Sono nata 4 giorni dopo la dissoluzione del più folto partito comunista d’Occidente, sono nata all’imbrunire dei grandi movimenti di piazza e dell’abitare il ‘noi’. Probabilmente anche voi siete nati e nate alla fine della politica di massa. C’ero io, c’eri te, c’era lui e lei ma il pronome personale plurale ci ricomprendeva.
Forse per questo mi sento un’impostora quando mi ritrovo in situazione nelle quali si indulge nella nostalgia di periodi storici che non sono i nostri: pochi giorni fa, al concerto dei CCCP qui a Bologna, nel momento in cui è stata sventolata sul palco la bandiera del PCI ho sentito il cuore straziarsi: non mi sono esaltata, non ho battuto le mani, non ho saltellato. Mi sono quasi messa a piangere – sì, sono proprio di compagnia ai concerti – e ho provato solo un’indicibile tristezza perché quel vessillo, per me, è un significante svuotato.
Tutto il contrario di GKN – che è un significante pieno.
GKN, casa
I giorni prima del cinque aprile non vedevo l’ora che arrivasse il cinque aprile: da qualche settimana, con chiunque mi capitasse a tiro, continuavo a dire che stavo vivendo proiettata verso quel fine settimana, non mi stancavo mai di ripetere che Redacta era stata invitata alla Tavola rotonda su editoria, classe operaia e lotta di classe. Lo dicevo alle persone di centro-destra della mia vita e loro scuotevano la testa, un po’ incredule davanti a un entusiasmo fondamentalmente fuori luogo.
Ho preso il treno per Firenze, poi a piedi fino a casa dell’amico che mi ospitava, poi di nuovo indietro in bus, e un altro bus, e ancora un po’ a piedi: di solito funziona che più il viaggio è lungo e più ho tempo di pensare a cosa servano i chilometri percorsi. In questo caso, i chilometri da Bologna a Firenze erano necessari per andare a stare bene, per raggiungere il posto dove ci sarebbero state altre persone che la pensano come me sull’organizzarsi, sui diritti, sulle mobilitazioni; dove le chiacchiere inebetite, lo networking, le promettenti strette di mano, i biglietti da visita sono messi al bando; dove va a cercare asilo chi è spossessato di spazi altri per raccozzarsi.
Sì, è il Festival di letteratura working class, però no, non è il Festival di letteratura working class – è proprio la GKN come stabilimento produttivo ora casa del Collettivo di Fabbrica. Questo ritrovarsi gioioso non prescinde dal suo luogo carico di significato e di avvicendamenti.
Scriverne a oltre un mese di distanza, in ogni caso, si attaglia bene al modo che ho di recepire le cose, e cioè farle diventare nuclei teorici. Non so pensare per immagini e sì, mi piacerebbe impratichirmi in un reportage fatto di carne, mani e occhi che all’improvviso vengono illuminati, ma non ne sono capace. Il tempo trascorso tra due eventi o pensieri mi consente di elaborarli e incorporarli nel mio mondo mentale – bello ma non ci vivrei, e invece purtroppo ci vivo.
Il tempo è quella cosa che fa diventare concetto le esperienze, anche se il tempo non è una cosa.
Significati pieni, vuoti, svuotati
Significante svuotato: l’ho buttato nel testo così, senza ulteriori spiegazioni, ed è una mossa un po’ da stronzi. Avevo bisogno di creare spaesamento, avevo bisogno di avvicinare ‘svuotato’ e ‘pieno’. Facciamo più di un passo indietro, ora, per non essere più stronzi.
Nel 2008 arriva in Italia La ragione populista di Ernesto Laclau, un libro che viene per lo più interpretato – non senza ragione – come la rivalutazione filosofica del populismo (in special modo di matrice progressista) ma che, in definitiva, assume lo spessore di una teoria del ‘politico’ in generale.
Per Laclau, il populismo è un fenomeno che “non si associa a un particolare contenuto ideologico ma è piuttosto la modalità moderna, tipica dell’affermazione del pubblico, di costruzione dello spazio politico”1; ovvero, non sono populiste solo Lega e Fratelli d’Italia ma anche il Partito Democratico, il Movimento Cinque Stelle e pure il defunto Partito Comunista. E dire “[non] un particolare contenuto ideologico” significa parlare di ‘significante vuoto’, idea che arriva da de Saussure e che, nella teoria del filosofo politico, rappresenta il tentativo di spiegare le aggregazioni sociali e politiche a partire dalla teoria dei significati.
Un significante vuoto dà nome a una totalità che non esiste mai obiettivamente ma è sempre costruita. È cioè il frutto del processo di nominazione di una frontiera antagonistica di natura discorsiva. Nel mondo sociale non si dà mai la totalità ma solo tensione alla totalità – che, quindi, anche quando esibita non è mai compiuta, mai definitiva, rimanendo un luogo tragico perché impossibile.
Per Laclau, gran parte del conflitto politico segue regole di opposizione tra significanti ma si tratta, per l’appunto, di significanti vuoti, ovvero di simboli che hanno la caratteristica principale di rendere un popolo prima di tutto riconoscibile a sé stesso.
Se questo è un significante vuoto, parlare di significante svuotato significa porre questo stesso concetto su di una linea crono-logica e prendere in considerazione lo svuotamento come processo che accade a un significante originariamente – per un certo periodo e per un certo “popolo” – pieno.2
Mettiamo a frutto il ribaltamento della definizione di significante vuoto per dare spazio a quello di significante svuotato: potremmo dire che esso è un costituente generico e neutrale dell’interazione sociale e dà nome a una totalità che non esiste più ma che continua a costruirsi intorno a momenti estemporanei e, per questo, si tratta di un luogo impossibile ora ma che è stato possibile prima.
(E cosa c’entra questo con la bandiera del PCI sventolata su di un palco durante un concerto? Ci arriviamo, ci arriviamo). È pacifico che il popolo della sinistra si sia storicamente costruito intorno a simboli coevi: la bandiera del PCI sventolata nel 1977 era un significante pieno, reale, attuale.
Quello che avviene a vederla sventolare oggi, invece, è l’anticamera della malinconia: quella bandiera mi arriva come un altrove spazio-temporale irraggiungibile. Non saltello, non batto le mani, non faccio urletti nel vedere una generazione raggruppata intorno a schegge di significato che non sono altro che anacronismi liofilizzati. La bandiera del PCI non mi tira su, mi affossa, mi fa ripiombare nella regressione all’immobilismo.
Tutto il contrario di GKN – che è un significante pieno.
GKN, casa2
Stare in GKN, anche solo per qualche ora, fa scendere su di me un ottimismo che non è facile da spiegare alle persone di centro-destra della mia vita ma a quelle di sinistra, alle mie compagne, alle mie amicizie socializzate come politicamente attive forse sì: GKN non è un vessillo, non è una posa, non è un’intellettualizzazione passatista. È qualcosa che esiste oggi, che si può sostenere, qualcosa cui si può partecipare.
E può essere in occasione della notte di San Silvestro, o per ingrossare un corteo di solidarietà o, ancora, può accadere nella tre giorni del Festival di letteratura working class, quando fai parte del sindacato di chi lavora con i libri e parli davanti a centinaia di persone e senti un disarmante senso di bellezza e commozione quando pronunci ‘lotta per i soldi’ o quando parli di un ‘settore che si tiene in piedi appoggiandosi al nostro sfruttamento’ e capisci che c’è una grammatica comune.
Quando ho ripreso il treno per tornare da Firenze a Bologna, e poi l’autobus per tornare a casa, ho avuto il tempo morto necessario a pensare a cosa fossero serviti i chilometri percorsi: sono andata a stare bene, sono andata a partecipare a un significante pieno.
1 Tutto questo ribaltare sta succedendo senza il consenso di nessuno studioso né tantomeno viene garantita la meticolosità di chi fa ricerca – sta succedendo solo qui dentro senza risonanze accademiche.
2 https://www.cosmopolisonline.it/articolo.php?numero=XV122018&id=11.
In copertina: il pubblico che ha assistito al talk di Redacta, nel piazzale della GKN. Foto di Silvia Gola.
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