Evitare lo scenario peggiore: intervista al climatologo Luca Mercalli

Con l’intervista a Luca Mercalli, climatologo da sempre impegnato per la transizione ecologica della nostra società, ha inizio una serie di articoli sul mondo, su questo nostro mondo che si assenta a poco a poco. Lo annunciavo nell’editoriale: possiamo anche occuparci di Letteraura, di Traduzione e di Arte, ma nulla può farsi senza una presa di petto del grande tema della contemporaneità, la crisi climatica. La serie si intitola “Com’è adesso!”, da un racconto di Daniele Del Giudice: un uomo si presenta dal capo di un’emittente televisiva, offrendo il format per una trasmissione. Si esporrerebbe il corpo mummificato di una celebrità per come è adesso. Vedere quanto è riconoscibile. Ci immaginiamo tra un secolo a vedere il mondo immortalato in un suo non-stato, irriconoscibile.

La comunità scientifica è sostanzialmente concorde sulla effettività dei cambiamenti ambientali. Il rischio è di arrivare a metà secolo con tre gradi in più, a fine secolo con cinque. Temperature senza dubbio compatibili con la vita, forse non con la società. Il problema non è un’apocalisse violenta, ma subdola, che colpisce le strutture sociali, le fa collassare. Gli accordi di Parigi (2015), accolti con grande entusiasmo, non hanno fino ad oggi dato i risultati sperati (perché l’impegno, forse, non è stato sufficiente?). L’Antropocene, per citare Caparezza, è l’epocalisse.

Per comprendere quanto influisca l’aumento di temperatura sull’ecosistema Terra, potete consultare questo report di CarbonBrie: secondo tre possibili aumenti nei successivi decenni (1,5 C, 2 C, 3C+), gli impatti sono illustrati sugli oceani, i ghiacciai, le temperature, le precipitazioni, l’umidità, le tempeste, i raccolti, la natura (flora e fauna), l’economia e la salute. I valori sono distribuiti anche per continenti.

In copertina: Werner Herzog, Encounters at the end of the world (2007)


Lei ha scritto diversi libri. L’ultimo è: Salire in montagna. Prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale. L’impressione è che i cambiamenti climatici vengano considerati da un punto di vista differente, offrendo una delle soluzioni, però individuale.

Più o meno. Individuale o di dieci milioni di persone. Non è proprio da buttar via. Non esistono soluzioni per tutti, questo è da mettere in chiaro: chi pretende di risolvere in modo omogeneo i problemi derivati dai cambiamenti climatici vive nel mondo dei sogni. Questa è una possibilità: considerando che in Italia abbiamo il 70% di territorio montano, un serbatoio di luoghi peraltro abbandonati che si prestano benissimo ad essere riqualificati e abitati anche come rifugio dal riscaldamento globale. Ho voluto raccontare una storia che sia un manifesto ma anche un esperimento narrativo autobiografico. I saggi sono necessari ma li leggiamo tra addetti ai lavori o poco più. Questo libro invece ha qualche velleità narrativa, non dico letteraria, un libro diretto a un pubblico un po’ più vasto.

Non è facile per noi accettare che non esista una soluzione generale. Ho venticinque anni e mi trovo a fare pace con il fatto che vivrò un pianeta diminuito, un pianeta ridotto.  

Non c’è dubbio. Non sono tra gli ottimisti, quindi non posso che confermarlo. Non esistono soluzioni generalizzate, chiaro?

Sì, sì sono d’accordo.

Questa è una cosa importante, perché subito si può pensare a una visione “elitaria”: tu l’hai potuto fare, noi cosa facciamo? Ognuno cerchi di destreggiarsi come crede. Una parte può fare così, altri non lo so: prenderanno la barca e andranno a rifugiarsi in Svezia, non lo so. Avremo purtroppo molto da perdere. Quando penso a Venezia, lì non c’è soluzione: se il mare aumenta di un metro a fine secolo bisogna scappare.

Proviamo a parlare di soluzioni però, anche solo immaginando. Cito Bianciardi perché è un mio nume tutelare. In La vita agra racconta la sua utopia, un «neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio». Non mi voglio soffermare né sul neocristianesimo né sul copulatorio ma sul disattivistico, perché ho notato che una delle teorie più diffuse e che secondo me lei in qualche modo condivide è quella di Bruno Latour: dobbiamo trasformare il plus ultra, comandamento della società attuale, al plus intra. La migliore azione nei confronti del pianeta è quella di fermare tutto, l’inazione.  

Fermare o comunque contenere. Bisogna riflettere soprattutto sulla mancanza del concetto di limite: questa sorta di hybris ambientale ci sta portando al baratro. Sarebbe fondamentale che l’umanità si interrogasse prima di tutto sul dove vuole arrivare, dove vuole e dove può, perché i limiti fisici introducono il può. Possiamo fare tutto quello che vogliamo? La risposta è no, o se lo facciamo ci saranno delle conseguenze. Senza questo riconoscimento del limite noi siamo condannati a fare la nostra strada verso un baratro senza possibilità.

Penso ci sia quasi una opposizione tra due “scienze” in questo momento: geologia, climatologia, biologia ci dicono di fermarci, o comunque di prestare ascolto. L’altra scienza, quella direttamente legata al concetto diffuso di tecnologia, che in qualche modo sta dicendo che la Terra è andata letteralmente a puttane. La punta dell’iceberg è Elon Musk, ma è una tendenza: la terra è dietro di noi, superiamola.

Andare in un altro pianeta, certo. Ma queste sono delle puerili fantasie, quella non è nemmeno scienza. Quelli sono dei deliri. Non è assolutamente realistico nei tempi di questa Apocalisse, che sono dell’ordine del secolo, del decennio. Pensare di traghettare la specie umana in un altro pianeta che non c’è. Questo pianeta non esiste; è teorizzato, è immaginato, forse può darsi statisticamente. Se lo trovassimo in che modo si andrebbe? Ci va forse Elon Musk da solo. Non è che spostiamo otto miliardi di persone per andare in un altro pianeta. È un delirio che coinvolge una parte dell’esplorazione scientifica; giusta, corretta, ci tengo a dire. I miei colleghi astrofisici è assolutamente giusto che spendano le risorse della collettività per guardare, per cercare, per darci intanto delle spiegazioni su noi stessi, la classica domanda “da dove veniamo? Dove andiamo?”. Ma finisce lì. Tutto ciò non ha nessun significato sul breve termine. Il danno ambientale è sul breve termine ed è un fatto che riguarda i prossimi dieci, cinquanta, cento anni.

Quando ho proposto questa intervista al direttivo molti mi è stato chiesto di domandarti cosa dobbiamo fare.

Evitare lo scenario peggiore. Non possiamo dire cosa possiamo fare per guarire, per rientrare in una situazione di sicurezza totale. E non si può più tornare indietro: il danno è già in corso. Quando io sento dire “dobbiamo consegnare alle generazioni future un pianeta migliore di quello che abbiamo trovato” è un’altra colossale menzogna. Io mi limito a dire ai miei nipoti “cerco di consegnarvi un pianeta ancora vivibile”. È un danno irreparabile sui tempi umani. Sui tempi geologici sarà riparato, ma geologici vuol dire milioni di anni. Sui secoli, sui prossimi cinquecento, mille anni: anche se noi fermassimo oggi tutto quello che stiamo facendo di dannoso… è già una compromissione irreversibile. Il clima è già cambiato, la biodiversità è minacciata e ci sono già delle estinzioni di specie in corso, gli oceani sono pieni di plastica e non è che quella la togli, rimane e la mangeranno i nostri figli e nipoti. Cerchiamo di consegnare un pianeta dove la catastrofe è congelata, fotografiamola, che non peggiori. Ormai abbiamo la febbre. Quella malattia lì rimane. Ma un conto è continuare a farla peggiorare fino ad arrivare all’esito mortale, un conto è sorvegliarla, tenerla a bada, conviverci.

Dettaglio dell’isola di plastica nell’Oceano Pacifico. La sua estensione oscilla tra i 700.000 km² fino a più di 10 milioni di km².

Cosa fare allora?

La risposta è complicata. Prima di tutto bisogna aggredire due condizioni di metodo che stanno sopra tutte e di cui non si parla mai. Bene mettere i pannelli solari, prendere la macchina elettrica e fare la raccolta differenziata. Sono lodevoli piccole cose che si possono fare ma spostano solo di qualche anno la catastrofe. Non la eliminano. Bisogna cambiare il sistema economico e fermare la crescita demografica. Qualsiasi altra soluzione guarda al sintomo. Cambiare il sistema economico vuol dire che dobbiamo uscire dal dogma di un’economia che per essere prospera deve crescere all’infinito. Lei avrà sicuramente sentito nominare un milione di volte anche oggi la parola crescita, vista come un totem salvifico. La dice Draghi, la dicono i suoi ministri, la dicono i sindaci, la dicono gli imprenditori. Tutti chiedono crescita. Ma come si fa a crescere all’infinito in un pianeta finito? È una contraddizione enorme, gigantesca che la scienza ha messo in evidenza già cinquant’anni fa. Ma niente da fare: vince il dogma economico. È una grande menzogna. Cito l’aforisma ormai storico di Kenneth Boulding, economista anglo-americano degli anni Sessanta: «chiunque pensi che una crescita infinita sia possibile in un pianeta finito, o è un pazzo o è un economista». Siamo ancora, quasi sessant’anni dopo, nelle mani di quegli economisti che continuano a dirci crescita! Ma la crescita vuol dire estrarre risorse dal pianeta limitato e restituire rifiuti in un pianeta limitato. Se continui a crescere a un certo punto sbatti la faccia contro il muro dei limiti. E accanto alla crescita economica ovviamente c’è la stessa dinamica nella crescita demografica: più gente aumenta sul pianeta e a più gente bisogna dare risorse per sopravvivere. Siamo già arrivati quasi a otto miliardi di persone. Fermiamoci! Basta! Il salto tra vivi e morti, ogni giorno, è un positivo di più di duecentomila persone. Ottanta milioni all’anno. E questo non può che spostare ogni giorno il raggiungimento della sostenibilità.

Tra l’altro il cambiamento climatico probabilmente porterà a delle immigrazioni di massa molto più devastanti dal punto di vista socio-politico di quelle attuali.

Sicuro. Ci sarà uno stravolgimento di tipo geopolitico e quindi militare perché nel momento in cui si mettono in moto masse dell’ordine delle centinaia di milioni di persone è chiaro che salta l’equilibrio. Ma in ogni caso quello che volevo dire è: se io ho duecentomila persone in più oggi che fanno la fame – perché il salto avviene soprattutto in Africa e in Asia, dove le condizioni sono diverse – non posso accettarlo. Da un punto di vista etico devo contribuire e sperare che abbiano un livello di sostentamento dignitoso. Ma allora consumeranno, consumeranno più o meno come noi, e allora la sostenibilità non sarà possibile.

Durante la prima fase della pandemia ho scelto bene i libri da leggere, molto angoscianti. Uno di questi libri è Realismo capitalista di Mark Fisher: è splendido. Fisher purtroppo è morto giovane. Per lui tre sono i problemi più grandi del sistema capitalistico: che non si parla di salute mentale ma solo di malattia mentale; che si parla tanto di efficienza quando in realtà il capitalismo è altamente burocratico; e per ultima cosa, importantissima, che il mondo sta morendo. Mette al centro la crisi ambientale.

Ho sostenuto sia necessario cambiare il sistema economico, descrivendolo come il sistema della crescita infinita in un mondo finito, sul piano fisico. Questo corrisponde, semplicemente, alla logica del capitalismo estrattivo. Lo chiamo così perché mi interessa focalizzare l’attenzione sul principio fisico che vieta l’esistenza di un sistema del genere senza conseguenze. E invece le conseguenze le avremo tutte, fra un po’ ce le prendiamo tutte sulla schiena.

E, tra l’altro, la pandemia ci ha fatto accorgere tutti che siamo in una precaria salute mentale, che siamo dentro un sistema iper-burocraticizzato per cui una persona non può andare a correre al parco ma può andare a scuola a trenta centimetri da un altro ragazzo con una mascherina chirurgica, e al contempo che il mondo sta morendo. Come ha detto lei in un’intervista, non ricordo quale, il fatto che ci siamo fermati per tre mesi non ha diminuito quasi per nulla l’emissione di CO2 nell’Atmosfera.

È stata una pausa decisamente trascurabile: si è visto un effetto ma riguarda soprattutto l’inquinamento in senso stretto non la produzione di anidride carbonica. Comunque, ogni miglioramento è ad oggi completamente annullato. 


È abbastanza inquietante. Ci vorrebbe un cambio non solo politico ma di pensiero.

È chiaro che ci vuole un cambio di consapevolezza sociale ad ampio raggio, che non può essere soltanto la politica. La società non è pronta né alle rinunce necessarie sul piano ambientale, né a cambiare il sistema capitalista. Non vedo oggi grandi possibilità, per quanto ci siano degli inviti anche molto autorevoli, perché il segretario generale delle Nazioni Unite ogni giorno ribatte sul chiodo del rischio grave per l’umanità causato dalla crisi ambientale. Ma non lo ascolta nessuno.

Tra l’atro, ultimamente è uscita una bellissima collana di una casa editrice, Nutrimenti. La collana è The Big Idea. Il primo libro si intitola Possiamo salvare il pianeta? – e la risposta è no, ovviamente – e il secondo Dovremo essere tutti vegani? Crede che l’industria alimentare delle carni sia uno dei problemi?

Ma certo. La riduzione del rischio ambientale è possibile attraverso il risparmio energetico da una parte, la riduzione dei viaggi e la riduzione della carne nella dieta. Anche io essendo italiano sono tradizionalmente onnivoro, ma mi definisco, con espressione anglosassone, un reducitarian. Una corrente che non ho inventato io, ma che c’è già, e il termine mi piace. Il reducitarian è colui che riduce la carne a un livello molto modesto nella propria dieta invece di farla aumentare, perché, tra l’altro, la pressione culturale in tutti paesi è in direzione dell’aumento del consumo di carne, al punto che nei paesi anglosassoni la dieta richiede circa 100-110 Kg di carne pro capite all’anno. Io mi accontento di una quindicina di chili.

Dobbiamo fare qualcosa, dobbiamo cambiare qualcosa noi.

Torniamo alla stessa domanda: che cosa possiamo fare? Posto che devono cambiare quelle due grandi condizioni – ma non siamo io e lei a decidere.

Ma non c’è modo? Noi abbiamo provato a scendere in piazza, ma la protesta viene riassorbita dal capitalismo, fa parte dell’ideologia capitalista.

Hai ragione. Non saprei. Mettiamoci tutti insieme a spremerci le meningi: io non ho le risposte a tutto. Chiaramente c’è possibilità di agire quotidianamente, individualmente: prima di tutto sulla casa, come punto importante di dissipazione energetica, può essere resa più efficiente (con cappotti termici, vetri tripli, pannelli solari…): tutto ciò che facciamo per le nostre case può dare un enorme risparmio energetico e di emissioni. In secondo luogo sul cibo: riducendo la componente carnivora nella dieta, privilegiando la filiera corta, la produzione locale, stagionale. Infine sui trasporti. Prima del covid eravamo affetti come da una bulimia dell’aereo. Io per esempio ho deciso di non volare più da ormai tre anni: non prendo più l’areo. Basta. Dobbiamo anche sfruttare di più le risorse tecnologiche per limitare gli spostamenti: il telelavoro sostituisce un viaggio fisico, quindi bene. Se evita di prendere la macchina, il treno o l’aereo, viva le videoconferenze. 

Negli ultimi vent’anni la deforestazione ha mangiato quasi il 10% dell‘Amazzonia



Sì. Però è sotto gli occhi di tutti che lo smartworking stia influenzando molto la salute delle persone, fisica e mentale.

Come sempre c’è modo di utilizzarlo, non sotto la pressione della pandemia. Io spero che decideremo in futuro di usare il telelavoro spinti dal ragionamento e dal senso della misura: non sempre, ma in tutti i casi in cui si può utilizzare senza rischiare questo genere di danni: a casa mia lo sto usando con ottimi risultati e le mie emissioni sono infinitamente diminuite. Io prima viaggiavo fisicamente per andare a fare una conferenza, ora la faccio dal computer di casa. Prima erano 150-200 kg ci C0², anche in treno, oggi sono 100 g.

È l’impatto della singola persona: c’è una sorta di cortocircuito secondo me abbastanza ipocrita, per cui il singolo dice che dovrebbe fermarsi il mondo, il mondo dice che dovrebbe fermarsi il singolo.

È vero. Io non dico di fermarsi, perché sarebbe assurdo, io dico di rallentare e scegliere, perché è sempre una scelta: se devo scegliere dove fare le vacanze vado a 100 km da casa mia invece che andare a NY o alle Maldive. Non mi sono fermato: io faccio lo stesso la mia esperienza di viaggio, ma la faccio in un posto ragionevolmente vicino dove il livello delle emissioni è contenuto.

C’è un libro bellissimo, uscito per Nottetempo, si chiama Esiste un mondo a venire? È un saggio sulla paura della fine. Gli autori sono Danowski e De Castro. Per loro è più facile che alla crisi climatica sopravvivano gli indio, a parte per la “cosmologia” che li accompagna, perché sanno trarre il meglio con misura dall’ambiente circostante. Quello che mi chiedo è: dobbiamo correre al riparo anche a livello tecnico?

Ma certo! Ho scritto un libro che si intitola Prepariamoci. È saggio oggi chi comincia a investire un pezzo delle proprie risorse culturali ed economiche per prepararsi a quel futuro difficile. Io l’ho fatto, e infatti spero di essere compreso fra quelli che sopravviveranno: so coltivare l’orto, e io invece di andare a fare le vacanze alle Maldive, ho comprato con i miei risparmi un pezzo di terra, e lì coltiverò i miei cavoli e le mie patate. I pannelli solari mi daranno l’acqua calda per fare la doccia e l’energia elettrica. Ovvio che quando capitano stravolgimenti globali è un po’ aleatorio dire: io resisterò nel fortino mentre il resto del mondo frana, questa è una stupidaggine. Però, nei limiti di una caduta graduale, quindi non della catastrofe immediata, io mi sto preparando, sto costruendo la mia resilienza personale di fronte ai cambiamenti climatici, che sostanzialmente vuol dire autonomia energetica e autonomia alimentare.

In questo momento in architettura va molto il modello di Boeri, che mette delle piante, della verdura, fuori dai balconi. Quella è l’immagine del capitalismo: stiamo morendo dentro, c’è il cemento, però ci sono le verdure fuori dalla finestra, che fanno colore. Questa non è transizione ecologica. Da dove abito io, a Milano, i boschi verticali tendono al grigio e hanno una mostruosa gru per l’irrigazione dell’acqua. A parte questo, per tradurre le città in città sostenibili probabilmente bisognerebbe eliminare tutti i trasporti potenziando i pubblici e convertire tutti gli spazi liberi in orti urbani.

Cose che diceva già uno dei capostipiti dell’urbanistica italiana: Giovanni Astengo, nel 1946. Fra qualche anno, qualche decennio, le cose cominceranno a farsi più dure, peggio del Covid, perché i segnali di crisi ecologica emergeranno e a quel punto lì chi non si è preparato soffrirà di più; chi si è preparato forse riuscirà ad avere una vita decente, niente di più.

La mia generazione vive un ossimoro: viviamo in una società che ci chiede di performare come se nulla stesse succedendo, nonostante noi siamo perfettamente coscienti del fatto che sta crollando tutto. Ci comportiamo come degli avatar. Bisogna correre ai ripari. Anche perché con tre gradi in più oltre il 90 % della popolazione mondiale potrebbe non sopravvivere.

Non c’è dubbio, è sicuro. Mi sto battendo per non lasciare un pianeta troppo invivibile, ma so già che una parte inevitabile di questo danno ci sarà e che voi vivrete comunque peggio della generazione precedente. Sicuramente rispetto alla generazione del boom economico voi sarete i primi a percepire più rischi e meno risorse. I rischi sono anche di ordine geopolitico. Più siamo più il rischio bellico aumenta. Non dimentichiamo del rischio nucleare. Come diceva Robert Frost, «il mondo finirà nel ghiaccio o finirà nel fuoco?». Possiamo dire che il mondo rischia di finire in due fuochi: uno rapido ed uno lento. Può finire nel fuoco rapido di un conflitto nucleare, e allora anche il mio orticello non serve assolutamente a niente; e può finire nel fuoco lento del cambiamento climatico, e allora lì ci saranno nicchie qua e là di sopravvivenza.

La prossima intervista è a un economista. Vorrei chiedere a lui se esista una possibilità economica oltre il capitalismo.

Ci sono dei modelli noti da anni, solo non vengono considerati perché il capitalismo li esclude a priori. Per esempio il modello dello stato stazionario elaborato negli anni Settanta da Herman Daly. Oppure il modello di Latouche della decrescita, felice o infelice che sia: è stato rispedito al mittente nel momento in cui è stato proposto, non c’è stata un’analisi seria. Adesso abbiamo il modello della ciambella elaborata da una economista inglese. Sono tutti modelli respinti dal capitalismo imperante. Draghi non li considera modelli di questo tipo, perché ha una visione dell’economia mainstream anni Sessanta e settanta legata alla crescita uber alles.

Io sono convito che possiamo rallentare la crisi climatica, possiamo ridurre i danni, ma non possiamo più pensare di poter consegnare alle generazioni future un mondo migliore, perché non sarà migliore. Cerchiamo di consegnarlo non troppo peggiore di come è adesso. La sofferenza ci sarà, possiamo scegliere se sarà tanta o poca. Non sono per niente ottimista, perché in trent’anni sono cambiati soltanto gli indicatori del danno.

Una lezione di Luca Mercalli per TedX

Luca Mercalli (Torino, 1966) è un climatologo italiano. Presiede la Società Metereologica Italiana. Svolge diverse attività didattiche e si occupa di divulgazione scientifica. Ha fondato Nimbus, portale italiano di meteorologia e clima. Gli ultimi suoi libri sono: Il clima che cambia. Perché il riscaldamento globale è un problema vero, e come fare per fermarlo (BUR, 2019); Non c’è più tempo. Come reagire agli allarmi ambientali (Einaudi, 2020); Salire in montagna. Prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale (Einaudi, 2020).