Testo di Emanuele Coccia, traduzione dal francese di Alberto Parisi
Siamo ossessionati dal suolo. Ci diamo un’identità in funzione della porzione di suolo che ha ospitato la nostra venuta al mondo. Misuriamo la proprietà privata a partire dalla geometria del suolo. Pretendiamo avere delle radici che ci legano a lui. E tuttavia il nostro vero spazio di vita non è il suolo, ma il cielo: infatti, tutto lo spazio che esiste dalla pianta dei nostri piedi fino alle frontiere della Via Lattea e oltre è già tutto cielo. Non c’è alcuna soluzione di continuità né un cambiamento radicale di composizione: questa immensa radura composta da degli elementi in perpetua mescolanza e nella quale noi possiamo circolare liberamente ospita, oltre alla nostra persona, le nuvole, gli uccelli e gli animali di altri pianeti. Noi non ci avventuriamo troppo dentro, perché una forza ci trattiene, ma nonostante la nostra piccolezza siamo anche noi dei semplici coinquilini del sole e delle altre stelle. Pretendiamo di essere attaccati alla terra e tuttavia noi non «entriamo» che raramente nel suolo… Ci spostiamo con una porzione di cielo che ci abbraccia, permette il nostro movimento e – ancora più importante – la nostra respirazione. Siamo costantemente in cielo, anche se la maggior parte del nostro tempo ne occupiamo una porzione minima, quella che abbiamo addomesticato.
Questa presa di coscienza è importante non solamente perché cambia radicalmente le idee che abbiamo sulla nostra identità, ma anche perché ci libera dei gravosi compiti che ci siamo imposti per restare fedeli a una realtà – il suolo, la terra – che non ci appartiene. Noi non siamo degli esseri terrestri: tocchiamo la terra con i nostri piedi, ma nuotiamo senza posa nell’etereo mare del cielo, là dove le sue onde sono più forti e si infrangono contro il nostro pianeta. A differenza di quello che succede sul suolo e sulla terra, dove il movimento è lento e spesso interrotto da eccessi di resistenza, in cielo tutto si definisce a partire dalla sua capacità di muoversi e di trasformarsi. È per questo motivo che in cielo non ci sono tracce che durino: il movimento si conclude senza lasciare resti e ogni azione è una metamorfosi. È per la stessa ragione che i venti, le nuvole non hanno né viso né storia: per loro è impossibile separare il passato dal presente. Il futuro non esiste che come aura del presente: impossibile proiettarsi più in là di qualche minuto.
Liberati dall’ipnosi del suolo, noi potremmo considerarci come delle nuvole o dei venti: degli esseri liberi che non si lasciano mai prevedere. Ma soprattutto, noi potremmo considerare gli altri come esseri che hanno lo stesso statuto di nuvole e venti, e riconoscere loro questa strana libertà che riconosciamo ai fenomeni meteorologici.
In effetti, anche se abbiamo addomesticato, per il nostro uso, una parte minima di cielo, non abbiamo mai immaginato di dominare quello spazio: nonostante l’addomesticamento, noi lasciamo al cielo domestico e addomesticato, e a tutto ciò che lì risiede, la libertà infinita di essere quello che vuole essere. Tutto può accadere nel suo grembo: pioggia, vento, tempesta, bel tempo. Non si tratta mai di dominarli, ma di adattarsi a questo strano Sconosciuto che abbiamo intorno quotidianamente, che cambia spesso d’umore ma che ci sorprende senza sosta. Si sbaglia se si considera questo atteggiamento come una forma di passività pura: noi non siamo passivi verso il cielo, ma gli accordiamo tutta la libertà di agire. Non chiediamo al cielo di tenersi in quell’equilibrio che cerchiamo in maniera ossessiva dappertutto sulla terra. Infatti, l’approccio che abbiamo verso il suolo è radicalmente diverso: non solo abbiamo bisogno di registrare ogni traccia di quello che accade sulla sua superficie, di dominare e sfruttare ogni evento che emerge dal suo corpo. Perfino l’ecologia è spesso presa da questa pretesa di dominio e previsione.
Forse ci sarebbe bisogno di imparare a rapportarsi al suolo e alla Terra, come noi ci rapportiamo al cielo: concedergli la libertà che noi concediamo agli altri pianeti. Bisognerebbe trasformare la nostra ecologia, la nostra architettura, le nostre scienze sociali in una specie di meteorologia del paesaggio, o di meteorologia generale dei corpi e degli affetti. Vedere negli altri esseri umani, nelle piante, negli insetti, negli animali, la stessa autonomia delle nuvole, dei venti e delle piogge. Rapportarsi a loro non significherà più volerli dominare, ma semplicemente acclimatarsi, calibrare la propria vita in funzione del tempo che fa oggi.
Emanuele Coccia è maître de conférences all’EHESS di Parigi. Filosofo italiano, scrive sia in francese sia in italiano. Tra i suoi libri più famosi: La vita sensibile (il Mulino, 2010), La vie des Plantes. Une métaphysique du mélange (Rivages, 2016), Métamorphoses (Rivages, 2020) e Filosofia della casa (Einaudi, 2021).
Questo testo è stato tradotto dal francese da Alberto Parisi. L’originale, dal titolo “Le pieds dans le ciel,” è stato pubblicato su Libération all’interno della rubrica Points de vie di Coccia, che appare in alternanza con quelle di Paul B. Preciado e Pierre Ducrozet.
In copertina: Alex Prager, Glendale, 2014
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