“La fotografia è un modo per smettere di vedere qualcosa”. Questa frase del regista Wim Wenders – che alla fotografia dedica una buona quota del suo interesse – sintetizza e conferma che il colmo della fotografia è, cogliendo una scena, un soggetto, un istante, immortalarlo e intanto lasciarlo lì a dirci cosa non c’è più e cioè la vita che racchiude. Ma la fotografia è, paradossalmente, anche un modo per iniziare a vedere le cose nella loro essenza. La vita, intesa come quotidiana costellazione di frammenti nel suo fluire è densa di un substrato banalmente ovvio: gli eventi significano quando escono dall’ordinario. E cosa è ordinario, e con quali effetti la fotografia agisce sulla vita così come accade, nella sua quotidianità?
Sfogliando i libri fotografici di Guido Borso, viene da chiedersi se il rapporto tra ordinario ed extraordinario non sia da rivedere, nella scala dei valori.
Arianna Bonino: Guido, quest’intervista ci aspetta da qualche mese. La prima volta che ne abbiamo parlato, il mondo era un altro, poi le cose di ogni giorno, gli impegni, la vita, ci hanno portati un po’ in giro, dove hanno voluto loro, come sempre.
Finalmente oggi ci incontriamo. So bene che è da poco uscito il tuo nuovo libro fotografico With a little help from my friends, che ho goduto con entusiasmo, commozione, divertimento. Ma prima di tutto e come è giusto per comprendere il tuo viaggio, vorrei partire dai tuoi primi passi, soffermarmi sul tuo primo libro, Daily Dose, in cui hai scattato una mole imponente di foto di vita quotidiana, una sorta di blog trasposto in immagini. Anzi, Daily Dose nasceva proprio come un blog. Era il 2013. Quale scopo ha avuto quell’esperienza e quali effetti sul tuo successivo percorso?
Guido Borso: Ciao Arianna! Il blog nasce verso la fine del 2012 e dalla necessità di freezare un momento per me storico: era la prima volta che andavo a vivere con i miei due amici del cuore, ci trovavamo in quel punto della vita dove passi da essere un ragazzo ad essere adulto, dove per forza di cose devi iniziare ad assumerti delle responsabilità ma hai comunque voglia di fare casino, un momento “in-between” che emozionalmente parlando mi coinvolgeva sia fuori sia dentro.
AB: Sì, questo esubero di vitalità prorompe in effetti dalla fitte sequenze di vita di Daily Dose. Il mondo era davvero un altro, se penso anche a un altro dei tuoi lavori, From Russia with love, una photo-zine che è la documentazione di un tuo viaggio del 2011: con quale stato d’animo hai vissuto quell’esperienza?
GB: Con questa esperienza ho realizzato quanto il viaggiare sia importante, soprattutto quando il viaggio è legato alla musica – ottimo filtro che mi permette di infilarmi con rispetto nell’intimità dei posti e delle persone che trovo lungo il cammino. Qualche mese fa ero in Svezia dove, insieme alla band Golpe, per cinque giorni ho guidato il furgone e scattato fotografie.
La mia mission rimane sempre quella di realizzare fotografie non costruite e che raccontino nel modo più reale possibile l’esperienza che sto vivendo.
AB: Ecco, la musica: Il tuo mondo di immagini frequenta spesso l’universo della musica urbana: c’è una colonna sonora ideale per il tuo mood fotografico?
GB: Where am I? della band Title Fight.
AB: Sotto il profilo del metodo, quale prediligi e attraverso quale percorso sei arrivato alla tecnica più affine alla tua disposizione mentale?
GB: La fotografia è una lingua universale che tutti potenzialmente possono parlare ed è attraverso un metodo che si riesce a dare un carattere alla propria visione. Nel mio caso, il metodo mi è stato palesato da quello che mi trovavo davanti all’obbiettivo; io potenzialmente premevo “solo” il grilletto!
AB: È ormai chiaro che ti sposti in continuazione, il viaggio è sicuramente una dimensione che ti appartiene e ti permette di penetrare nuove realtà umane, per misurarti con la differenza tra mondi e individui: scegli le tue destinazioni in virtù dell’indagine fotografica che hai in mente, o attendi che sia il viaggio a parlarti e a chiedere di essere ritratto?
GB: L’attivazione fisica si trascina sempre dietro quella mentale e attraverso il viaggio (che non per forza dev’essere uno spostamento intercontinentale, basta anche andare nell’hinterland milanese). Il viaggiare attiva dentro di noi la curiosità e la voglia di esplorare, quindi se nella vita è normale investire le proprie energie in qualcosa in cui si crede, ecco, sono convinto che se metto il massimo che posso nel viaggiare, allora sono un grande investitore.
AB: Nel tuo lavoro, hai dedicato anche particolare cura a ritratti speciali: cosa rende autentico lo scatto di un volto, restituendo nell’immagine l’identità del soggetto?
GB: Nato e cresciuto a Milano dove esprimendomi con la fotografia la ricchezza estetica è un must, ho sempre trovato fascino nella semplicità e nell’umiltà delle persone e delle cose che fotografo. Quando fotografo una persona mi piace pensare che la macchina fotografica (che può essere il cellulare stesso) sia in realtà uno scopetto anti-polvere, e attraverso ogni scatto vado a togliere ciò che c’è di superfluo nell’individuo cercando di arrivare così all’essenza della persona che ho davanti.
AB: Come anticipavo, è recentissima la pubblicazione del tuo nuovo libro fotografico With a little help from my friends, con testi di Melina Mulas, per i tipi di Iuter editore. Personalmente sono rimasta molto colpita dall’autenticità e dall’umanità che connotano ogni scatto, ciascuno denso di materia umana viva e vitale, variamente declinata. È un lavoro che, ancora una volta, ha fortemente a che fare con gli spostamenti, il viaggio, la scoperta e anche la natura.
A fare da bacino e scenario hai scelto Bruxelles, Amsterdam, Berlino, Londra, Copenaghen: come hai realizzato il progetto e quale messaggio vuoi dare con questo lavoro?
GB: Come forse traspare dalle mie risposte, io fotografo non tanto per lanciare dei messaggi ma più per conoscere qualcosa che senza la fotografia non arriverei a conoscere. With a little help from my friends è per me una conferma che la fotografia è un’ottima miccia per far scattare pensieri e emozioni, sia in me che nelle persone che incontro.
Dopo qualche giorno che cambiavo divano da una casa all’altra, mi sono reso conto che la maggior parte delle persone che incontravo sul mio cammino fremeva nel raccontarmi le proprie emozioni: come sto in una città che non è la mia, la mancanza di amici, la difficoltà di approcciarsi al nuovo, i prezzi che sono troppo alti e via così.
Lì mi sono accorto che la fotografia è il perfetto conduttore tra me e il mondo esterno.
AB: Ti faccio un’ultima domanda, d’obbligo per chi ha scelto di narrare il reale: che rapporto hai con la letteratura?
GB: Nasco da una mamma regista e un padre filosofo. Allora la mia cameretta era ricavata nello studiolo di mio papà dove non si poteva appendere alcun quadro dato che tutti i muri erano occupati da librerie e innumerevoli dorsi di libri con titoli che solo a leggerli mi dovevo strizzare le sinapsi del cervello. Se mio padre ancora adesso, in pensione, è un feroce divoratore di libri, un topo da biblioteca, insomma, al contrario io ho sempre avuto l’istinto di scappare fuori e ogni volta che mi mettevo a leggere un libro mi addormentavo. Meglio di un sonnifero! Da diversi anni mi sto impegnando a cambiare questo rapporto per me imbarazzante, immergendomi in titoli sicuramente più semplici rispetto quelli che leggevo ogni volta che aprivo gli occhi durante l’adolescenza. Sono un grande fan dei libri di fotografia, ovviamente. Uno per tutti: Message from the interior di Walker Evans.
AB: E allora ti saluto proprio con alcune parole di Evans, che mi paiono perfette qui e ora:
Incidentally, part of a photographer’s gift should be with people. You can do some wonderful work if you know how to make people understand what you’re doing and feel all right about it, and you can do terrible work if you put them on the defense, which they all are at the beginning. You’ve got to take them off their defensive attitude and make them participate.
Nato nel 1990 a Milano, dove vive e lavora, dopo il diploma di maturità artistica, Guido Borso ha frequentato la scuola di fotografia Bauer e la Civica Scuola del Cinema. È attraverso la lente fotografica che indaga e conosce il mondo, con l’idea di puntare il suo obiettivo sugli individui, la società, l’umanità nel suo quotidiano, sulla capacità – o meno – di integrarsi nel sociale, con una particolare attenzione al riverberarsi di tali interazioni nella sfera emotiva.
Attualmente lavora come fotografo freelance e i suoi scatti sono stati pubblicati su D-la Repubblica, Rivista Studio, Vision, Flash Art, Grossomondo, Vice e altre riviste underground e commerciali. Numerose le sue partecipazioni a mostre in Italia e all’estero.
All images: courtesy of Guido Borso