Non è semplice introdurre l’intervista che state per leggere. Non è nemmeno facile rendere conto dell’intensità straripante con cui, durante l’intervista, Yasmine Jarba ci portava le sue riflessioni. Ci eravamo promessi di non eccedere nel far ruotare l’intervista intorno ai temi della cronaca stretta, e di dialogare con l’artista in quanto artista, cercando di entrare nelle sue pratiche creative. A posteriori, ciò che emerge con chiarezza è l’esistenza complessa di una trama artistica, che, come ci sentiamo di sostenere e di praticare come rivista (e prima ancora come redazione), è inestricabile dalla materialità del reale, dal politico. Parlare di identità dell’arte palestinese, come fa Jarba, non significa legare i prodotti artistici ad uno spirito nazionale in senso idealistico: significa invece esplicitare delle radici empiriche, materiali, che permettono lo sviluppo di un habitus. Jarba parla della volontà comunicativa, di una voce piena di forza che cerca gli spazi e le orecchie per farsi sentire. E noi abbiamo provato ad ascoltare.
Intervista a Yasmine Jarba – a cura di Matteo Cristiano e Gianmarco Gronchi
G.G. – Innanzitutto vorremmo sapere qualcosa in più su di te: vuoi raccontarci la tua storia e come hai deciso di stabilirti a Milano?
Y. J. – Mi chiamo Yasmine e vengo dalla Striscia di Gaza, dal campo di Al-Bureij. Sono un’artista e un’insegnante all’università. Ho una formazione in studi educativi, ma lavoro come artista da cinque anni. Ho frequentato molti corsi per approfondire la mia pratica artistica con artisti famosi a Gaza. A 30 anni sono venuta in Italia per presentare il progetto della Casa delle donne di Gaza come artista. Abbiamo fatto un viaggio in molte città d’Italia e in quel periodo ho iniziato a cercare una borsa di studio per l’arte qui. All’epoca cercavo borse di studio presso scuole in Gran Bretagna, Norvegia e Stati Uniti, non in Italia. Quando sono arrivata qui, mi sono detta che forse sarebbe stato più facile trovare una borsa di studio in Italia. Ho trovato un’opportunità alla Naba, ma la borsa di studio non copriva tutte le spese di iscrizione. Ho cercato di raccogliere un po’ di soldi, ma poi mi hanno detto che avevano un’altra borsa di studio completa e che potevo fare domanda. Dopo una settimana, mi hanno chiamato e mi hanno detto che ero stata selezionata. Ho avuto molti problemi per ottenere il visto a Gaza, perché la situazione è pessima. Bisogna inviare il passaporto e i documenti a Gerusalemme e ci vuole una settimana per controllarli. Dopo due settimane, decidono se restituirti tutti i documenti con il visto o meno. Dopo questo passaggio, a Gaza, hai un’altra difficoltà: ovvero come uscire da lì. Così sono andata in ufficio. Tutti vanno lì per prendere un appuntamento, e ci possono volere più di tre mesi per prenotarne uno – dipende dalla situazione. Poiché sono una studentessa, il processo è stato più veloce, ma poi mi hanno dato un appuntamento per uscire da Rafah e andare in Egitto il 7 ottobre. Tuttavia, quella data era troppo tardi e ho dovuto partire prima. Alla fine, sono riuscita a partire il 2 ottobre e a volare a Milano. Qualcuno potrebbe dire che sono fortunata.
M.C. – Io penso che tu sia fortunata, non credi?
Y. J. – Lo sono? Forse, ma non credo. Non sono felice. Dopo una settimana in Italia, il 7 ottobre è scoppiato il conflitto. Quando mi sono svegliata, mi sono sentita molto male perché il primo giorno hanno detto di aver liberato la Palestina, e io non c’ero. Ma poi gli israeliani hanno iniziato a comportarsi in modo criminale per compiere un genocidio contro il nostro popolo. Siamo al quarto mese di guerra aperta e chiediamo solo un cessate il fuoco. Per me la situazione è inaccettabile perché ogni giorno ascoltiamo degli attacchi dell’esercito israeliano. Sono venuti a distruggere i nostri villaggi e le nostre città, hanno ucciso dei civili. Non è la prima volta che assistiamo a questo. La mia gente è costretta a vivere nelle tende in questo momento. Mi chiamano ogni volta. Non hanno cibo da mangiare e hanno molte malattie. È terribile per loro.
M. C. – Da un certo punto di vista, potresti essere fortunata ad essere in Italia. Come ti senti qui? Cosa senti rispetto al supporto a Gaza e al popolo palestinese?
Y. J. – Apprezzo il sostegno degli italiani alla nostra causa. Ho partecipato a molti eventi dall’inizio del conflitto e ci sono molte persone che si interessano alla situazione in Palestina. Sento che comprendono la situazione e dimostrano affetto per i palestinesi. Le persone devono avere la libertà di pensiero e non seguire solo la propaganda del governo. Penso anche che non ci sia una via di mezzo, o si è con noi o contro di noi, e molte persone qui hanno preso la nostra parte. Dicono che i palestinesi hanno il diritto di difendersi. Come sapete, questa non è la prima guerra a Gaza. Abbiamo sofferto molto per 75 anni. Non possiamo soffrire ancora a causa di Israele.
M. C. – E cosa significa fare arte a Gaza?
Y. J. – A Gaza è molto difficile lavorare. Cerchiamo di creare molte opere d’arte e di esporle il più possibile, ma la situazione è difficile. Anche quando si ha un’opera bella, è difficile trovare uno spazio per mostrarla. Credo che gli artisti palestinesi abbiano un messaggio nel loro cuore e vogliano mostrarlo al mondo. A Gaza, viviamo sotto assedio da 17 anni. Siamo cresciuti con la guerra, con questa escalation di violenze. Per questo motivo, anche quando vogliamo disegnare qualcosa di bello, anche quando creiamo arte, dobbiamo affrontare questa situazione. Le nostre opere sono radicate in Palestina. Parlano della Palestina, e non potrebbe essere altrimenti. Come potete immaginare, la scena artistica a Gaza è completamente diversa da qui. Abbiamo solo una o due fondazioni artistiche in Palestina. Abbiamo solo un’università che insegna arte. E se vuoi conseguire una laurea magistrale, non hai possibilità perché non abbiamo questo tipo di corso nelle nostre università. Inoltre, la maggior parte delle persone vuole semplicemente vivere la propria vita, avere cibo e un buon stipendio per sfamare i propri figli. Non si preoccupano dell’arte perché hanno priorità diverse.
G.G. – Ho visto dal tuo portfolio che lavori con differenti medium: ci piacerebbe sapere come gestisci la combinazione delle differenti pratiche.
Y. J. – Essendo un’artista, voglio provare tutto. Ho imparato l’arte a Gaza, e questo ha influenzato molto la mia pratica. Ogni volta scelgo il mezzo giusto per trasmettere il messaggio alle persone. Mi piace la fotografia, ma a volte, ad esempio, l’utilizzo della video-art potenzia il messaggio. Dipende dal progetto, e a volte mescolo i medium. Penso che questo faccia parte del modo palestinese di fare le cose, che è leggermente diverso da come avviene al di fuori di Gaza.
G. G. – Da quanto posso vedere, tutti i tuoi lavori sono legati alla condizione del popolo palestinese. Pensi che la tua arte sia principalmente legata alla situazione politica a Gaza?
Y. J. – Penso che la mia arte non tratti di politica in modo diretto. Riguarda più le nostre speranze e i nostri sogni. Posso esprimere questo nella mia opera. Il mio obiettivo è far conoscere alle persone ciò che voglio fare nella mia vita. Naturalmente, la maggior parte delle opere realizzate dagli artisti palestinesi riguarda la situazione a Gaza. Ho vissuto a Gaza, e non ho avuto una vita normale come le persone al di fuori. Perciò, in ogni dipinto ho una storia da raccontare, per rendere le persone consapevoli di cosa significhi vivere così. Quando inizio a dipingere, voglio inviare un messaggio. Un messaggio forte. Voglio usare l’arte come strumento per condividere questo messaggio. L’unica cosa che gli artisti palestinesi possono fare per il loro paese è mostrare al mondo la situazione.
G. G. – Credo che uno dei migliori progetti che hai realizzato sia Dark City. Puoi raccontarci qualcosa in più?
Y. J. – Dark City è un progetto che tratta di cosa significhi vivere senza elettricità. A Gaza, spesso non c’è corrente elettrica. A volte i blackout durano più di venti ore. Dark City è un progetto che riguarda i nostri sentimenti senza elettricità. Bevo una tazza di tè al buio. Ascolto la musica senza luce. E ogni volta che stai fuori fino a tardi, cammini per le strade senza luce. Puoi avere solo il tuo telefono. Volevo mostrare quanto sia difficile svolgere attività normali senza elettricità.
G. G. – Attualmente sono al Royal College of Art a Londra. Ci sono sia studenti palestinesi che israeliani qui, anche nella mia classe. Da un lato, vedo ogni giorno la brutale uccisione dei palestinesi. Dall’altro, devo anche relazionarmi con gli israeliani che hanno perso amici e parenti durante l’attacco di Hamas. È una posizione molto delicata perché so cosa è in gioco e cosa significa in termini di vite umane. Sostengo la pace, non la violenza, ma è molto difficile mediare quando le cose si intensificano così rapidamente. Mi chiedo cosa pensi tu riguardo ai civili israeliani che hanno subito perdite a causa di Hamas. So che ci sono molti israeliani che non sostengono il loro governo. Per coloro di noi che non hanno mai vissuto una situazione del genere, è piuttosto difficile capire cosa fare.
Y. J. – Quando sono andata alla prima lezione, c’era una ragazza da Tel Aviv. Ma dopo una settimana ho capito che non potevo stare nello stesso posto con lei. Non voglio cambiare il mio corso di laurea magistrale, ma non posso stare con un’israeliana. Forse è perché sono palestinese, ma ogni volta che penso al mio popolo e alla mia famiglia, mi sento in colpa se mi siedo o sto nello stesso posto con questa ragazza. I miei amici e la mia famiglia mi hanno consigliato di non parlare con lei. Hanno detto che potevo semplicemente ignorarla e concentrarmi sul mio obiettivo. D’altro canto, alcuni altri amici mi hanno detto che potrebbe essere una brava persona e che potrebbe non sostenere il suo governo. Ma poi penso che loro vivono nelle nostre città, mentre io ho vissuto in un campo profughi. Vogliono la pace, ma allo stesso tempo occupano il nostro vecchio territorio. Come palestinese e come ragazza, non mi sento a mio agio. Non voglio parlare con queste persone. Non posso proprio stringere la mano a loro e dire che saremo sorelle. Per me è impossibile accettare questa situazione.
Nata nel campo di Al-Bureij, l’artista di Gaza Yasmine Jarba è specializzata in pittura astratta, installazioni e fotografia concettuale. Concentrandosi sull’autoapprendimento, ha acquisito padronanza di diverse discipline creative e ha partecipato a mostre e festival locali e internazionali.