In uno dei Racconti impossibili, Tommaso Landolfi ne combina una delle sue: comincia a raccontare, poi si accorge di vestire la lingua eccessivamente, di insomma “ritardare” la vicenda, quasi di renderla incomprensibile. Per cui, dopo un “Ma che cos’è…” retoricissimo, riporta la storia rimanente con l’aiuto di un elenco puntato. Il risparmio di tempo, di spazio, di energie è un falso problema: il punto sta nella diserzione dell’autore, nel sabotaggio del racconto. Leggendo, mi è venuto in mente Giorgio Pasquali, filologo leggendario, che in Storia della tradizione e critica del testo disarciona il galateo accademico (siamo nel 1934) riassumendo, in un “decalogo di dodici punti”, tutti i risultati della ricerca, per chi non avesse voglia o tempo di leggerla. Da un lato si incrina la struttura del racconto, dall’altro il saggio. Adesso: in entrambi i casi il punto è altrove, mai nella pigrizia (propria o altrui).
Cosa c’entra con Due vite (Neri Pozza) di Emanuele Trevi? Il romanzo è, sostanzialmente, un “vite parallele”, biografia a coppia di Rocco Carbone e Pia Pera, due amici dell’autore. Scrittori entrambi, ed entrambi prematuramente scomparsi. Ho detto “romanzo”, ma lo è non lo è, e in fondo non importa: il tono da “bestiario”, più che da biografia ufficiale o autorizzata, me lo fa vicino di tanta tradizione romanzesca; le digressioni, frequentissime, in ambito psicopatologico, letterario, socioculturale, me lo fa vicino alla saggistica. La serietà sbracata che Trevi si permette mi pare una risposta, tutto sommato comprensibile, un gioco affettuoso, ai due autori, che prendevano serissimamente la ricerca accademica, lo studio e la traduzione.
L’impressione che dà, condivisa da me e dai tanti conoscenti che l’hanno letto, è del classico, cioè di un’opera esatta in sé, chiusa, e in più, ad ascoltare i filosofi del linguaggio, infinitamente interpretabile. Il libro inaugura centinaia di strade senza batterle, allude a mille significati. Così viene l’impulso di uno studio, soprattutto a chi come me ha fatto Lettere, uno studio infinito, saggi accademici, perché no pubblicazioni. Primo passo: il recupero di tutto Trevi, poi delle sue curatele (e l’Immagine fantasma avrà un ruolo, se si tratta di fotografie non realizzate, di eventi irrimediabilmente perduti); secondo passo tutto Carbone, poi tutta Pera e via discorrendo. Mi salta in mano Istruzioni per l’uso del lupo:
Là dove fallisce, la lingua perde la sua naturale arroganza e buona parte del suo potere classificatorio: nei casi in cui questo accade effettivamente, ci troviamo in prossimità della cosa, del lupo.
Io credo che la critica sia – alla radice – un modo di amare le cose della vita facendo leva su questa reticenza, su questa provvidenziale avarizia che non consente mai al significato di rompere l’ultimo sigillo rivelandosi nella sua pienezza. È proprio la straordinaria omertà della bellezza […].
Per Trevi la filologia e la critica sono un atto d’amore, un conferire dignità “culturale, e non solo autobiografica, a questo batticuore”. E questa sensazione di quasi imbarazzo che ho provato a leggere Due vite non credo sia molto lontana dal batticuore.
Questa non è una recensione ma una rinuncia alla recensione, come forma di rispetto (etimologicamente, cioè di allontanamento) dalla cosa. Come per il quadro che si deve vedere da lontano per nascondersi alla tecnica e al brutale evento meccanico che gli fa da presupposto. Venga però, ecco Landolfi e Pasquali, l’elenco puntato. Si tratta di appunti scritti di getto, sul bordo. Marginalia:
- Il desiderio conoscitivo che “ispira” il libro (oggetto e soggetto) mi sembra il centro “pedagogico” del libro. Però (c’è un però) …
- L’urgenza del libro potrebbe essere prolungare la vita di un’amicizia, farsela presente, proiettarla, reificarla. Meglio: reificarla, perché l’amicizia è, fattualmente, conclusa. Non di scorcio, non si può parlare di questo libro tramite loro, né tramite lui, solo tramite il testo! Lascerei parlare il testo, includendo brani interi.
- Incipit: “Era una di quelle persone destinate ad assomigliare, sempre di più con l’andare del tempo, al proprio nome. Fenomeno inspiegabile, ma non così raro. Rocco Carbone suona, in effetti, come una perizia geologica. E molti lati del suo carattere per niente facile suggerivano un’ostinazione, una rigidità da regno minerale. A patto di ricordare, con i vecchi alchimisti, che non esiste in natura nulla di più psichico delle pietre e dei metalli.”
- Evidentemente (perché la Letteratura è, in qualche modo, autoevidente) emergono i temi: l’equilibrio precario tra mente e corpo: la SLA di Pia Pera, l’episodio maniacale e la depressione di Rocco Carbone. Sono correlativi oggettivi di uno scontro “ontologico”, che riguarda le strutture stesse della realtà, il mondo fisico e l’immaginazione. Parlare dell’universale sineddochicamente, cioè tramite l’infinetesimale.
- Questo libro è, in fondo, la ricerca di un ponte tra materia e immateriale, come per certa filosofia medievale. Come per gli alchimisti. Penso al libro di Laura Tripaldi, Menti parallele. Il valore dell’alchimia come tentativo teoretico di unione tra materiale e immateriale, vivo e non vivo (cosa che Tripaldi un po’ scardina). Trevi: “i capolavori sono sempre, in un modo o nell’altro, delle secrezioni organizzate, come se un corpo fosse capace di sudare cristalli o coriandoli, al posto delle solite banali e informi gocce”. Penso a Caproni: “Dal sangue al sasso”. Come per certa teoria dei vegetali, anche. O come in Voyage autour de ma Chambre di Xavier De Maistre: la reclusione forza, spinge alla separazione di “bestia”, tutta legata ai sensi, e “anima”, tutta legata all’immaginazione.
- Mente e corpo sono l’ossessione della psichiatria e della letteratura. Trevi: “Non è che la letteratura sia più «elegante», o più «metaforica» della psichiatria – meno che mai le si può attribuire d’ufficio un maggiore grado di autenticità o profondità. Vale più mezza pagina di uno scritto minore di Freud di intere biblioteche di romanzetti intimisti. E nemmeno si può dire che sia una questione di competenze, di orizzonte culturale. Ma una differenza esiste, e si potrebbe dire che è una delle chiavi più importanti dell’opera di Rocco, considerata nel suo complesso. La psichiatria, che è un modello di conoscenza che ha lo scopo di formulare diagnosi e stabilire terapie, per essere efficace deve astrarre, ridurre la molteplicità dei casi e dei sintomi a delle costanti, creare delle definizioni: isteria, paranoia, depressione, episodio maniacale… Al contrario, la letteratura deriva la sua stessa ragion d’essere dal rifiuto di ogni generalizzazione: è sempre la storia di quella persona, murata nella sua unicità, artefice e prigioniera della sua singolarità. E dunque la letteratura, se parla di una malattia, non potrà che trasformarla in una malattia senza nome, l’unica che si possa commisurare degnamente a quell’irripetibile intreccio di destino e carattere, contingenza e necessità che dà vita a un personaggio”. Corsivi miei. È un caso che Trevi poi citi Ottiero Ottieri? No: la butto lì (in mezzo: “Io credo che una testa piena di pensieri, caro Marco, sia come un mulo che un padrone avaro e sciocco ha caricato di troppa legna, e allora, nonostante le frustate, punta i piedi e non va da nessuna parte”, dalle Istruzioni): la mente dell’overthinker è immobile, un circolo vizioso narcisistico (non c’è connotazione etica). È impossibile uscirne vincitore, se si asseconda il pensiero. Anche se la sua assenza è inaccettabile: “La mente dev’essere occupata / dal dubbio. / Dal dubbio deve essere / occupata la mente. / Altrimenti che pensa la mente? / Che fa la mente imperplessa?”. L’ossessivo pensa che il mondo lo riguardi, che lo riguardi dal profondo ma come dici Trevi niente ci assomiglia, neppure noi stessi ci assomigliamo.
- Due vite che sono una, non platonicamente, non sentimentalmente, ma perché complementari: Pia Pera surroga il corpo alle piante (“il terreno considerato come una pagina e la coltivazione come scrittura”), Rocco Carbone surroga la mente alla scrittura. Non sono rimasti in piedi, sono zoppi. Sarebbero invece sopravvissuti, come elementi strutturali di un libro? Può darsi, intanto i puntelli, le travi, l’armatura d’acciaio, il cemento: Trevi cerca delle “ragioni” interne al testo della loro vita. Cerca delle corrispondenze, qualcosa che li faccia tenere. Che dia loro senso! È per questo che cita la traduzione fatta da Pia Pera di Puškin? (Sì, in quell’opera ci racconta la vita del suo amico Onegin).
- La grandezza del libro però non è “estrapolabile”, se si tira il filo si rovina tutto il maglione. L’anello che tiene, più di tutti, è la lingua. Alla fine – come a voler circondare i protagonisti della cura che si destina alle grandi opere (forse è un libro di Critica letteraria, e basta) – Trevi con un gioco di iperbati, anastrofi, tematizzazioni eccetera punta al “ritardo” dell’oggetto, retoricamente. Cioè al ritardo di significato, una sorta di suspense (perché lo vediamo l’oggetto, lo percepiamo il pericolo) stilistica. È un libro profondamente ironico, almeno quanto l’Ariosto per Contini: dissimulazione. Qui però per una assurda razionalizzazione, che non può, della morte altrui.
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In copertina: Erwin Wurm, One Minute Sculptures.