Metamorfosi granchiesche tra cinema e letteratura

Crostacei e archetipi letterari

Dei libri restano a volte impresse alcune immagini e passaggi del tutto secondari, ma che risuonano con te e solo per te, così tanto che tutta la memoria di quel libro sarà condensata, per te, in quella immagine. Per me La Nausea di Sartre è l’uomo-granchio. Appare quasi a inizio libro e fissa dei ragazzini che giocano al parchetto. Il disturbo ambiguo che questo provocava loro viene incarnato nei suoi ‘occhi da pesce’, e nei suoi ‘pensieri da granchio o da aragosta’. Però nelle prime righe, di quest’uomo si dice anche essere superiore a tutti per elevazione spirituale. Appena due righe più sotto invece ha l’aspetto di un grottesco adescatore di bambini. Coglievo il senso dell’immagine e mi sembrava calzante, ma in quel modo antico e evocativo che con cui si costruiscono alcune visioni letterarie, senza che siano sorrette da alcuna logica. Cosa sarebbero dei pensieri da granchio? E perché proprio da granchio? Avevo letto poi in diversi articoli che Sartre era ossessionato dai granchi, li sognava la notte, e La Nausea non è l’unico testo in cui il crostaceo viene usato per descrivere un certo tipo umano. Poi però è apparsa un’altra metafora granchiesca nel film Re Granchio, e un’altra in The Lobster, e a dire il vero crostacei antropomorfi si trovano sparpagliati nel nostro patrimonio visivo un po’ ovunque, da Dr. Zoidberg in Futurama al Davy Jones in Pirati dei Caraibi. E poi c’è un saggio dell’antropologo Stefano De Matteis che è Il dilemma dell’aragosta: la forza della vulnerabilità. Fino a qui, sembra tutto un caso, ma quello che importa è che tutti i caratteri che vengono descritti per mezzo degli attributi di crostaceo, di fatto, si somigliano. Il titolo del libro di De Matteis, sintetizza almeno uno dei due punti che legano tutti questi granchi e aragoste, riportandoli, forse, a un unico vecchio archetipo letterario.


Un personaggio è l’incarnazione di certi caratteri e certi spiriti del tempo a cui appartiene. Fino ad un determinato momento, e soprattutto nel romanzo europeo, ‘il protagonista’ si configura, in declinazioni diverse, come un eroe. Che sia del tutto guerresco, o furioso, o santo, o innamorato, lo distingue una missione superiore, una reminescenza epica guida il suo carattere e il suo agire nella trama. Una particolare revisione dell’archetipo dell’eroe avviene poi nel tardo Rinascimento. In Amleto, che è opera emblematica di questo passaggio, solo il padre risponde al tradizionale ideale eroico, manifestandosi però come un’ombra, mentre Amleto è dominato dalla perpetua riflessione che manifesta l’inesattezza del suo attivismo epico. Tipicamente tra il tardo Ottocento e i primi del Novecento compaiono le rappresentazioni di eroi in conflitto con l’ambiente o con la società in generale, inclini alla malinconia, alla rassegnazione o alla ribellione demoniaca. Elementi di ‘demonismo’, che manifestano un dolore cosmico, ‘la malattia del secolo’, sono legati all’impossibilità della realizzazione, nel proprio tempo storico, della radice epica, della perdita cioè di una posizione centrale nel mondo. La completa de-eroicizzazione, la tendenza alla rappresentazione di un eroe spersonalizzato, vittima di isolamento, e la sua trasformazione in maschere sostituibili, finisce poi per fondere insieme i caratteri sia dell’eroe che dell’antieroe. Il crollo del mondo oggettivo e della frammentazione delle cose appare evidente nella Nausea di Sartre, dove le ‘cose’ sfuggono all’uomo e contemporaneamente gli si avvicinano in modo invadente, e così le qualità del mondo esterno e l’interiorità̀ finiscono con l’indifferenziarsi. 


Sartre, Re Granchio, Mc Ewan e Lanthimos

Per valutare le corrispondenze e le costanti, riporto il paragrafo incriminato da La Nausea di Sartre, perché qui, subito, compaiono i motivi precisi che ritorneranno poi, separati, negli altri testi-immagini presi in esame.

Eccolo in apertura del La Nausea, il tipo dagli occhi di pesce, con pensieri da aragosta e da granchio, a supporto dell’immagine di un uomo viscido, sciatto e isolato, a detta dei bambini. Tuttavia la sua esclusione sociale gli conferisce anche una veste eroica, ovvero lo eleva, in quanto diverso, in quanto persona al di sopra della moltitudine gioiosa e ragionevole. Questo individuo sembra così essere costituito di due nature coesistenti, due facce opposte di una stessa medaglia. Solitario e quindi strambo, potenzialmente pericoloso, e poi solitario perché saggio, anticonformista. Il secondo aspetto rimanda ad un archetipo piuttosto riconoscibile: il matto con capacità profetiche e visionarie («occhi di pesce che sembrano guardare al di dentro2»), un genio-eremita, insomma un uomo reso acuto dalla mancanza delle urgenze del quotidiano quanto da una vasta possibilità di solitudine che si converte in attività speculativa. 


Molti anni dopo, nel 2021 esce nei cinema Re Granchio, film diretto da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. Il protagonista, interpretato da Gabriele Silli, si chiama Luciano e vive in un borgo della Tuscia nel tardo Ottocento. Figlio dell’alta borghesia del luogo, è un uomo nervoso e alcolizzato, ribelle senza causa, porta avanti una lotta ideologica verso l’arrogante principe del borgo senza però riuscire a coinvolgere la comunità che lo considera un disadattato, il matto del villaggio. Ripudiato dalla sua classe di appartenenza, si rifugia tra i contadini che pure non comprendendo il suo stile di vita (non lavora!). Infine, costretto alla fuga dopo aver appiccato un incendio, Luciano ricompare, molto tempo dopo, nella Terra del Fuoco, in Argentina. Qui, come in un viaggio di iniziazione, si compie la seconda parte della sua epopea solitaria, quella profetica: lo ritroviamo infatti nei panni di un prete, a vagare per lande e spelonche desolate in un cammino ascetico, allucinogeno, costellato di incontri simbolici. Nella storia di Luciano si proietta quindi la funzione-personaggio positiva dell’uomo-granchio sartriano: il visionario eremita che, come ogni messia che si rispetti, deve venire preventivamente ripudiato dalla sua cultura di appartenenza. 


La ‘pars destruens’, sinistra e degenerata, è invece meno facile da riportare ad un modello archetipico. Cosa sarebbero i “pensieri da granchio o da aragosta”, e chi li produce? L’unica caratteristica nota di questo secondo carattere, in comune con la sua altra metà, è quella della solitudine, traducibile anche con: essere un single. Torniamo allora al ricordo d’infanzia descritto dal protagonista della Nausea: i bambini si ritrovano a giocare ai giardini mentre l’uomo-granchio si siede nei pressi, appoggiato contro la cancellata che costeggia via Auguste Comte e li fissa. Il piccolo Antoine Roquentin e i suoi amichetti ne hanno terrore perché percepiscono che è solo: un’altra storia moderna potrebbe allora venirci in mente perchè ribadisce il motivo dello sguardo dei bambini, tuttavia in una prospettiva ribaltata, dal punto di vista del ‘granchio’ disadattato. Farfalle, racconto breve di Ian Mc Ewan, ha per protagonista ancora un uomo socialmente isolato. Ha passato tutta la vita a casa della madre per poi trasferirsi in un sobborgo di Londra, accanto al canalone marrone che scorre tra fabbriche e relitti industriali. Morta la madre, si ritrova senza alcun rapporto umano se non col vecchio meccanico che ripara auto davanti al suo isolato. La sua solitudine di certo non lo porta a uno stato di elevazione, ma solo a una spirale di pensieri morbosi e folgorati che riempiono le sue giornate tutte uguali. Inoltre qualcosa del suo aspetto sembra già predestinarlo ad una vita da emarginato, come avveniva per l’uomo crostaceo ai giardini di Lussemburgo: «In me collo e mento fanno un tutto unico, e questo ispira diffidenza. […] Alle donne il mio mento non piace, non mi vengono mai vicino3». Mc Ewan incentra poi il racconto sull’attenzione e sul confronto paranoico che l’uomo (non si sa il nome) riversa su un gruppo di bambini, proiettando rancori e aspettative passate. Dopo aver conquistato la fiducia di Jane, una bambina di nove anni, l’uomo la convince ad accompagnarlo in una passeggiata lungo il canale, al termine del quale, le promette, si sarebbero potute incontrare delle bellissime farfalle colorate. «Ero contento che lei fosse sinceramente interessata a me, e poi mi sentivo attratto da lei. Volevo che fosse mia amica. Ma sulle prime mi sentivo a disagio. Mi camminava subito dietro, giocando con le sue palline, e, per quel che ne sapevo, mi faceva le boccacce alle spalle, come mi fanno tutti i bambini4». In realtà l’epilogo è un po’ diverso: per tutti i chilometri lungo il canale, oltre le fabbriche, oltre le ultime case, i pensieri di frustrazione sessuale dell’uomo si scagliano verso quella bambina, l’unica ad avergli rivolto attenzioni gentili e ad essersi fidata di lui come si farebbe con un adulto ‘normale’. Jane viene violentata e lanciata in acqua. «— Sciocchina, — dissi, — non ci sono farfalle — La sollevai dolcemente, il più dolcemente possibile per non svegliarla, e la calai piano nell’acqua del canale5».

In Farfalle l’uomo emarginato dal mondo adulto riversa le sue attenzioni su quello infantile e questo fa di lui, fondamentalmente, un pedofilo. Ciò non significa che l’uomo descritto da Sartre che fissa i bambini sia necessariamente un pedofilo. Ma un accostamento tra i testi permette di ipotizzare per quale ragione, nell’immaginario collettivo, la solitudine abbinata all’interesse degli adulti verso i bambini (anche la loro sola presenza nello spazio dei giochi) terrorizzi questi ultimi, e permette di ipotizzare che cosa siano allora i pensieri da granchio o da aragosta. In ogni caso, il timore di Roquentin di poter un giorno diventare anche lui un solitario che spaventa i bambini, effettivamente si realizza. Si trasformerà in granchio in occasione della sua prima crisi di nausea, durante un pranzo con l’Autodidatta. La metamorfosi viene descritta a partire dal senso di nausea, di vertigine, prodotta a sua volta da un vissuto di derealizzazione, un’improvvisa voragine di senso che trascina giù le convenzioni sociali, i codici e le funzioni fino a inghiottire lo stesso Sé: «faccio dunque paura, in questo momento? […] sento che potrei fare qualunque cosa. Per esempio affondare questo coltello da formaggio nell’occhio dell’Autodidatta. […] guardano la mia schiena con sorpresa e disgusto; credevano ch’io fossi come loro, che fossi un uomo ed io li ho ingannati. D’un tratto, ho perduto la mia apparenza d’uomo ed hanno visto un granchio che fuggiva a ritroso da quella sala così umana6». 


Questa terza occorrenza della metamorfosi granchiesca permette di individuare un ulteriore discendente narrativo: si tratta di David, protagonista del film The Lobster (2015) di Yorgos Lanthimos. In una realtà ben poco distopica, essere single è un crimine. A chi non trova un compagno viene concessa come ultima chance quella di trascorrere un periodo di tempo presso una pensione con altri single tra cui possibilmente trovare un partner compatibile. Se ciò non accade, si viene trasformati in un animale a scelta, che nel caso di David si tratta, ovviamente, di un crostaceo (un’aragosta). Il motivo della solitudine è qui portato alle estreme conseguenze. Se per Roquentin, per Luciano e anche per il pedofilo, il dramma si attuava nel sospetto e nel timore sociale che sembrano suscitare, per David vi è una definitiva squalifica, giuridica e legale, dal mondo civile. Tuttavia David, interpretato da Colin Farrell, per un momento sembra trovare l’anima gemella nella donna interpretata da Rachel Weisz, ma solo in quanto condividono lo stesso difetto: la miopia. Quando la donna viene resa cieca, l’interesse di David scema drasticamente. Quindi veniamo alla scena finale del film dove David e la donna cieca sono seduti al ristorante una di fronte all’altro. Lui afferra un coltello, considera di poterselo cacciare nell’occhio per ristabilire una condizione di uguaglianza con la compagna, ma il film termina su un finale aperto. Oltre ad apprezzare il rimando iconografico piuttosto puntuale con la scena di Roquentin che al ristorante vuole cacciare un coltello nell’occhio dell’Autodidatta7, la conclusione porta a ipotizzare che se David si accecasse per amore della donna, potrebbero insieme reinserirsi nel mondo civile, mentre se non lo facesse, sceglierebbe di trasformarsi per sempre in un crostaceo solitario.


Il vischioso disgustoso


Gli accostamenti testuali presentati non hanno funzione dimostrativa in quanto non si appoggiano su citazioni reciproche esplicite, ma puntano piuttosto a offrire una proposta interpretativa che generi significati ulteriori per rispondere alla domanda: perché questi crostacei, granchi e aragoste, ricorrono nelle rappresentazioni letterarie e cinematografiche per certi specifici personaggi? Consideriamo allora le qualità materiali di cui è fatto un granchio, perchè il capostipite dei nostri crostacei, Antoine Roquentin, discende dall’ universo filosofico di Sartre dove la materia è rivelatrice dell’essere, ovvero, dove si racconta la scoperta dell’assurdità umana attraverso il rapporto con la materia. Roquentin non ha disgusto nel mettere le mani negli impasti viscosi, ma è sconvolto dal toccare un ciottolo. Prova una nausea, nelle mani, per il tangibile. Il filosofo ci presentava così un personaggio che, nell’ordine dell’immaginazione materiale, non potendo accedere al ‘solidismo’, non avrebbe mai potuto mantenere nella vita un’attitudine ferma e integra, rimanendo agli occhi del mondo comune un paranoico reietto. E dunque la mollezza che può essere anche una qualità ontologica e una postura morale viene sintetizzata nella polpa del crostaceo: un’essenza molliccia, nascosta dall’ esoscheletro in perenne transizione. Il molliccio, come la vischiosità «si rivela subito come simbolo di un antivalore; cioè di un tipo di essere non realizzato, ma minaccioso, che assilla la coscienza come il pericolo costante che essa fugge8».


È proprio sulla particolare relazione con il vischioso che Sartre si confronta nell’ultima sezione de L’Être et le néant (1943), in quanto rivela tutta l’essenza dell’individuo attraverso i desideri e le intenzioni da esso suscitate, attraverso un meccanismo di rispecchiamento. Specificando, però, che questa metafisica del materiale non parla di una corrispondenza a priori: la relazione con la materia rivela non ciò che si è, ma un desiderio e una volontà di divenire. Con le parole di Sartre, «il progetto di essere9». In questo caso, di essere mollicci e rivoltanti, di non stare dritti e di non essere retti, se la rettezza è quella delle convenzioni civili.  Per effetto specchio, repulsione e disagio sono il sentire di chi incontra il vischioso, proprio in virtù della prossimità: «si rivolge a noi e ci mostra la lingua qualcosa di privo di cura, che, mentre brama il nostro essere, attesta col suo ghigno beffardo la nostra incancellabile affinità con questa roba perversa10». Parla qui Aurel Kolnai dell’incancellabile somiglianza tra il disgustato e il disgustoso, in un’esperienza in cui il disgustoso appare nella sua intima essenza: vita che annuncia in sé un’intenzione di morte. E così si può pensare che per i nostri crostacei la degradazione sia una scelta infondo vitalistica e libertaria, e che per questo deve passare per la diversità e l’emarginazione: perché, più radicalmente, lo scomodo monito del ‘disgustoso’ sta nel fatto che rispecchia l’umana inconfessabile intenzione di morte: «la vita – la nostra stessa vita– è intrinsecamente desiderio di morte e, per ciò stesso, sempre pronta alla decomposizione11».

  1. J.P. Sartre, (1938), La Nausee, Paris: Gallimard; trad. it. La Nausea, Torino: Einaudi, 1948, pp. 23-24
  2. Ibid.
  3. Ivi p.55
  4. I. Mc Ewan, Primo amore, ultimi riti, Torino: Einaudi, 1979 pp. 57-59
  5. Ivi, pp. 64-65.
  6. J.P. Sartre, Op. Cit. 1938, pp. 260-262.
  7. Seppure nessuna esplicita intertestualità è presente.
  8. J.P. Sartre, (1964) L’essere e il nulla, trad. it. di G. Del Bo, Milano, Il Saggiatore, 2014, p. 657.
  9. Sartre, J.-P., L’être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Parigi, Gallimard, (1943) 2019. Sartre, J.-P., L’essere e il nulla, tr. it. di G. Del Bo, Milano, Il Saggiatore, (1964) 2014, p. 642.
  10. A. Kolnai, “Der Ekel”, Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, X, 1929, p. 555. trad. it. di Marco Tedeschini.
  11. Ivi, pp. 558-559

Apparato iconografico a cura di Chiara Scaglioni


Bibliografia e filmografia

Bachelard, G., L’eau et les rêves. Essai sur l’imagination de la matière, Paris, José Corti, 1942.

De Matteis, S., Il dilemma dell’aragosta: la forza della vulnerabilità, Milano: Meltemi, 2021.

Kolnai, A., “Der Ekel”, Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung, X, 1929, trad. it. di Marco Tedeschini.

Lanthimos, Y., The Lobster, 2015.

Meletinskij, E. M. (1994) O literaturnych archetipach, trad. it Archetipi letterari, Macerata, EUM, 2016. 

Mc Ewan, I., Primo amore, ultimi riti, Torino: Einaudi, 1979.

Rigo de Righi, A. e Zoppis, M., Re Granchio, 2021.

Sartre, J.P., (1938), La Nausee, Paris: Gallimard; trad. it. La Nausea, Torino: Einaudi, 1948.

Sartre, J.P., (1964) L’essere e il nulla, trad. it. di G. Del Bo, Milano, Il Saggiatore, 2014. 

Tedeschini, M., “At a Spit’s Distance”: Disgust and Fear in Aurel Kolnai and Jean-Paul Sartre, Itinera, N. 12, 2016.


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