Ha detto il fisico inglese Dirac: «Nella scienza uno prova a dire alla gente, in un modo che sia compreso da tutti, qualcosa che nessuno conosceva prima. Ma nella poesia è l’esatto opposto». Fisico bestiale è la rubrica a cura di Tommaso Favalli chiamata ad azzardare il verbale di un dialogo difficile ma non impossibile: quello tra scienza e letteratura. Qui sulle pagine di lay0ut non sono visti di buon occhio diaframmi tra le sfere del sapere, ché tutto in quanto umanamente esperibile può essere disteso in un linguaggio e condotto in un altro per un’esperienza di più profonda conoscenza, di salubre smarrimento. Non ci stupisce che una dimostrazione di fisica quantistica sia più evocativa di una poesia mediocre, né ci spaventa intuire dietro a una figura retorica di senso una lucidità e un potenziale trasformativo della realtà impossibili da trovare in qualsivoglia formula matematica.
Questo è il primo di tre interventi sul rapporto tra scienza e letteratura in Dante, nel 700esimo anniversario della sua morte, che abbiamo già celebrato giovedì 25 marzo con la pubblicazione delle poesie di James Merill nella traduzione di Flavio Santi.
In copertina: Michelangelo Caetani, Ordinamento dell’inferno (1855)
A parte qualche esempio rilevante nell’area della poesia di ricerca (pensiamo a Il volo degli uccelli di Giulio Marzaioli, Benway Series 2019), oggi generalmente esiste una frattura tra sapere letterario e sapere scientifico, tra l’espressione poetica e l’analisi dei fenomeni naturali, spesso considerata fredda e complicata. Tale frattura non si verificava nell’uomo medievale e certamente non esiste nell’opera di Dante Alighieri. All’epoca del poeta fiorentino infatti lo scibile era suddiviso in trivium e quadrivium, ma ogni disciplina contribuiva in modo analogo a una completezza culturale. Quello che a mio avviso appare evidente all’interno dell’opera dantesca è un incondizionato amore per la conoscenza delle realtà divine e di quelle terrene, loro fine e compimento secondo Dante. Non è un caso che la Divina Commedia racconti più di ogni altra opera il mondo ultraterreno, mettendo a tema le realtà umane del mondo. Alla luce di questo apparente paradosso, all’interno della Commedia troviamo magnificamente descritti i sentimenti, i peccati, l’amore, le vicissitudini politiche, i vizi e i desideri dell’uomo; e tutto questo è immerso in una cornice – il cammino attraverso i tre regni – dove emerge chiaramente lo stupore per la bellezza e la complessità dell’universo per come Dante lo immaginava.
È dunque questa spinta incondizionata nel «seguir virtute e canoscenza» (Inf. XXVI, 120) che porta Dante a descrivere minuziosamente il suo mondo ultraterreno, illustrando in modo preciso e attento la cosmologia del tempo, che è considerarsi sostanzialmente una diretta derivazione della concezione aristotelico-tolemaica dell’universo, filtrata attraverso la riflessione operata nella prima metà del XIII secolo da Tommaso d’Aquino. A questa, Dante aggiunge ovviamente alcuni elementi frutto della sua fantasia e della sua creatività (si pensi alla struttura dell’inferno, alla montagna del purgatorio o alla candida rosa); elementi che sono però ben inseriti e sapientemente descritti e giustificati all’interno del quadro generale.
Non è però questo lo spazio per discutere la cosmologia dantesca. Piuttosto vale la pena soffermarsi su alcune “attenzioni” di carattere fisico e scientifico sparse all’interno dell’opera di Dante. Tralasciamo dunque gli elementi più conosciuti ed evidenti – come la descrizione dei nove cieli o i continui e precisi riferimenti astronomici – e iniziamo con il notare alcune minuzie di grande importanza. Pensiamo a come le anime del purgatorio si stupiscano del fatto che Dante faccia ombra o a come la barca di Flegiàs sul fiume Stige sembri carica solo dopo che Dante vi è salito. O ancora, pensiamo come il poeta descrive la catabasi nella valle infernale sul dorso di Gerione, nel buio, attraverso la sensazione percettiva del vento che spira dal basso. Queste sono tutte finezze che mostrano come in ogni passo del grande poema ci sia un’attenzione quasi maniacale sui dettagli fisici, per rendere il viaggio ancor più credibile per i lettori. L’episodio di Gerione è forse l’esempio perfetto:
Ella sen va notando lenta lenta; rota e discende, ma non me n’accorgo se non che al viso e di sotto mi venta.
(Inf. XVII, 115-117)
Supponendo infatti che Dante non si sia mai lanciato nel vuoto per sperimentare cosa si provi, si capisce come il poeta abbia estrapolato dati empirici dalla vita quotidiana e abbia immaginato, peraltro correttamente, come si percepisca il flusso del vento scendendo velocemente verso il basso.
Un altro esempio: Dante e Virgilio, aggrappati a Lucifero, arrivano al centro della Terra e lo superano.
Quando noi fummo là dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de l’anche, lo duca, con fatica e con angoscia volse la testa ov’elli avea le zanche, e aggrappossi al pel com’om che sale, sì che ’n inferno i’ tornar anche. (Inf. XXXIV, 76-81) Dante rimane per un attimo disorientato, vedendo Virgilio che si gira volgendo «la testa ov’elli avea le zanche». Subito domanda spiegazioni alla sua guida:
"Prima ch’io de l’abisso mi divella, maestro mio", diss’io quando fui dritto, "a trarmi d’erro un poco mi favella: ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto sì sottosopra? e come, in sì poc’ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?". Ed elli a me: "Tu imagini ancora d’esser di là dal centro, ov’io mi presi al pel del vermo reo che ’l mondo fóra. Di là fosti cotanto quant’io scesi quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto al qual si traggon d’ogne parte i pesi."
(Inf. XXXIV, 100-111)
Nel passare del centro della Terra, Dante immagina correttamente che la forza di gravità cambi verso, essendo tale centro il punto verso cui sono attratti «d’ogne parte i pesi». Sono un fisico per formazione, e non posso certo negare di aver provato un momento di sincera emozione quando per la prima volta ho letto questi versi. Ciò che Dante descrive è esattamente l’esperienza che si potrebbe provare attraversando, come lui, il centro della Terra, se solo questo fosse possibile. Ovviamente la formalizzazione matematica della legge di gravità arriverà con Newton nel XVII secolo, ma Dante sembra aver capito chiaramente come tale forza si comporta.
Della Terra e dell’Inferno Dante ha un’idea tutt’altro che vaga. Di misure della circonferenza terrestre ne erano già state effettuate molte nel medioevo: da Eratostene nel III secolo a.C. a quella che Dante prende come riferimento, cioè la misura di Alfragano, arabo del IX secolo che aveva calcolato 20.400 miglia. L’unità di misura a cui fa riferimento Alfragano sono evidentemente miglia arabe, lunghe circa una volta e mezzo le miglia latine. Dunque 20.400 miglia è il valore conosciuto e accettato da Dante per la circonferenza terrestre, tanto che nel Convivio può scrivere che la distanza tra Polo Nord e Polo Sud (ovvero la semicirconferenza) «[…] è spazio, da qualunque lato si tiri la corda, di diecimila dugento miglia» (Cv. III, 11).
È grazie a queste stime che, secondo chi scrive, Dante fornisce alcuni dati del suo Inferno. Nella nona bolgia di Malebolge Virgilio spiega a Dante che «[…] miglia ventidue la valle volge» (Inf. XXIX, 9), mentre nel canto successivo lo stesso Virgilio dichiara una stima della circonferenza della decima bolgia affermando: «con tutto ch’ella volge undici miglia» (Inf. XXX, 86). In molti commenti moderni si sostiene che tali numeri riportati da Dante forniscano sì un’immagine di concretezza, ma che da essi non si possa risalire alle misure del baratro infernale.
Non la pensava così però Galileo Galilei, che tra il 1587 e il 1588 tenne pubblicamente Due lezioni all’Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante. Qui lo scienziato pisano ricostruiva in modo preciso e matematicamente rigoroso (con gli strumenti del tempo) proprio la valle infernale, partendo dai dati che abbiamo sopra menzionato. Per questa ragione, non è possibile liquidare le misure fornite nell’Inferno da Dante come semplici pennellate di realismo, bollandole come inutili a ricostruirne l’architettura. Anche in questo caso, il poeta dimostra una certa competenza nel gestire spazi e misure di carattere fisico, contribuendo così a rendere più concreto, credibile e scientificamente solido il viaggio ultraterreno.
Per concludere, in tutta onestà, va detto che qualche dettaglio sfugge anche al sommo poeta. Considerando infatti che il viaggio infernale duri approssimativamente 24 ore e prendendo come spazio percorso semplicemente il diametro terrestre (dato che sottostima la reale lunghezza del viaggio), troviamo che la velocità media che avrebbero dovuto tenere Dante e Virgilio è all’incirca 530 km/h. Per quanto tale velocità non sia fisicamente proibita dalle leggi della natura, si può dire che questo dettaglio sia più funzionale alla narrazione che alla struttura fisica del mondo ultraterreno. Un vizio di forma che, tutto sommato, nessuno si sognerebbe mai di rimproverargli.