Lettera a N.
I.
Le sette. Vago nel monito
del tramonto, nel tuorlo d’uovo
degli innamorati. Quattro di me
e nessuno, sugli specchi della stazione.
Si sorprendono tra loro, fanno facce
di chi non sa, non sa nulla di che sta accadendo.
(Ma non accade nulla, dico, e allora se ne vanno.)
Mentre lui arriva da dietro, con le rose rosse
comprate per l’occasione. Lei attarda,
l’agguanta nel desiderio come l’artiglio
del falco la sua biscia. Ed ecco lo storpio,
come sempre, viene vicino, chiede qualcosa,
un regalo, qualcosa, una moneta, qualcosa.
Ma non è il tempo, questo, non è il tempo
mai, vattene via. Vattene dal mondo.
E io vorrei un giorno, vorrei. Come questo.
Un giorno che non sa se stesso, un altro
giorno come questo, e altri cento di questi giorni
ancora. Un giorno vorrei, tra i papaveri dove
la luna è la luna, il sangue è il sangue,
la Terra galleggia davvero nel suo cosmo,
e io sia non nulla, non nessuno ma
qualcosa.
II.
Amarti persino, come si ama una cosa viva.
Fare gli esperimenti di genetica, con te, mettere
insieme il carbonio, il fosforo, gli elettroni.
Si potrebbe, forse, essere così ottusi
da fingere di avere un corpo. Toccarlo
e dire «immagina che sia per sempre», e non
soltanto un pezzo di carne già in scadenza,
da discount, a metà prezzo.
E allora ti faccio reliquia, archeologia, crocifisso,
casa sventrata dall’uragano, dal terremoto,
campo appiccato dal fulmine, tegola
crepata dal tuono.
III.
(So predire il futuro, lo sai. Mi hai visto farlo. Ti spaventa? Ho questa figura incagliata negli occhi come un’alga nei denti dell’alligatore. È nera, la Sconosciuta, e ogni notte mi guarda dormire dalla finestra. L’ho vista la prima volta a otto anni e non è più andata via. Ma se mi dormi accanto, non è che desista, ma si fa più prudente, sì, più discreta. La sto inventando? Temo di no. So che dovrò crederle prima o poi, è questione di anni, o mesi, o giorni, o ore. Poteva essere stanotte, se non mi fosse venuta la lucciola di scrivere, senza motivo. Provo a ritardare il momento, a scoraggiarlo, tento di sconfortare il destino, a farlo desistere come un bambino davanti alla sua caramella.
Immagina, per un momento. Pensa che. Convinciti del fatto. Il presente, un lago chiuso da due rive. Noi da una parte, lei dall’altra, lontanissima, invisibile. Si potrebbe star tranquilli, se non fosse. Se non fosse che le basta intingere un dito nell’acqua per farmi arrivare decine di piccole onde sotto gli occhi, e allora so, allora ricordo che è lì. È lì. È lì.)
Poi, un meravigliarsi
La posizione conoscitiva di Scaramella in questo inedito è quella del solipsismo incredulo, l’immersione nella visione impossibile di essere qui, già abbastanza difficile da credere per costituire un’eccedenza, una commozione di fondo. L’hardware di questa poesia è, almeno dalla prospettiva di una certa tradizione, classico: il Tu istituzionale, lo scarto analogico, il talismano, la costante tensione verso la profezia e la visione ma, come potrebbe essere altrimenti oggi?, senza mai affidare un peso conoscitivo alle produzioni dell’oracolo “di chi non sa”. C’è un divario fra l’intensità emotiva dell’esperienza esistenziale, così materica, e l’incapacità di produrre su questa base una solidità di senso, un’identità credibile. Il giorno “che non sa sé stesso” (I) è una rarità si verifica al di fuori del lavorio mentale e contemplativo, è l’appagamento di un desiderio di radicamento che, così scontato in altri contesti, qui è possibile solo tramite uno sforzo – oltre la percezione del nonsenso e dentro invece il nonsenso di una vita qualunque, fino al collo, senza fare domande. Non è di questo che si tratta? “Fare gli esperimenti di genetica”, “essere così ottusi / da fingere di avere un corpo” (II), ricostruire un’ingenuità con la dimenticanza, aggrapparsi all’amore, alla genitorialità, alla “reliquia” dell’altro. Questo caos tutto percepito e indimostrabile è inventato? “Temo di no” (III), perché dall’abitacolo della prima persona ogni elemento esperito è evidente: c’è un’immagine “Sconosciuta”, sovrastante e onnipresente, che minaccia di far saltare ogni attaccamento e ogni coincidenza, riportando il soggetto in una contemplazione distante del grande calderone materiale, estromettendolo da quel sé che è “non nessuno ma / qualcosa”. Al di là del salto nel vuoto del credere alla propria vita, dell’amare, c’è l’horror fati, il non potersi salvare dalla Sconosciuta, con o senza N.: “è questione di anni, o mesi, o giorni, o ore”.
Damiano Scaramella è nato a Palestrina (RM) nel 1990 e dal 2011 vive a Milano. Nel 2013 ha vinto il Premio U29 del PoesiaFestival di Modena e nel 2016 il Premio internazionale Città di Como. Suoi testi sono apparsi su riviste cartacee e online tra cui «Nuovi Argomenti» e «La Stampa», e nel Quadernario. Almanacco di poesia contemporanea (LietoColle, 2016). Ha fondato con Tommaso Di Dio, Giuseppe Nibali e Fabrizio Sinisi il progetto editoriale e culturale «Ultima». Tra le sue pubblicazioni, Mentre tutti entravamo (Print&Poetry, 2017) e Ora ti racconto un sogno che hai fatto (in «Nuovi Argomenti», Mondadori, Milano 2019, n. 2).
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