Con Raffele Morabito sul progetto fotografico Flowers for telling you fuck off
Negli ultimi anni la pandemia causata dal Sars-Covid19 ci ha obbligato a prendere coscienza di qualcosa che probabilmente intuivamo già da tempo: la nostra visione strettamente antropocentrica del mondo deve essere riconsiderata. Per esempio, più volte Salvatore Natoli, già professore di Filosofia teoretica presso l’Università di Milano Bicocca, ha parlato di “superamento dell’Antropocene”. Con questa espressione, Natoli intende un’era in cui l’uomo è costretto a convivere con la tecnologia, da lui stesso creata e di cui ormai siamo dipendenti, e con la natura, che non può essere annichilita, pena la scomparsa della vita sulla terra. Sul tema risulta (ancora) estremamente attuale la lettura di Iperoggetti, saggio di Timothy Morton pubblicato nel 2013 e tradotto in italiano da Nero nel 2018. Morton suggerisce che l’uomo sia entrato in una nuova fase, in cui a essere cambiato è il nostro rapporto con il non-umano. Gli esseri non umani a cui il saggista americano fa riferimento sono quelli che, come da titolo, egli chiama iperoggetti, ovvero “entità diffusamente distribuite nello spazio e nel tempo”. Gli iperoggetti – termine a sua volta coniato dallo stesso autore nel 2010 in The Ecological Thought – non sono solo insiemi di oggetti o aggregazioni di sistemi, quanto oggetti a pieno titolo. È impossibile sintetizzare in poche righe il pensiero di Morton relativo agli iperoggetti e al loro impatto rispetto la vita dell’uomo. Nell’introduzione, Morton dice che:
«Gli iperoggetti hanno numerose proprietà in comune. Sono viscosi, ovvero si “attaccano” alle entità con le quali sono in relazione. Sono non-locali: ciascuna “manifestazione locale” di un iperoggetto non è, direttamente, l’iperoggetto stesso. Esistono su scale temporali profondamente differenti rispetto a quelle a cui siamo abituati in quanto esseri umani […]. Esibiscono i loro effetti in maniera interoggettiva; ovvero, possono essere individuati in uno spazio che consiste nelle relazioni reciproche tra le proprietà estetiche degli oggetti. L’iperoggetto non esiste in funzione della nostra conoscenza: è iper in relazione a vermi, limoni e raggi ultravioletti tanto quanto agli esseri umani»
Secondo questa definizione, la biosfera è un iperoggetto, come anche un buco nero o la somma di tutto il materiale nucleare presente sulla terra. Oggetti concettualmente così grandi che si fa fatica a pensarli e ancora di più ad approcciarli e maneggiarli. In un’intervista pubblicata su “The New Yorker” nel giugno 2021, Morton rivela che secondo lui il Covid-19 rappresenta “the ultimate hyperobject”. Il virus vive letteralmente dentro di noi, ci influenza e ci obbliga a relazionarsi con esso. Esso, come tutti gli iperoggetti, resta invisibile e intangibile e noi possiamo esperirne fisicamente solo gli effetti esteriori, le risultanze.
Flowers for telling you fuck off
Qualche settimana fa sono stato nello spazio di ricerca Viafarini in occasione degli open-studio degli artisti ospitati a Milano per la residenza di VIR (Viafarini-in-residence). Qui ho avuto la possibilità di vedere l’ultimo lavoro di Raffaele Morabito (1994), intitolato Flowers for telling you fuck off. Nonostante il nome rimandi subito a un dialogo a due voci – una dimensione molto intima e personale – di fonte alle opere di Morabito il primo pensiero è andato a Morton ai suoi iperoggetti. Questo lavoro nasce durante la residenza Cani, ospitata nel 2022 in Puglia presso un uliveto affetto da xilella e quasi completamente distrutto, al pari di molti altri ulivi della zona. Inizialmente Morabito ha lavorato con la macchina fotografica quasi in maniera documentaria, ma durante la residenza artistica ospitata da Viafarini si è accorto che questa modalità narrativa, semplicemente, non narrava abbastanza. Morabito spiega che all’inizio ha scattato alcune fotografie con l’intento di lavorare con le informazioni raccolte in un secondo momento. A Milano ha sviluppato le foto e ha capito che queste fossero immagini documentarie, ma senza la forza sufficiente per diventare un soggetto autonomo. Per questo, ha deciso di intervenire digitalmente, creando dei collage che unissero le foto da lui scattate, prelievi testuali da pubblicazioni scientifiche e immagini tratte da un libro sull’ikebana. Lo scopo era quello di far emergere in superficie, attraverso la rottura del soggetto figurativo, una parte emotiva e privata che altrimenti sarebbe rimasta invisibile. “Immortalare una realtà già vista – spiega – non era abbastanza, era un processo troppo semplice e scontato. Nelle immagini che avevo scattato si intravedevano i sintomi della xilella, si intuiva latamente che gli ulivi erano malati, ma queste immagini non erano sufficientemente leggibili e comprensibili”. Di qui l’intuizione di intrecciare, insieme alla rappresentazione degli ulivi devastati dalla malattia, il vissuto personale, quello relativo alla fine di una relazione sentimentale avvenuta proprio durante la residenza artistica in Puglia.
Flowers for telling you fuck off vive quindi di questa polarità. Da una parte l’infinitamente grande – l’iperoggetto-virus, invisibile e non localizzabile; dall’altra l’infinitamente piccolo – il vissuto personale, comunque anch’esso non rappresentabile se non per via metaforica o allusiva. Nel mezzo, l’obiettivo della macchina fotografica. Più volte, anche su Lay0ut, si è affrontata la problematicità legata allo sguardo fotografico. È chiaro che la fotografia contemporanea non possa avere più nessuna pretesa di riproduzione della realtà in termini di credibilità. Dai filtri Instagram ai deep-fake, viviamo immersi in un universo visivo di schermi retroilluminati e rielaborazioni digitali, che influenzano la ricezione dell’immagine e rendono tangibile il mantra di McLuhan “il medium è il messaggio”. D’altronde, sarebbe ingenuo credere che la presunta credibilità del fotografico abbia mai avuto un effettivo riscontro. Basti pensare alle riflessioni e alle sperimentazioni sullo statuto del mezzo che nascono sulla scorta del Manifesto della Fotografia Futurista, redatto nel 1930 da Marinetti e Tato, dove sono centrali le nozioni di camuffamento, falsificazione, finzione credibile. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Qui ci interessano invece le conseguenze che queste riflessioni hanno sulla fotografia contemporanea. Nel caso specifico di Morabito, la consapevolezza della corruttibilità dell’immagine e della sua manomissione in sede di postproduzione provoca un volontario allontanamento dalla pratica del fotoreportage e della fotografia illustrativa. E, al contempo, vede nella modifica digitale la possibilità per far emergere un significato ulteriore, un concetto che altrimenti rimarrebbe celato. Morabito, intervenendo sulle foto scattate in Puglia attraverso l’azione di fotocollage digitale, seleziona, scontorna, sovrappone e pone in dialogo fiori e frammenti del paesaggio naturale. Questi diventano il trait d’union tra il fallimento della relazione amorosa e la morte degli ulivi a causa della xilella.
“Sono molto interessato alla nozione di invisibilità declinata nella pratica fotografica – dice Morabito – perché esplorando questo tema ci si rende conto di quanto il fotografico sia ambiguo. Il risultato della fotografia, lo scatto, è fortemente espressivo, perché instaura una correlazione diretta, visibile, retinica, con l’oggetto rappresentato. Al contempo però, smentisce, proprio perché spesso ha bisogno di un’interpretazione a livello linguistico. Un’immagine ha sempre bisogno di essere letta e decodificata”. A commento del suo progetto, Morabito aggiunge che se il collage significa mettere insieme più situazioni tra loro differenti, allora questa è la tecnica migliore per far vedere qualcosa di ulteriore, per dire qualcosa in più. In questo caso, attraverso il dramma degli uliveti devastati dalla xilella si dà forma al lutto personale. Si sarebbe tentati di dire, allora, che in Flowers for telling you fuck off il rapporto diventa biunivoco e l’io in gioco è come se vivesse la devastazione ambientale nel momento in cui ne prende atto. Non c’è discrasia tra i due piani, quanto una perfetta continuità che riporta l’uomo all’interno del mondo naturale: il tutto – attenzione – attraverso l’utilizzo del medium digitale.
Il personale è politico
In Flowers for telling you fuck off il risultato visivo finale sono delle composizioni da intendere come innesti floreali potenziati, in grado di resistere sia alla devastazione sentimentale che a quella indotta dalla xilella. I fotocollage – recentemente in mostra presso LATTE Project Space di Faenza – sono quindi il correlativo oggettivo della simbiosi tra umano e naturale. Questa simbiosi, però, introduce anche un’ulteriore, sfumato, grado di lettura. Nonostante non sia autoevidente, è Morabito stesso a confessare che la questione dell’invisibile, che occupa un posto di rilievo nelle sue ricerche, “ha profondamente a che fare con un discorso politico”. Anche solo a livello di rappresentatività, c’è sempre un dibattito essenzialmente politico su cosa sia giusto raffigurare e come si debba farlo.
Nel caso specifico, non si tratta di arte strettamente engagé. Però, il solo porre all’indice determinati argomenti apre le porte a considerazioni di carattere socioculturale, economico, legislativo. La xilella, per esempio, ha tra le sue cause una scellerata politica agricola incentrata sulla monocultura degli ulivi, con conseguente scomparsa della biodiversità. Ma anche condizioni bioclimatiche anomale, complici il riscaldamento globale – altro iperoggetto – e la totale disaffezione ai temi ambientali da parte di chi dovrebbe governarci. Questo stesso ragionamento si potrebbe applicare anche ad altri lavori di Morabito, come per esempio Extraordinary Coincidences of Death, un lavoro sui ghiacci in via di sparizione iniziato nel 2019, che meriterebbe da solo un ulteriore approfondimento. Nondimeno, la stessa rottura sentimentale può avere relazioni con un discorso politico. D’altronde, Morabito ha spiegato che la fine della relazione è stata causata dalla prospettiva di allontanamento dovuta al trasferimento del partner in Giappone. Ma non è forse il sistema culturale occidentale di marca strettamente capitalista ad averci abituato a una standardizzazione dei rapporti interpersonali? Credere che le nostre decisioni personali siano totalmente indipendenti rispetto agli impulsi della società attuale è forse una soluzione di comodo. Probabilmente, nel modo in cui proviamo sentimenti o ci rapportiamo agli altri c’è davvero una variabile che dipende dal contesto economico, culturale, socio-familiare in cui viviamo. Gli esempi che si potrebbero fare sono molti. Si pensi all’influenza decisiva che i cambiamenti tecnologici ed economici hanno avuto nella creazione delle “società senza dolore” descritte di Byung-chul Han. O, ancora, allo stretto rapporto tra godimento contemporaneo e capitalismo, di cui parla Alfie Brown in Capitalismo & Candy Crush. Sia Han che Brown, pur centrando la loro attenzione su aspetti specifici del dibattio filosofico contemporaneo, mirano a illustrare come l’uomo non sia un’entità slegata dal contesto socio-politico che lo circonda, neppure a livello emozionale. È chiaro, quindi, che confidare ancora nell’indipendenza del sentire privato rispetto al sistema pubblico risulta essere una visione naïve. E proprio di questo aspetto sembra parlare il lavoro di Morabito.
In un’epoca dominata da (iper)oggetti spaventosi come il riscaldamento globale, che potrebbe ucciderci nel giro di pochi decenni, tornano quindi attualissime le parole di Carol Hanisch, quando diceva che “i problemi personali sono problemi politici. Non ci sono soluzioni personali in questo momento. C’è solo un’azione collettiva per una soluzione collettiva”. A questo proposito Morabito ammette di essersi interrogato a lungo in relazione alle possibilità della fotografia di incidere nel concreto sul reale. “Alla fine – spiega – mi sono detto che la soluzione migliore è smettere di preoccuparmi, perché forse anche il solo atto di mostrare, di porre all’indice alcune questioni è un gesto politico sufficiente, che ha in sé un suo valore”. È chiaro, quindi, come per Morabito non si possa parlare di arte che usa il politico, né di arte politica in senso stretto. Questo grado di lettura, però, è presente e possibile. È come se con un’abile mossa di décadrage, l’indagine venisse decentrata verso aree apparentemente marginali rispetto al testo prettamente politico. Quest’ultimo, però, vi rientra sottotraccia. La storia personale che sta alla base di Flowers for telling you fuck off inizia quindi a offrire aperture verso l’esterno, spunti di riflessione che coinvolgono il tessuto sociale, il rapporto uomo-natura, la nostra presenza come essere umani sulla terra.
“Solitamente lavoro attraverso degli spostamenti minimi – aggiunge Morabito. “Questi – continua – mi permettono di creare una sorta di vuoto, di mancanza, che rende visibile un certo tema e ci porta a interrogarci su quale sia il compito dell’artista”. Lui stesso dice che l’arte funziona diversamente dalla politica. In quest’ottica in cui la pratica artistica non corrisponde all’attivismo, una ricerca stratificata come quella di Morabito acquista ancora più valore. Di conseguenza, il messaggio sociale e politico non risulta diluito, quanto rafforzato e contestualizzato. Una bella lezione di economia rispetto a tanta retorica in cui soffocava, per esempio, il Padiglione italiano all’ultima Biennale. “La sfida – chiosa Morabito – è realizzare un prodotto che sia estetico ma anche pratico. È interessante notare come questo processo, nel mio caso, avvenga attraverso l’uso della fotografia, medium figlio del capitalismo e della necessità di produzione massiva in serie”.