Abbiamo pubblicato su Instagram un reel in cui uno scimpanzé guida una macchina da golf all’interno di quello che sembra, tristemente, un parco a tema (il video completo è questo). Ci è sembrato giusto sottotitolare il video con “me driving into 2022”. Un “tour” apparentemente rilassato in un anno che si prospetta disastroso. Quasi in una forma di perversa ironia Instagram ci ha censurato la canzone che avevamo scelto come colonna sonora, Giorgio by Moroder dei Duft Punk. L’algoritmo apprezzerebbe le cose come sono, drammatiche? Preferirebbe che nessun filtro, pur sonoro, si frapponesse tra la metafora e la sua corretta ricezione? Che ne so. Però mi è sembrato, in qualche modo, un “segno” che avremmo dovuto pubblicare quest’intervista il prima possibile. Il libro di Marco Malvestio, Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene, è un libro decisivo. Pubblicato dalla casa editrice Nottetempo – con le sue Figure e Terra è “leader” della saggistica e della saggistica divulgativa (si pensi alla serie di Byung Chul-han, alla riedizione di classici di Susan Sontag, ai libri di Franco Palazzi e Davide Giglioli; all’apripista Esiste un mondo a venire?, la cui strada è poi stata impegnata da Eduardo Kohn, Come pensano le foreste e – da ultimo – Clima, storia e capitale di Dipesh Chakrabarty) – si pone un obiettivo: una rassegna delle rappresentazioni dell’Antropocene attraverso “categorie” fantascientifiche – L’era dell’atomo, del virus, del cambiamento climatico, delle piante? (sì, con punto interrogativo) e delle estinzioni – per disunire il legame retorico e giornalistico tra narrazione apocalittica e crisi ambientale. E niente, cominciamo dall’inizio.
Domanda una e trina, per cominciare: di cosa parla Raccontare la fine del mondo? Quali sono le ragioni di questo libro? Quali sono le differenze tra questo libro e i tanti – forse troppi – libri con argomento l’Antropocene?
La differenza rispetto ai tanti libri che ci sono sull’Antropocene, che vengono pubblicati quotidianamente in numerosi ambiti, è che il mio non è un libro sull’Antropocene, è un libro sulle rappresentazioni dell’Antropocene, ed è un libro di critica letteraria. Mi senti?
Sìsì, assolutamente.
Questo è un libro di critica letteraria, quindi non un racconto di quello che sta succedendo, cosa che fa, invece, per esempio Medusa di De Giuli e Porcelluzzi [Nero Editions, 2021, ndr]. Mi interessava lavorare sulle rappresentazioni, sia su quello che le rappresentazioni hanno da dirci, sia sui limiti delle rappresentazioni, anche perché uno degli snodi diciamo drammatici della nostra epoca è proprio il limite dell’immaginario nel raccontare l’Antropocene. Mi interessano le possibilità e i limiti della letteratura, del cinema eccetera, e nello specifico della fantascienza, nel raccontare l’Antropocene.
Eccetera?
Mi interessava indagare anche l’intersezione tra l’immaginario di un certo attivismo ambientale, e così via, e l’immaginario fantascientifico. Noi vediamo che dai tempi di Rachel Carson, per esempio, dai tempi di Primavera silenziosa che è del ’62 se non sbaglio, l’immaginario millenaristico viene riutilizzato per raccontare il problema ambientale, in quel caso il problema del DDT. Osserviamo questo tipo di immaginazione ogni giorno con i Fridays For Future, con Greta Thunberg. Si tratta di modalità di espressione con dei limiti concettuali e forse anche dei limiti operativi, proprio perché si fondano spesso su un’immaginazione del disastro con schemi narrativi ed esigenze tipici di altri media.
Ecco, quasi sembra, e dal tuo libro si vede bene, che non ci sia altro modo di raccontare la crisi climatica se non attraverso una trasformazione metaforica. Per cui il dialogo che si è generato attorno a Don’t Look Up [regista Adam McKay, 2021, ndr] già da subito è diventato un dialogo sulla bontà della metafora della cometa per l’emergenza ambientale. A me sembra che una buonissima parte dei testi sull’Antropocene partano dall’idea che ogni immaginazione della catastrofe sia utile, perché ci abituerebbe alla catastrofe stessa; il punto è che non si tratta di una catastrofe.
Non penso che l’immaginario della catastrofe sia un immaginario sempre utile. L’immaginario della catastrofe è solo una parte della fantascienza: si sarebbero potute scegliere altre cose, ovviamente, quando si parla di rappresentazione dell’Antropocene. Ci sono anche molti esempi di narrativa che pur non interagendo con un immaginario apocalittico, racconta i tempi in cui viviamo. Gomorra di Roberto Saviano [Mondadori 2006, ndr], scrittore che a me peraltro non fa impazzire, racconta con direi larghissimo anticipo quello che Marco Armiero ha chiamato lo «Spazzaturocene», per esempio [wasteocene]. Certo, Gomorra è un libro che parla di rifiuti, che parla di merci, senza immaginario catastrofico. Questo immaginario è molto diffuso, non solo nella fantascienza.
Insomma, uno dei compiti del tuo libro, come da sottotitolo, è studiare il rapporto tra fantascienza e Antropocene, togliendo un po’ dall’equazione, o dandogli un altro ruolo, l’immaginario catastrofico.
Sì. Se al posto di Antropocene parlassimo della bomba atomica, le rappresentazioni catastrofiche sarebbero più in linea. Se avvenisse un olocausto nucleare, non sarebbe così lontano dalle immaginazioni di Addio, Babilonia o La strada [romanzi, rispettivamente, di Pat Frank, del 1959, e di Cormac McCarthy, del 2006, ndr]. L’emergenza climatica, men che meno l’Antropocene, non è la “fine del mondo” come siamo abituati a immaginarla e vederla nei disaster movie di Hollywood.
La tua è una prospettiva di critica letteraria, o dell’audiovisivo, perché certa letteratura e certi prodotti audiovisivi “parlano” molto bene di altro.
Io non penso che la fantascienza sia un genere solo letterario e cinematografico, la fantascienza è un fenomeno culturale, trasversale. Faccio due esempi: Naomi Oreskes ed Erik Conway che scrivono un saggio sull’Antropocene [The Collapse of Western Civilisation, 2014] come se fosse il saggio di uno studioso cinese del futuro che riflette sul crollo della civiltà occidentale; o William Vollmann che scrive due volumi di mille pagine intitolati Carbon Ideologies [2018, ndr] dedicati all’inquinamento, ai suoi reportage, dell’Antropocene eccetera, e immagina che i libri siano parte di una lettera inviata a un abitante della Terra futura devastata dal cambiamento climatico, dalla guerra tra bande, una roba che sembra Kenshiro. È immaginario fantascientifico, non fantascienza come genere. Questo non rende falso il senso dei messaggi degli autori, ma la forma che prendono è evidentemente mutuata dalla fantascienza.
Una cosa che mi ha molto colpito del tuo libro sono le rassegne ragionate di titoli di fantascienza, soprattutto di lingua inglese. Manca molta fantascienza italiana, però. Ricordo una tua opinione per me incondivisibile su Guido Morselli.
Non ce l’ho con la letteratura italiana, con Guido Morselli, né con il suo Dissipatio H.G., ma contro le incursioni, tipiche della letteratura italiana, dello scrittore “normale”, “alto”, che si appropria della letteratura di genere per gioco. Quando in altre letterature la fantascienza è affrontata in modo molto serio. Detto questo, anche se il libro tratta effettivamente solo di fantascienza angloamericana, io mi occupo proprio di fantascienza italiana, gestisco un progetto di ricerca europeo su questo (https://risk-project.eu/projects/ecosf), ma appunto, mi occupo di fantascienza in senso stretto, quella delle riviste specializzate, del fandom, non le riprese giocose degli intellettuali…
A me sembra che Tommaso Landolfi, per esempio, lo facesse in modo molto serio.
A me Landolfi personalmente annoia tantissimo; diciamo però che non è un giudizio di valore, ma una questione di gusti… Ma poi qui interviene anche un’antipatia che non dipende veramente da lui, perché la produzione di Landolfi, durante i vari dibattiti sul fantastico degli anni Ottanta, è stata portata come esempio principe di quel fantastico “colto” che in Italia è stato canonizzato a spese delle innumerevoli manifestazioni popolari, che invece a me come critico interessano di più.
Landolfi sognava di essere popolare, basta pensare a quello che ripeteva spesso, che avrebbe potuto avere una carriera da attore, eppure si chiudeva nella sua proprietà forse per agorafobia. Aveva dalla sua parte tutti i legami possibili con la grande editoria e la Letteratura “alta”, pubblicava con Rizzoli, era amicissimo di Montale, eppure era un outsider, dissipava tutto nel gioco d’azzardo. Landolfi ha un risvolto psicologico che dà, in qualche modo, l’esatto contrario dell’aristocratico. Quando Landolfi si mette a scrivere i racconti di fantascienza, o di weird lovecraftiano, o delle parole che si trasformano in insetti, o la fine di Cancroregina, a me sembra tutt’altro che non-pop, o non-attento alla narrativa di genere.
In realtà è più un problema di ricezione. A me non piacciono le riappropriazioni colte, o furbe, della letteratura di genere. O meglio, magari mi piacciono anche, ma non le trovo così interessanti dal punto di vista critico. Mi interessa capire cosa succede lì, in quei campi, in quei settori molto vivi, come in Italia, dove ci sono stati numerosi autori, riviste e film, che non sono mai stati canonizzati o presi in considerazione seriamente proprio perché in Italia è sempre pesato un certo monito crociano e adorniano contro i fenomeni popolari di consumo. Questo pesa ancora. In Italia quando si parla di fantascienza ancora si parla di Morselli, che pur essendo un ottimo scrittore non è uno scrittore di genere.
Ti do ragione, sì. In Italia piace l’idea principesca dell’autore che si nega per fare il capolavoro. È la logica pubblicitaria o da ufficio stampa che entra nella critica, forse c’entra anche un’eredità spitzeriana, lo “scarto” che serve ad illuminare la regola.
Quando si fa critica ci si deve chiedere cosa significa “fare critica”. Non penso serva a molto dire che un libro è bello o brutto. Vuol dire interrogarsi su come le opere dialogano con il loro tempo, con il presente. È la base del mio libro, che non è storico e si concentra su un certo tipo di opere che sono, in parte perché più immediate, più utili a intercettare ansie e paure legate all’Antropocene. Tutto sommato un film come The Day after Tomorrow [Roland Emmerich, 2004, ndr] è molto più interessante, pur come esempio in negativo, delle molte eco-distopie colte e citazionaiste che sono uscite in Italia negli ultimi anni.
La fantascienza è anche un genere pubblicitario, penso alla bellissima pubblicità della Buondì, che c’entra il punto tra l’altro del non sense dei social. La catastrofe è l’iperbole. È un’iperbole nella reticenza. È nei discorsi di Salvini che parla di “invasione” per i migranti. L’insistere dei giornali sugli eventi climatici estremi come conseguenza del cambiamento climatico è una banalizzazione della catastrofe.
Certo, e a maggior ragione perché spesso questo rapporto di consequenzialità non c’è. Per esempio, anche se ogni estate sono portati come prova del cambiamento climatico, la maggior parte degli incendi in Sardegna è causata dall’uomo, sono incendi dolosi. Quando sui giornali o telegiornali si vuole “sensibilizzare” all’emergenza climatica e lo si fa attraverso la retorica della catastrofe, attraverso gli incendi, attraverso lo scioglimento dei ghiacciai, attraverso l’isola di plastica in mezzo all’Oceano Pacifico, si rischia di far percepire una catastrofe che per l’individuo, soprattutto l’individuo occidentale, non avverrà. Non in termini netti.
Se a volte la fantascienza è, come diceva se non sbaglio Calvino, una forma di autocoscienza sociale, molte volte è uno spostamento.
L’immaginario della catastrofe o apocalittico penso sia un immaginario consolatorio. Anche in senso cristiano, dopo l’Apocalisse arrivano gli angeli con i tromboni, si spalanca il cielo e i giusti vengono separati dai dannati. L’Apocalisse è una narrazione che dà senso alla storia, dà un termine e una fine. È una cosa che si ritrova nelle narrazioni apocalittiche da L’ultimo uomo di Mary Shelley in poi. Chi resta, mentre gli altri sono morti o spariti, ha un nuovo ruolo, ha una funzione palingenetica. E questo è un pensiero consolatorio, anche eccitante. Brian Aldiss chiamava le trame dei John Wyndham “catastrofi confortevoli” perché ad un certo punto tutte quelle ansie di melanconia post-imperiale che animavano l’Inghilterra degli anni cinquanta, terrorizzata dall’impoverimento, dall’immigrazione e dalla sovrappopolazione, scomparivano: i protagonisti borghesi si trovano in un mondo dove sono tutti morti e loro si possono godere ciò che è rimasto. C’era una strage ma i magazzini restavano pieni; chi sopravviveva non aveva solo la fortuna di godersi merci a non finire, ma anche il nobile compito di rifondare la civiltà. Ed è un immaginario consolatorio anche quando parliamo di climate change. Pensare al cambiamento climatico come Apocalisse, così come la intendiamo noi, perché è un modo più “semplice” per gestire la cosa, significa dire che ad un certo punto succederà qualcosa che traccerà una linea tra un prima e un dopo e a quel punto sapremo chi è rimasto, cosa bisognerà fare. Ma il cambiamento climatico non è una bomba atomica. È un fenomeno ampio fatto da micro-fenomeni impossibili da prevedere e controllare. Un esempio che faccio nel libro è il Climate Clock a New York: quando il countdown arriverà a zero, il rilascio di Co2 nell’atmosfera sarà tale che non si potrà più evitare il surriscaldamento globale. Questo è un evento catastrofico, non c’è nessun dubbio. Ma non è un evento catastrofico nella misura in cui noi intendiamo abitualmente la catastrofe. Non è che se noi seguiamo il countdown fino allo zero, poi succederà immediatamente qualcosa. Non succederà niente. I tempi geologici sono incomprensibili all’uomo.
Sto pensando a Philip Dick, al suo immaginario della catastrofe, soprattutto atomica, che in realtà non è per niente una catastrofe, per esempio in Deus Irae, scritto con Roger Zelazny. In fondo racconta la storia di un focomelico che grazie a questa catastrofe diventa il più grande pittore della storia, quasi ci liberassimo dal corpo, che un po’ è anche l’ossessione di Dick. O anche Cronache del dopobomba: sembra una catastrofe ma poi colui che non riusciva a sopravvivere nella società diventa una persona centrale all’interno di quella post-apocalittica, quasi un super-uomo.
Certamente. Io nel libro discuto di questo a proposito dello stupendo racconto di Judith Merrill “Solo una madre” (1948). La cosa interessante quando si parla di mutazioni atomiche – questa è una cosa che quando parlo del libro passa sempre in sordina ma in realtà c’è molto – è che già l’idea di una mutazione atomica ovviamente mette in scena, in maniera drammatizzata ed esorbitante, l’agentività del non umano.
Nel tuo libro dai moltissimo spazio al non-umano, al mondo animale e vegetale. Sono pagine molto belle.
Grazie. Mi chiedo: cos’è una mutazione causata dalla radioattività se non, come dire, la forza del minerale che agisce sulle nostre cellule? Secondo me questo è uno degli spunti forti, dei grandi vantaggi della fantascienza rispetto ad altri generi o altre forme, cioè la capacità di rendere manifesta un certo tipo di agentività, quella del minerale o quella del vegetale o dell’animale e così via. È una forma che riesce a rendere in maniera più chiara e più evidente teorie che poi sono state sviluppate anche con una certa puntigliosità, penso a Latour [Bruno Latour, autore, tra le altre cose, di La sfida di Gaia e Non siamo mai stati moderni]: un’idea di mondo interconnesso, fatto di agenti che hanno la medesima capacità di influire sul mondo, di trasformarlo. L’idea sarebbe che – non per uscire dall’Antropocene ma per aggirarlo in qualche modo – si debba uscire dall’antropocentrismo, cosa che la fantascienza permette di fare.
Marco Malvestio (1991) lavora all’università di Padova, dove, in collaborazione con la University of North Carolina at Chapel Hill, gestisce un progetto di ricerca europeo su fantascienza italiana ed ecologia. Ha pubblicato i saggi The Conflict Revisited. The Second World War and Post-Postmodern Fiction (Peter Lang, 2021) e Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene (nottetempo, 2021), oltre a numerosi articoli su fantascienza, gotico e narrativa contemporanea. Nel 2021 è uscito per Wojtek Edizioni il suo primo romanzo, Annette.