editoriale hackerato

“Ragazzi, sono veramente euforico”– Editoriale hackerato

In questo editoriale, partendo dalla perdita del suo profilo Instagram per mano di un bot, Dimitri Milleri riflette sui paralleli fra l’incisione di un disco e la cura di un profilo Instagram, l’hackeraggio e la trasparenza dei dispositivi, inaugurando il nuovo filone tematico di lay0ut magazine, sono hackerato; nonché l’apertura del canale Tik Tok della rivista.


I. Hackeraggio e performance perfetta

Incidere un disco di musica classica da solista, oggi, significa reinventare l’immagine di un certo repertorio a partire da centinaia di diapositive. Chi suona, in queste situazioni, di norma non sa esattamente cosa stia suonando. Non soltanto si trova nel punto peggiore per ascoltarsi, letteralmente attaccato alla fonte sonora, ma deve tenere conto dei microfoni, macchine sconosciute dall’apparato uditivo alieno. Nello spazio che separa la sala di registrazione dalla sala di regia, si creano i presupposti per un breve episodio di schizofrenia controllata.

Chi suona smette di contare sulle sue orecchie:  attraverso una cassa collegata alla sala di regia, il tecnico gli racconta come le onde, trasformate in segnali elettrici e arrivate alla scheda audio per essere convertite in informazioni digitali, raggiunto il computer e riconvertite in segnali elettrici, tornano udibili dentro le cuffie. Così si va avanti per aggiustamenti e tentativi, sparando bendati contro qualcosa che non si vede: il suono prodotto, il suono ascoltato e il suono riprodotto diventano quindi tre realtà discontinue, tre tracce discontinue di uno stesso evento fisico.

C’è di più. Le registrazioni sono segmentate a mo’ di ciak e vanno avanti per ore, finché non si riesce ad ottenere almeno una resa ottimale di ogni elemento dei brani. A partire dai ciak, il tecnico realizzerà il suo mosaico temporale, costruendo un evento mai accaduto a partire dagli accaduti realmente. Questa è la procedura dell’editing: un taglia e cuci di frammenti musicali più o meno estesi, volto a produrre un non plus ultra performativo, un’esecuzione ipotetica in stato di grazia. Separati dai suoni e separati dai risultati: anche se un virus dovesse infettare il computer del tecnico e interferire con l’editing, si tratterebbe solo di un’hackeraggio ulteriore nei confronti dell’identità del musicista e dei suoni documentati. Una traccia infettata, piena di tagli sbagliati e acusticamente incoerente diventa in realtà un oggetto trasparente, si mostra per quello che è: non una ‘traccia’, ma una costruzione pluriautoriale. 

Screenshot del mio hackeraggio 🙁

II. Storia di un hackerato

Quando il mio profilo instagram è stato hackerato, del resto, mi trovavo di fronte a un set di microfoni, nella chiesetta del conservatorio di Vicenza, e stavo incidendo il II movimento della Sonata Clàsica di Manuel Maria Ponce. Avrei capito che si trattava dell’attacco di un bot dai numerosi allarmi ricevuti, che ovviamente non potevo vedere, mentre suonavo cercando di evitare che i sensibilissimi AKG captassero, col suono, anche i respiri. Nel frattempo il bot già pubblicava un post delirante intorno ai guadagni ottenuti dal mining di bitcoin, rilanciato ad arte nei DM verso le chat più disparate. Interrogato dai miei contatti, il bot si è costituito: “sono hackerato”, così ha scritto.

Accortomi del fattaccio, oltre alla difficoltà nel proseguire la registrazione, è cominciata una sequela di tentativi standardizzati di riappropriazione, incentrati sull’invio di video-selfie al centro assistenza di Instagram per dimostrare che io sono io, in effetti. Eppure – con o senza barba, con gli occhiali da sole o gli occhiali da vista, con i dilatatori azzurri o neri e le varie combinazioni – non c’è stato verso di convincere l’AI che queste immagini sono me, sono di quello che spunta dalla foto profilo.

fuckyou.design

III. Dispositivi eterni, hackeraggio e trasparenza

Con il passare dei giorni, allo sconforto si è aggiunto un prevedibile senso di liberazione e, all’ultimo, di scoperta. O una sorta di rivelazione: così come la semplice registrazione opera già un hackeraggio sul performer, modificandone il comportamento, e la performance, distorcendone sia la situatezza acustica che l’unità temporale, allo stesso modo i social come Instagram, e a fortiori Tik Tok, hackerano le strategie cognitive e la rappresentazione della nostra vita su cui sono incentrati. E infatti non è un caso se a un certo punto la bacheca di Facebook si sia trasformata in diario, né è casuale che Valerio Cianci abbia parlato della circolazione digitale come di una speciale epidemia, proprio qui su lay0ut.

Saremo sempre e siamo sempre stati collusi e in continuità con i dispositivi, fin dalle selci scheggiate e da prima ancora. Non solo ci sono serviti: hanno cambiato le nostre strutture cerebrali profonde, ci hanno permesso di immaginare nuovi pensieri, persino nuovi movimenti e rappresentazioni di noi. La nostra mente è fuoriuscita, si è estesa in essi, li ha colonizzati e si è fatta colonizzare. Quando un dispositivo viene hackerato perde la sua apparente naturalezza, e ci ricorda quanto la sua struttura e le sue logiche ci condizionino, quanto la convivenza che instauriamo sia stretta. Negandomi il controllo e il possesso delle mie immagini, il bot ha problematizzato la trasparenza del mio profilo.

Photo Busts by Gianluca Traina

IV. Alla scoperta delle identità

Partendo da qui, quest’anno con lay0ut magazine abbiamo deciso di indagare cosa significhi  essere hackerati, produrre e decostruire identità a colpi di gesti, enunciazioni e immagini. Oppure appropriarsi di quelle altrui. Azzardando una terminologia più specifica e meno chiara, potrei cominciare dicendo che su un piano di immanenza radicale, ogni ente o soggetto è legato agli altri, ogni azione ha un effetto, tutti gli eventi si influenzano.

Come la nostra azione sui social è hackerata (distorta, determinata) dal fatto che non possiamo modificare le loro strutture, ma solo produrvi contenuti, così la loro azione su di noi è hackerata dal modo in cui ‘siamo’, in senso eco-psico-biologico. E alla fine chi lo sa, magari potremmo scoprire che oltre questo reciproco agire c’è poco o niente, e le identità non le abbracciamo mai, come sabbia che inesorabilmente scorre via dalle mani.


Leggi anche gli altri editoriali di lay0ut!

In copertina: Photo Busts by Gianluca Traina