Invece di analizzare criticamente il lavoro di Emanuele Resce e Miriam Montani, entrambi presenti con le loro opere nel cartaceo di lay0ut magazine (insieme ai testi di Andrea De Alberti e Carmen Gallo, rispettivamente), decido di scrivere loro una lettera che si interroga su quattro fulcri fondamentali dove il loro fare arte sembra vibrare in frequenze armoniche: soglia, morte, oggetto metafisico, territorio. Le loro risposte si fondono con le mie parole, formando così una comune lettera al mondo.
Valentina: Cara Miriam, caro Emanuele,
nello scrivere a voi e con voi, immagino di dimenticare quello che so della vostra pratica in particolare e dell’arte in generale. Nonostante io non abbia, davvero, una risposta definitiva alla domanda cosa significa arte, sento che ha qualcosa a che fare con il varcare una soglia. Una pratica vertiginosa. Penso Miriam, alla tua opera Sulla soglia, un cielo di stelle formate piccole piante acquatiche (Lemna Minor) a creare un cielo che è anche barriera sottile a pelo dell’acqua e membrana che si spalanca l’abisso.
O ancora, il triangolo vuoto intagliato nella pala del tuo Geometria della terra sacra, Emanuele, materializzato dal cono di polvere di ferro che lo rispecchia e amplifica, come una parabola.
Miriam: Credo anch’io che l’arte varchi una soglia o stia proprio sulla soglia, come un ponte-tramite per altre dimensioni non visibili o imminenti.
Sono molto felice di essere ravvicinata a Geometria della Terra Sacra, adoro questo lavoro di Emanuele. Quella pala è capace di fare emergere dalla terra il mistero e la magia, evocate in modo impalpabile.
Anche nel mio lavoro della vasca è presente un elemento simbolico, la stella a sette punte, che in questo contesto sta a rappresentare un collegamento verticale tra gli abissi del cielo e del sottacqueo/sotterraneo. Ma stanno a simboleggiare anche le sette soglie fisiche umane, i sette orifizi. Nella vasca dove ci si immerge per lavarsi, il mistero e l’abisso ci penetra, siamo in una dinamica circolare e in movimento con l’universo. La stella a sette punte, inoltre, riconduce simbolicamente all’uomo nella sua totalità (corpo-anima).
V: Diceva Tarkovskij che l’arte serve per preparare l’uomo alla morte, Emanuele, me l’hai insegnato tu. Nelle tue opere sento questa potenza quasi sacrale del fare arte. La morte appare anche come presenza fisica, negli scheletri di animali che si fondono con componenti meccanici, assi di skateboard, scarti edili e altri residui nelle recenti serie Totally Others e Appeard in the stone. Ma, come d’altronde anche nelle parole di Tarkovskij, non c’è decadenza, né una spinta necrofila verso un’idea di fine in quanto tale. Piuttosto, una sensazione di tempo circolare, ricorrente, di cui la morte è una componente estremamente densa e vitale.
Emanuele: Penso che questo derivi in parte dal mio paese d’origine, Casalbore. Un piccolo paese rurale in provincia di Avellino che si è industrializzato solo negli ultimi anni. Per questo mi viene naturale trovare una dimensione contemplativa, quasi sacrale, anche nei rottami e negli scarti industriali, così come nei resti animali. Qualcosa non diverso da quello che chiamiamo vita, insomma. Dove sono nato io, il post industriale è già parte integrante della campagna: i guard rail diventano mangiatoie e i pali della luce pali per i capannoni, i bidoni di ferro del gasolio si trasformano in abbeveratoi.
V: Anche per Miriam potrei dire qualcosa di molto simile, cinis ad cinerem, pulvis in pulverem sembri ripetere ossessivamente con le tue opere realizzate con materiali volatili: cenere, grafite, polvere di pigmento o addirittura polveri sottili raschiate via dalle strade e impiegate in una tecnica antica come quella dello spolvero. Ma nemmeno la cenere resta materia inerte, in attesa di una futura, linearissima resurrezione. In Corpi lievi la cenere degli abeti rossi sradicati dalla Tempesta Vaia diventa, con delicatezza, nuova presenza.
M: Ora mi fate pensare che tutti i lavori legati alla morte da quando ero giovanissima, ispirati ai canopi alle catacombe, ma anche i più recenti (come Alleggerire la Morte, e Sulla Soglia II) hanno lo scopo di preparare me alla morte. Preparare la mia paura, la mia attrazione. Questa cosa mi fa venire i brividi.
Quando smisi di lavorare sulle forme dei canopi mi dissi che avrei voluto concentrarmi sul loro contenuto e così è stato in fondo, se ci penso bene. Alleggerire, smaterializzare, provare ad accettare l’impermanente è stata una mia esigenza nel lavoro, affrontata non soltanto con i materiali volatili, ma anche con la trasparenza, la luce e l’ombra, la notte, il sogno, l’acqua. È stato un processo.
I materiali “sottili” sono meravigliosi perchè si trovano allo stato della loro essenza/assenza, all’apice della trasformazione, come lo è una crescita di qualsiasi tipo, solo che fa il procedimento inverso. C’è vita dentro la morte, c’è morte dentro la vita! (come direbbe Moresco in Gli Increati). È interessante notare che ciò che crediamo effimero, come la polvere, a volte è proprio ciò che resta di un sistema al collasso, lo vediamo con le PM10, ma anche nei crolli, nei bombardamenti, negli incendi ecc..
V: I vasi sepolti dagli antichi nelle tombe non avevano una funzione nel mondo in cui sono stati creati – mi facevi notare tu, Emanuele – ma la carica metafisica di questi oggetti altrimenti ordinari è di molto superiore a tutti i trattati prodotti dalla nostra avanzata società moderna. Questo ritorno all’indietro – all’antico, all’archetipo – come modo per andare avanti attraversa tutto il tuo pensiero e la tua pratica artistica. Direi anche il rovesciamento dell’oggetto comune, molto spesso scartato, in artefatto metafisico. Questa pratica che mi piacerebbe definire mistica vi accomuna. Nell’ultima occasione in cui tutti e tre abbiamo lavorato insieme, la mostra Cambio lavoro presso Carrozzeria delle Rose, l’opera di Emanuele si chiamava Gli antichi non si occupavano di arte contemporanea, ed era composta da due portiere incidentate saldate con un tagliatore al plasma e assemblate con lattine e pezzi di lamiera trovati sul posto.
E: Il plasma rappresenta il quarto stato della materia, quello di cui sono fattə il Sole, le stelle e i fulmini … Questo progetto è nato tutto da un’energia, completamente umana, scaturita dal contatto con chi da chi in quella zona lavorava da tempo e ci ha aiutato a produrre alcune opere. Questo è quel genere di cose che può nascere solo intorno a una figura come quella di Miriam.
V: Miriam, tu invece hai tagliato lo spazio con una striscia di fuoco, acceso grazie alla polvere da sparo (ancora polvere!) che ti avevano procurato i tuoi conterranei cacciatori. Ripenso oggi alle parole che avevi recitato prima di accendere la fiamma: dopo tanto forare / per trovare un fondo / buco i miei occhi / tiro una linea di fuoco / taglio lo spazio a metà / accendo una guerra.
M: Di polvere aveva solo il nome. La “polvere da sparo” che mi hanno procurato i cacciatori era composta da una granella colorata, sembravano quasi delle decorazioni per dolci. Tagliai per 9 metri circa lo spazio a metà con del fuoco inaugurale, fu un’esperienza molto potente, si formò un meraviglioso silenzio lungo il tragitto del fuoco. Camminava lentamente e ci accecava di luce candida, per darci un nuovo vedere, sfiorava quasi in qualche punto le opere delle mie compagne e dei miei compagni.
Le parole che incarnai e che scrissi anche a parete avevano a che fare con la mia pratica del forare le carte preparatorie per produrre immagini, ma infine buco i miei occhi per vedere. Mi acceco, come ci acceca la vista del fuoco. A riguardo ho quasi in cantiere un altro lavoro, ve ne parlerò.
Nella parte finale del piccolo scritto “accendo una guerra”, non c’è la guerra che tutti intendiamo, ma la trasformazione e il conflitto dell’esistenza; è evocato anche il conflitto di classe sul lavoro, dato che la mostra ne portava il titolo. Infatti pronunciai quelle parole da un megafono.
E: Queste parole mi fanno sentire ancora bene rispetto a ciò che l’arte può essere, senza fare politica in modo esplicito, ma dal punto di vista del linguaggio, che può diventare trasformativo nell’ambiente in cui opera. Non fa un comizio, non fa propaganda, non è un giornale, ma proprio grazie alla sua forma può arrivare molto più lontano con molta più forza.
V: Mi chiedo come si possa vivere in un posto e contemporaneamente al di fuori di esso. In generale, su un piano che è quello dello spirito, della mente e anche del sogno, è una condizione comune. Siete entrambi migranti di piccoli comuni dell’Italia centrale, Miriam, e meridionale, Emanuele. Ma le radici non vi ancorano alla terra, sembrano piuttosto lunghi tentacoli filamentosi o zampe sinuose, condannate al movimento. Così nei campi arati ricoperti di restoccia si innalzano le tue strutture megalitiche, Emanuele, nel rito pagano o rave che chiami Untitled (time indicators). È come se per un momento la terra si aprisse, si estraniasse a se stessa.
E: Il nostro inconscio è pregno del posto dove abbiamo vissuto i primi anni della nostra vita, quindi è normale che nel modo in cui parliamo e in quello in cui facciamo arte rimangano quei luoghi. Se si è sinceri nel modo in cui si lavora, le nostre origini continuano a vivere. Il luogo in cui abbiamo realizzato il rave, ad esempio, un tempo veniva chiamato “miez’ a l’aria”, perché è particolarmente esposto ai venti. Quando ero piccolo, però, non sapevo che questo nome indicasse un luogo fisico, e quando si parlava di andare in miez’ a l’aria nella mia testa si creavano scenari fantastici.
V: Per te, Miriam, forse la questione è diversa. Il legame con i tuoi luoghi d’origine è, anche, una chiamata dolorosa: quella del terremoto e del tentativo di ricucire i frammenti di una popolazione attraverso la collaborazione di artisti, poeti, scrittori… come dichiarazione di apertura del tuo Sciame Project, nato proprio da questo sforzo di ricostruzione, scrivi: Siamo nel punto di scegliere se disabitare la terra o radicarci ancora, con tutte le nostre forze sensibili. Il terremoto solleva, non solo polvere al cielo…
M: Capisci di amare un luogo, quando quel luogo che ti ha sempre guarita, si ammala.
Sciame Project è il proseguimento di 9 anni di attività sul territorio con l’esposizione annuale Lucisorgenti, ideata dall’artista Franco Troiani. Abbiamo portato tantissima arte in luoghi isolati e poco popolati come Cascia. Avevo deciso di fermarmi con l’ultima edizione del maggio 2016, ma a seguito del terremoto ho pensato di dover fare qualcosa. Agii di impulso come in quegli amori irrazionali, con il senno del poi forse sarebbe bastato piangere. Sperare in una trasformazione è stata un po’ un’ingenuità. Ma vorrei proseguire per raccogliere i frutti buoni che sono cresciuti.
La mia terra è chiusa come un’isola ma accerchiata di boschi, purtroppo è sismica da sempre e credo sia la zona più fredda dell’Umbria. Il mio dialetto assomiglia a un italiano ululato da lupə solitarə dalle vocali chiuse, certe parole sono così arcaiche da sembrare essere lì dall’invenzione del fuoco.
Quando torno dopo tanto tempo qualcosa di me si riconcilia. Mi riconosco, alzando gli occhi, in un circo di stelle; nello scrosciare del fiume; nell’eco del Pozzo di Sant’Agostino dove sono registrare le voci e le parole di tantə bambinə, ora adultə, e sicuramente quelle mie e di mia sorella Ilia. Quando avevo 20 anni scrissi in un pezzetto di carta circa così: “Monti miei belli di mio bel sangue rosso” e poi una cosa che proseguiva, all’incirca, riferito ai monti: “Conforto madre sopra gli occhi”, riconoscevo e riconosco in me la matrice madre dell’Appennino. Lo stessa conforto, ovvero la caratteristica paesaggistica montana, che ha facilitato i Partigiani a liberare il territorio già nel 1944, formando la prime repubbliche libere d’Italia, proprio a Cascia, Norcia, Leonessa! Non è incredibile?
Alzare gli occhi verso una verticalità è una componente fondamentale dell’essere di quelle/queste parti.
Nonostante ciò, se resto per tanto tempo è come se mi ammalassi.
Le mie radici sono nell’aria e spero siano sinuose.
V: Penso sia quello a cui mi riferivo quando ho deciso di intitolare questa lettera “provenire dalle stelle”, un’indicazione di genesi (artistica) ma anche la tensione di queste radici filamentose, che da qui sulla terra risalgono verso il cielo. E viceversa.
Emanuele Resce (1987) vive e lavora a Milano. Dopo il Liceo Artistico di Benevento dedica alcuni anni alla militanza politica Marxista. Nel 2019 co-fonda OMUAMUA, una community di artisti orbitante attorno ad uno spazio di 270m2. La sua ricerca artistica si sviluppa parallelamente all’interesse per le civiltà antiche, e al ripensamento del concetto di primitivismo in relazione al mondo contemporaneo.
Miriam Montani (1986) è nata a Cascia. Si è formata presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Nel 2016 fonda SciameProject. Dal 2015 al 2020 è tra le artiste attive presso l’Ex Villaggio Eni di Borca di Cadore, Progettoborca, Dolomiti Contemporanee. Tra il 2019 e il 2020 è in residenza presso VIR, Viafarini in Residence, Milano. Nel 2021 un suo contributo artistico è presente nel Padiglione Italia della 17° Biennale internazionale di Architettura di Venezia “Comunità Resilienti” nella sezione dedicata a “Cantiere di Vaia”. Nel 2021 apre lo studio “Carrozzerie delle Rose”, Milano.