disponibile sulla pagina di Lord of Spirits.
[2] Di questo cratere o valle, benché molti sostengano che fosse molto grande, non ho trovato traccia nei documenti. O gli antenati ci hanno trasmesso un’informazione fallace o, com’è più verosimile, il cratere fu spianato o colmato dopo la loro epoca.
[3] Per dissimulare con maggior sicurezza il vero proposito, si sono industriati, non invano, di mutare l’appellativo della città in «Capitale mondiale dei cavalli».
[4] Ho conosciuto un chimico che, ritenendo con simile opinione che il suo corpo-microcosmo avesse una carenza di luce solare, era solito esporre i genitali al sole, perché meglio ne assorbissero l’influsso.
[5] Nella ventiduesima epistola del secondo libro dei Travels.
Si concludono le note. Vivi nella gioia.