Benvenut* in Presa d’aria, rubrica di poesia inedita e poetica a cura di Matteo Cristiano, Riccardo Innocenti, Dimitri Milleri e Noemi Nagy. Presentiamo oggi i testi di Marco Villa, già autore di Un paese di soli guardiani (2019, Amos 27). I testi proposti segnano nuovi passi nella ricerca di Villa, in bilico fra le tentazioni di un’ascesi contemporanea, fatta di ipercontrollo e consapevolezza di sé, e il bisogno di accettarsi come soggetti in itinere, lasciando entrare l’amore . L’intervista, realizzata in tempo reale tramite Zoom, è a cura di Dimitri Milleri.
Intervista a Marco Villa
D.M. Un paese di soli guardiani (UPDSG) muoveva dall’inversione dello stigma associato alle soggettività auto-sorveglianti, pur riconoscendone i limiti e le criticità. Nel libro, un soggetto di questo tipo attraversa varie possibilità di vita piena cui corrispondono varie forme di ascesi occidentale, fra cui trionfa quella dell’abbandono del pensiero proposizionale e la ricerca di una presenza al quadrato. In questi testi, invece, mi sembra che abbia una grande importanza la simulazione, l’aderire a un modello etico solido e semplificato. Cosa pensi di questa lettura?
M.V. Quello che dici è vero, ma, nella mia testa, io percepisco una continuità. Già in UPDSG sentivo l’esigenza di staccarmi da me, di dis-identificarmi a fini etici e conoscitivi. Fare l’esperienza di una liberazione dalle pastoie dell’ego. Le poesie che ho scritto negli anni successivi mi sembrano proprio riprendere e battere su questo punto della dis-identificazione per approfondirlo. Quella bidimensionalità è inattingibile, ma è ad essa che si guarda per tentare un’uscita da sé. Sono tentativi di dis-identificazione che però passano attraverso l’identità, e quindi in questo senso hai ragione.
D.M. Provo a spiegarmi meglio: mentre in UPDSG il progetto di dis-identificazione mi sembrava una questione che si realizzava nel rapporto dell’io con se stesso, nelle poesie che hai proposto mi sembra comparire una strategia diversa: ci sono dei modelli a cui si tenta di aderire, delle figure appunto, e, di conseguenza, l’azione non è solo di tipo sottrattivo e rivolta a sé: si cerca invece di imitare, di diventare l’altro.
M.V. Quell’io è un centro che resta e a cui si ritorna, purtroppo o per fortuna. Il punto è proprio che la difficoltà pratica di dis-identificarsi, per essere rappresentata, ha bisogno di qualcosa di più della semplice rimozione intellettualistica dell’io, come in certa poesia e certa teoresi troviamo abbastanza spesso. L’idea è di sradicare certe abitudini intellettuali, emotive, sentimentali… Insomma: la strada è difficile.
D.M. Concordo, ho sempre trovato la rimozione grammaticale dell’io dai meccanismi di produzione di senso un’operazione piuttosto superficiale. Quello che mi interessa è infatti poter fare un’esperienza incarnata di dis-identificazione attraverso il testo, e non la mimesi di una serie di concetti. A me interessa il testo come device, come mezzo pratico per fare un’esperienza, e non come discorso.
M.V. Ecco, per me si tratta di un’esperienza che il testo fa fare sia allo scrittore che al lettore, nel momento sia della produzione che della lettura. Per me è sempre più importante, anche se l’espressione potrebbe non suonare bene, il valore strumentale della scrittura. Mi interessano le ricadute che un testo poetico ha sul modo di pensare di chi lo incontra, e non solo a livello logico-intellettuale. C’è una componente latamente didascalica, se vogliamo, anche se “didascalica” suona ancora peggio di “strumentale”.
D.M. Di questo si potrebbe parlare per ore, ma adesso vorrei passare a quello che percepisco come un limite sia di UPDSG sia dei testi che ci hai consegnato: se questa soggettività incarnata a cui si torna è sempre guardata con sospetto ed è sempre diminuita, si crea un cortocircuito per cui la forma di amore che si cercherebbe verso gli altri e verso il cambiamento è negata proprio a quel centro che dovrebbe realizzarla. Quindi la mia domanda è: dove finisce l’ascesi e inizia l’estetismo? Dove finisce l’intransigenza etica e dove inizia la vigliaccheria?
M.V. C’è il rischio che questa impostazione abbia qualcosa di regressivo, qualcosa della fuga. Il fatto è che nella mia prospettiva queste fuoriuscite, a cui seguono ritorni, effettivamente lasciano una traccia, una migliore conoscenza di sé. In una prima fase questa passa attraverso una decostruzione del sé che ci siamo realizzati negli anni, ma il processo punta alla costruzione di una nuova unità, che sia (usiamo questa parola un po’ usurata) più autentica della prima, oppure più valida, semplicemente. Di questo non posso parlare ancora perché non sono ancora a quel punto, e sarebbe barare, ma è qualcosa che ho in mente, ed è presente proprio nell’ultimo testo che vi ho mandato [
Visto il disastro dell’interiorità]. L’idea è che dopo la dispersione e dopo la dis-identificazione il soggetto si dia di nuovo una forma, e questa renderà possibile ciò che prima non lo era (l’amare). Quindi quello che dici tu ha senso, ma se questa operazione è osservata da una prospettiva più ampia, per me perde la sua carica regressiva. Poi magari gli anni mi smentiranno, speriamo di no [ride].
D.M. Sì, diciamo che quello che non mi tornava in UPDSG era che questa possibilità di darsi, di agire liberamente, era sempre accennata e mai vissuta, ci fornivi le istruzioni ma mai l’esperienza vera e propria. E mi faceva strano, perché la preparazione di quell’esperienza, che pure traspariva dal libro, mi sembrava matura, sufficiente a tentare il salto. O magari era che non c’era ancora niente verso cui saltare.
M.V. È molto bella questa cosa che dici, in realtà. Sicuramente all’altezza di UPDSG non mi sentivo ancora pronto, e quindi parlare di quel salto avrebbe significato presentare una sintesi a cui però arrivavo solo a livello intellettuale, e non esperienziale. Sarebbe stata una falsificazione, se vogliamo usare un termine vagamente adorniano. Adesso le cose stanno un po’ cambiando, ma ho la sensazione che la strada sia talmente lunga… Però forse hai ragione, dovrei interrogarmi un po’ di più su certe possibilità di sfondamento, oppure semplicemente lasciarle succedere quando succedono nella scrittura.
D.M. Il punto è che la percezione della sufficienza, della pulizia, della capacità di accogliere l’altro… Si spostano con il grado di maturazione stessa, e se non si è pronti ad accettare l’imperfezione del percorso, il momento in cui l’altro può effettivamente entrare non arriva mai.
M.V. Non so più qui se sto ragionando sulla scrittura o su di me, confini non ce ne sono, però questo desiderio di controllo mi appartiene, ed è un problema. Ci provo eh a lasciar andare, a sporcare, ma non è facile.
D.M. C’è un fondo luminoso nell’ascesi, e poi c’è un fondo oscuro. Il fondo oscuro ti porta a pensare che il fatto di essere in vita debba essere giustificato attraverso una cura formale totalizzante, e questo è bellissimo, ma anche estremamente stupido, e può portare a una certa rigidità, a un’arroganza involontaria. Per esempio: aver lasciato quella dichiarazione esplicita, aggressiva, alla fine del primo testo di UPDSG (“ho pensato di scrivere sul disprezzo del mondo”) mi fa pensare a una frustrazione, a una marcatura che comprendo, ha il suo senso, ma più passa il tempo e più mi dico “se la poteva (e me le potevo) risparmiare”.
M.V. Quello l’ho lasciato proprio perché era il primo testo del libro. Non era bello, però era giusto, c’era.
D.M. Apprezzo molto questo impegno testimoniale, che in realtà non mi appartiene molto. A me infatti interessa meno rendere visibile il percorso, mi interessa lasciare il meglio, così che l’altra persona lo attraversi.
M.V. È interessante, non ho una risposta su quello che sia meglio fare. A me viene così perché altrimenti mi sembrerebbe di barare, però mi rendo conto che non è così per tutti, non è così per forza. Dipende anche dal tipo di rapporto che vuoi instaurare con il lettore. E non è detto che in questa cosa io non possa cambiare.
D.M. A questo punto vorrei chiederti: cosa senti che ti manca, al di là delle cose di cui abbiamo parlato? Cosa non ti soddisfa della tua produzione, su cosa vorresti lavorare?
M.V. La prima cosa che mi viene in mente è legata a quello che dicevamo, ed è una sorta di sfondamento, se posso dire così. Vorrei lasciarmi andare e sfuggire a quell’ansia di controllo. Per esempio: negli ultimi anni sto scrivendo quasi solo in versi, non sto scrivendo più prosa. Uno dei motivi è che il modo in cui scrivevo in prosa era diventato troppo asfittico, troppo controllato, e avevo bisogno di una forma che mi permettesse più sporcizie, scivolamenti, stonature. Però da questo punto di vista qui non sono ancora soddisfatto. Vorrei riuscire di più a suonare male, a sfondare questa cappa. Vediamo.
Cinque poesie, Marco Villa
Vorrei essere un personaggio, o una figura,
come il tizio grasso con canottiera attillata
intento al suo hot dog, nominato di sfuggita
a p. 125 come dettaglio del paesaggio,
utile per caratterizzare il degrado
e la sporcizia e forse forse il calore vitale
di una Brooklyn al cambio di secolo
(cosa connoterei io? non importa);
oppure uno di quei ragazzi che corrono
solo per fare da effetto di realtà
al v. 4 di una poesia del secondo Novecento;
o la comparsa che in fondo al bancone
affoga nessuna disperazione nell'atto bellissimo
di ordinare un altro bicchiere,
e forse pensa al rapporto semplice
che lega la sua ovvia risposta al suo
ovvio fallimento...
Vorrei essere un personaggio, una figura
della morte o di un'altra vita,
vite che abitano in un gesto marginale,
dotate di profondità
ma di una profondità
tutta felicemente occupata in quel gesto
libera
ma la volontà è debole e presto
torno ammanettato, confuso,
alla mia capacità di fare del male,
e il dovere di amare.
[n.d.r.: questa poesia è l'unica fra le cinque a non essere inedita: è infatti comparsa nel terzo volume dell'antologia Poeti Italiani degli anni '80 e '90, a cura di Giulia Marini (Interno Poesia 2022)]
***
A un incrocio di Parigi, quasi sera,
un’aria già tiepida,
tra la luce violetta dal cielo, i primi lampioni
e le finestre, le scie del traffico,
la metro sopraelevata che gli cattura
per qualche secondo lo sguardo,
un ragazzo cammina per strada.
Ha un borsone pieno di vestiti e cammina
piano verso la laverie del quartiere.
Si guarda intorno
e vorrebbe dire che intorno è bellissimo
ma non può, perché tu sei il ragazzo
e hai una marea di pensieri e ogni cosa
che vedi è legata, ha un senso,
probabilmente lo stesso scopo che hai tu
mentre ti incammini verso la laverie.
Torni a fantasticare, quindi,
con il disagio di chi ha perso un’occasione
e si ricorda soltanto, a volte,
che vorrebbe guardarsi come un paesaggio.
(Come lo vedo io dalla finestra,
provando un “che bello” subito
affogato da una marea di pensieri
di scopi ecc. con cui torno
al lavoro molto fantasticando.)
***
Insomma conosciti, cresci, formati,
credi in chi diventi.
Lascia che si prenda tutto; se desidera
qualcosa, fidati.
Ogni cosa che fa segue leggi precise,
anche se non sembra,
anche se lui non sa niente, e non importa
cosa ti accade, ma dove sei
quando accade.
La sua comica propensione agli sbagli,
gli stessi sbagli, sempre (guarda: un destino!),
dice molto: se si dispera, fidati.
Soffri con lui, lascia che gli altri lo droghino,
sposa la sua causa, credici, diventalo,
nominalo re e sparagli in testa.
(Ora, per un sacrificio la si potrebbe pensare un po’ più rituale, ieratica. Ma sarai già oltre e non avrai bisogno di simboli. Quindi me la immagino più come una liquidazione dell’eroe senza troppi complimenti, di quelle che ormai si vedono nelle serie tv e la storia continua.)
Questa è l’idea.
***
John Wick is a man of focus, commitment and sheer willVisto il disastro dell’interiorità,
dei labirinti e delle bugie con cui
adatto la realtà alla mia paura
e cerco di darle una versione plausibile
e tortuosamente rassicurante,
meglio il santo, o almeno la figurina,
il nessuno con una sola espressione,
vuota e inquietante solo un po’,
che prima non è niente e poi, forse,
diventa l’eroe,
l’irremovibilmente centrato.
La sagoma di un uomo appiattito
in una morale piatta, tormentato
serenamente, che attraversa lo sfarzo della terra
e uccide in bianco e nero,
risolto in uno scopo inventato,
lui stesso troppo semplice per non essere inventato
e per morire
prima non è che energia e poi, forse,
prende l’unica forma che vuole.
Marco Villa (1989) è nato a Lecco; vive e lavora a Siena. È stato tra i fondatori del sito di poesia e poetica formavera.com; suoi testi sono usciti su vari blog e riviste. Ha pubblicato il libro di poesie Un paese di soli guardiani (Amos Edizioni, 2019), finalista al Premio Camaiore Proposta.
Leggi anche la puntata precedente di presa d’aria!
fonte dell’apparato iconografico: qui
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