Benvenutə! Sei incappatə nel primo articolo della nuova rubrica L’incubo – immagini svegliate di Carlo Bellinvia, da poco unito alla ciurma di lay0ut in qualità di editor. In L’incubo Carlo si dedica a comparare immagini e costruirci una visione. In questo primo articolo le immagini (in copertina) sono un scatto della famosa Mano de Dios e la rappresentazione sistina dell’episodio biblico del peccato originale ad opera di Michelangelo Buonarroti: have fun!
Già mi stanno scorticando vivo
Michelangelo
Quando tra gli attori sistini della volta troviamo Eva e il diavolo, nella narrazione michelangiolesca sono nati già animali di fatto invertebrati. Eva, quasi paraplegica, è sostenuta di base soltanto dalla costola di Adamo; l’altro, nella serpe girata su più spire, cresce in alto nell’articolazione di rami e fronde. A questo punto i due non si reggono in piedi ma sanno che neppure quella nuova fisica è poi così robusta, avrà prossime derive continentali.
E, ancora: il serpente tatua alternando il tronco all’altra, Eva, che striscia faticosamente sul sommo di appena due cime di ghiaia grossa. Un colaggio cementizio allora tra i due trasmette di pugno in pugno il pomo, lo copre alla polizia divina. Comunque, per evitare il cedimento di tutta la slavina tonale, la pelle e i vasi vanno a traversarla in una trama di liana o edera, in modo da tenere l’ammasso appena si sporge, se compie evoluzioni aeree.
Anche le strisce azzurre e bianche appartengono al cielo e alla maglia di Diego Armando Maradona, il Pelusa, al suo sistema valoriale più in fondo, mentre traccia in aria con la mano al servizio di un’offesa debole, fragile in verità. Un atto quasi di repulsione per toccare per primo il frutto-pallone. Un gesto istintivo, un pugno tenero, come quello con cui si tiene fermo un pennello.
Quando usciva dall’opera, e mai del tutto, Michelangelo stava proprio sdraiato dentro un complesso, micidiale esoscheletro in assi di legno che, scomodissimo, finì con l’annientare anche il suo, di disegno vertebrale.
Certo, più molle del gesto maradoniano è lo sguardo arbitrale, preso, si spera, soltanto dall’incertezza per quel caleidoscopio di maglie in gioco. Il fatto storico da rivendicare per l’Argentina ai mondiali di calcio del 1986 è d’altronde la miserabile guerra (?) delle Falkland del 1982, quando l’Inghilterra e la sua marina umiliarono il lungo stato sudamericano: le Falkland pure sono terre venute dal nulla, esattamente come l’Eden, terre anch’esse ai confini del mondo. E il genio di Maradona vi farà attecchire la sua ribellione, diabolica. Ne ristabilirà i confini col gesso dei campi.
Nella mano di Eva si scioglie il messaggio che è stato colto, colto, vi si illude, la fa colta, coglie, è colta, cotta. La vite della serpe rientra qui per cinque anelli e dà a tutti, finalmente, quella sua celeberrima dritta ortofrutticola circa il pomo.
Di contro, il cielo ha un clero in un simile giorno e quel clero veste tutto una divisa albiceleste, una maglia argentina nel cielo spiegazzato, senza uno stiro. L’afa affanna e, allora, la ola prende il pubblico. Città del Messico, stadio Azteca. Lo stadio ricava la forma di una piramide rovesciata precolombiana, il suo campo è tutto in un’aiuola allucinante.
L’altra squadra (l’altra squadra?), l’Inghilterra, infine è uno spazzato canneto di giunchi bianchi senza alcuna fioritura, devastato dalle serpentine del Dieci con i boccoli e per ben due volte, sopra quel giardino mal organizzato.