Chi perde vince – Il cordone ombelicale di Jean Cocteau

Sulle s•tuaz•on•

Un libro va sempre situato, collocato in uno spazio di lettura. Persino nelle librerie casalinghe e dei negozi un libro ha bisogno d’un luogo di residenza, un campo più o meno ampio dove agire con i suoi colori, la sua grandezza, la sua aura. Del libro, del resto, si fa esperienza in una determinata situazione, che prevede a sua volta delle condizioni, uno spazio e un tempo in cui avvenire. Il lettore, a seconda delle sue idiosincrasie, si ritaglia dei minuti o delle ore (per i più fortunati), nonché sceglie degli spazi, in cui può godere del piacere che la lettura provoca. Italo Calvino, nel primo capitolo di Se una notte d’inverno un viaggiatore, descriveva proprio questa esigenza di una situazione ideale in cui eseguire l’atto della lettura: posizione delle gambe, dei piedi, della schiena, regolazione della luce, sigarette a portata di mano, ispezione – e rituale – del libro, del suo risvolto, delle frasi del suo retrocopertina. Situazioni (togliendo le “i”), la collana non-collana, la collana che contraddice e insieme rappresenta il termine che la esprime, della casa editrice pavese La Grande Illusion richiede esplicitamente questi passaggi cerimoniali prima di addentrarsi nel contenuto del libro (c’è da dire, con ironia, che anche questa recensione andrebbe situata a metà, tra discorsi, figure e traduzioni, ma ci si accontenta).
Con largo anticipo, sulla natura di questa collana è intervenuto, nella sezione «Lingua Italiana» della Treccani, Demetrio Marra, che in due articoli dedicati all’Augusta Bolte di Kurt Schwitters e a Il giro della stanza di Xavier de Maistre, ha avuto modo di mettere in luce il consapevole paradosso terminologico implicito in Situazioni: da una parte la novità editoriale (o «eccentricità»), dall’altra l’unicità reiterata di ogni singolo libro (o «concentricità»), sempre come il primo; si tratta di trovare il nuovo nel non nuovo e, viceversa, il non nuovo nel nuovo. A questo paradosso si aggiunge un’ulteriore smentita pratica, perché i libri che compaiono nella collana instaurano delle sottili continuità tematiche, strutturali e filologiche, ovvero l’essere tutti testi meta-discorsivi (e tradotti), brevi e “recuperati”. Così troviamo, in dialogo tra loro e dentro di loro, Xavier de Maistre, Kurt Schwitters, Christine Lavant, e ultimo Jean Cocteau, o almeno il suo cordone ombelicale.

Alla situazione ideale che questa collana autodetermina si aggiunge un’altra dimensione, oltre alle tre citate: dalle tematiche fino alla resa grafica, questi libri presuppongono un atteggiamento di lettura, una disposizione d’animo, una modalità specifica con cui il lettore deve avvicinarsi per poterne fare un’esperienza completa ed immersiva. Il tono quasi conversativo viene inquadrato all’interno di un oggetto-libro elegante, differenziato dai suoi simili attraverso il progetto grafico unico e irripetibile, parlo dei cordoni «tortuosi» di Il cordone ombelicale di Jean Cocteau – ultima pubblicazione tra le Situazioni – curati da Maurizio Minoggio. Un’innovazione per nulla trascurabile di quest’edizione è l’impaginazione della traduzione di Cristina Costantini, non, come da tradizione, affiancata verticalmente su due pagine, bensì disposta orizzontalmente nella stessa pagina in due blocchi distinti, in modo da rendere il ritmo di lettura più fluido. Ci imbattiamo in una perfetta situazione creata da La Grande Illusion con Il cordone ombelicale: un testo tradotto, che riflette su sé stesso e sull’operato del suo autore, breve (sono circa un centinaio di pagine) e “recuperato”, anzi totalmente ritrovato dato che dal 1962 solo nel 2003 fu riproposto dalla casa editrice francese Éditions Allia.

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Moi et mes personnages

Il cordone ombelicale (Le Cordon ombilical), come ricorda la «Nota editoriale», venne pubblicato nel 1962 dall’editore Plon, a un anno dalla morte di Cocteau. Da quel momento in poi fu come dimenticato, uscì dai cataloghi e solo dopo quarant’anni ottenne una ristampa in Francia. Il libro faceva parte della collana diretta da Denise Bourdet denominata Moi et mes personnages, che aveva l’obiettivo di pubblicare confessioni d’autore, autoritratti, divagazioni sui processi creativi e sulla costruzione dei personaggi fittizi e reali. La presentazione della collana chiosava, simpaticamente: «e in che misura egli può fare sua la famosa affermazione “Madame Bovary c’est moi”». Alla richiesta dell’amica Bourdet, Cocteau risponde a più riprese, concludendo a Marbella il 25 settembre del 1961.

Il libretto è suddiviso in corti capitoli, arricchiti da quattro litografie originali, che girano intorno all’argomento, gli sfuggono, lo mescolano ad altre riflessioni tra cui non mancano occasioni di brevi alterchi di poetica e di «modo d’essere» (il modo in cui si scrive, si dipinge); nella lettera inviata a Denise Bourdet posta in esergo scrive a questo proposito: «non sempre facciamo ciò che vogliamo». Cocteau incornicia il testo con tre sonetti in prosa in testa al libretto e tre alla fine «come cul-de-lampe», in qualche modo tutti e sei esemplificativi dei temi trattati, cataforici e riassuntivi. Nel terzo (ultimo fra i tre incipitari) i versi finali della seconda quartina recitano appunto «le mie opere sono quel che da lui evade / con polizia e branco alle calcagna», dove «lui» è «l’io oscuro» che governa l’io di superficie, che manipola e monta i suoi sogni («l’abilità del regista nel fare di un’unica persona più persone e dei suoi scenari un’irriconoscibile parafrasi dei nostri») e dove viene anticipata la tematica fondante dell’evasione e della persecuzione («con polizia e branco alle calcagna»).

Il titolo Moi et mes personnages s’adatta poco, anzi pone una contraddizione a Cocteau, il quale non potrebbe dire mio né di sé né dei suoi personaggi, fittizi o reali che siano, men che meno affermare con certezza la paternità delle sue opere. Infatti l’io è «un io che non sono io», ereditato dal notissimo «io è un altro» di Arthur Rimbaud, alle prese con lo «strano straniero» che s’agita dentro di lui e da cui provengono le opere geniali, distinte dalle astuzie e dalle furberie di taluni “artisti”. Il cordone ombelicale s’apre sulla drammatica sentenza che divide «gli scrittori che nascono con questo tremendo privilegio e quelli che, per gelosia, sono portati a credere che sia stato ottenuto per artificio e di averne anche loro diritto». Da una parte «l’enigmatico tesoro», il talento innato, la parola poetica sepolta nelle profondità dell’io, dall’altra «la muta degli enciclopedisti dietro alla lepre Jean-Jacques», i mestieranti delle Lettere.  Dal canto loro i personaggi sono ombre e il cordone ombelicale che li lega al loro autore si spezza facilmente, e facilmente si riannoda in nozze lontane e sconosciute, ovvero in traduzioni, allestimenti teatrali, rifacimenti cinematografici, reinterpretazioni:

Perché i nostri personaggi, quando si danno alla fuga e vogliono cercar fortuna altrove, rischiano di perdersi lungo la strada e di ritornare da certe avventure pieni di vergogna e di rimorsi come il figliol prodigo. Sempre che facciano ritorno. Può anche succedere che essi si trovino bene sulla cattiva strada, scambiata erroneamente per una certa libertà, costringendoci a testimoniare contro di loro nei processi a cui vengono sottoposti.

La dinamica dell’evasione e della fuga, il sentimento di dissociazione, è insito e complementare alla scrittura letteraria, così come alla pittura e al disegno, praticati anch’essi da Cocteau: «mentre le scriviamo […] sentiamo quell’impulso che esse hanno a fuggire via e a vivere a modo loro». I meccanismi sociali complicano le cose, nel senso che tendono a regolare le migrazioni, gli spostamenti e le scomparse degli homines ficti (che tanto “finti” non sono), secondo le leggi della moda, delle tendenze, dei processi generazionali o sociali che subiscono nel momento in cui entrano in circolazione, cioè nel circuito di lettura pubblico. Più che attuale, la descrizione dell’impatto trasgressivo, vicino all’influenza di un film o di una serie tv di oggi, che ebbero gli enfants terribles Paul ed Elisabeth sulla gioventù dell’epoca:

Quando portai a Bernard Grasset il romanzo degli Enfants terribles, ero convinto che i miei eroi, incapaci di vivere in un ambiente impuro, non avrebbero trovato alcuna accoglienza in un’epoca microbica. Mi sbagliavo e il successo del libro mi insegnò che molti ragazzi e molte ragazze vedevano rispecchiata in Paul ed Elisabeth la loro anima.

Queste trans-migrazioni dalla pagina alla realtà rendono il confine tra finzione letteraria e dimensione extra-artistica molto labile, in quanto anche la realtà, talvolta (in realtà sempre), viene narrativizzata, diventa racconto, e le personalità che la abitano creazioni poetiche. La realtà si riversa nella letteratura, e viceversa.

In uno dei capitoli più belli de Il cordone ombelicale Cocteau racconta la sua relazione “sportiva” con il pugile Al Brown, campione del mondo di pesi leggeri rimesso a nuovo dallo stesso Cocteau – qui nelle vesti di mental coach – dopo la sua caduta nel vortice della droga e dell’alcool. In seguito alla cura Al Brown riportò «undici vittorie consecutive» e nel pubblico iniziarono a insinuarsi dubbi di stregoneria, come se il pugile fosse una marionetta nelle mani dell’artista francese. C’è ovviamente del comico, a guardarla retrospettivamente, in questa favola sportiva. Tuttavia Al Brown è, anche lui, un personaggio immaginario, o si è trasformato in tale, tanto da far parlare Cocteau di «zombismo».

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Chi perde vince

Pugili diventano creazioni poetiche, attori si spersonalizzano per conformarsi anch’essi all’invenzione letteraria, addirittura ai disegni tracciati sui margini del libro prima ancora che nascesse: una famiglia allargata, multiforme, pellegrina dunque, che da Villefranche si estende fino a Mentone, Milly, Londra. Tutto è legato da un rapporto di somiglianza, comunanza, da confini sbiaditi. Una proliferazione incontrollata, che comporta l’annullarsi dell’autore, il nascondersi dietro alle sue ombre cinesi:

A forza di annullarmi per consentire la loro venuta al mondo, in un certo senso a forza di diventare muro, a forza di essere proiettato al di fuori di me dalla difficoltà del mio compito, questa famiglia potrebbe essere solo l’ombra molteplice che lascerò di me quando scomparirò, vittima dell’esplosivo al rallentatore che ci disintegra.

La «benda cade» e il poeta si ritrova solo e ridicolo, abbandonato dai suoi personaggi in fuga e da un’opera «già postuma». Maurice Blanchot nelle prime pagine de Lo spazio letterario esordisce con queste parole, che quasi combaciano con alcune affermazioni di Cocteau: «chi scrive un’opera è messo da parte, chi l’ha scritta è congedato». E poi «lo scrittore non sa mai se l’opera è conclusa». Allo stesso modo, Cocteau nelle righe finali del libretto – che in verità non si conclude, resta aperto, ciclico, interminabile: «l’arte è una delle forme più tragiche della solitudine». All’artista non rimane che quella forma di trapasso tra sé e l’opera, tra sé e il pubblico, quando il pubblico vuole conoscere (a quel punto sono «amici»), e non riconoscere, come sempre fa, in un’epoca dominata dalla fretta, dalla velocità, dal pettegolezzo, dal «rapido colpo d’occhio».

Forse queste stilettate antidemocratiche nei confronti dei lettori e degli spettatori nel 1961 stonano – e ci sarebbe da discutere – con il clima che al contrario si iniziava a respirare con i movimenti della neo-avanguardia, in primis quella italiana (I novissimi viene pubblicato in quell’anno) e, prima, i tentativi di democratizzazione (fallita) del neo-realismo: che stia qui una delle differenze che separano irrimediabilmente un autore come Jean Cocteau dal tempo in cui scrive? Probabilmente sì. Già Sartre nel 1947 situava il surrealismo (Breton soprattutto) alla fine di un «processo dialettico» e movimento distruttivo di una Letteratura dapprima come Negazione Assoluta (simbolismo) e poi come istanza Anti-letteraria (dunque estremamente letteraria), e figurava l’autore come uno scrittore-consumatore, sacerdote dello scandalo e della solitudine auto-imposta. A questo proposito Cocteau scrive che «la poesia non è un sortilegio ma un sacerdozio, un monastero dentro il quale ci si deve rinchiudere a ogni costo»; in maniera evocativa, in una delle poesie finali esprime questa solitudine, questa distanza dalla folla e dal pubblico:

 Oh mia solitudine santissima
 Tu abbandoni bruscamente
 La folla spettatrice
 Ed eccoti con una giravolta
 Scomparire dalla sabbia
 Come il fantomatico
 Cavallo del Rejoneador. 

Cocteau si schiera dalla parte dei perdenti. Il motto che sceglie, e che ricorre lungo l’intero libretto, è «chi perde vince»: un falso perdente, dunque, un perdente d’élite incompreso (forse anche volutamente). L’attrito con una società illuminata dai riflettori delle mode, che sembra mangiarsi le tanto predicate (da Cocteau) qualità innate, e la riluttanza verso l’attualità e la presentificazione di ogni cosa s’avvertono in queste parole sincerissime, insieme moderne e distanti:

A dire il vero si deve evitare quel podio su cui trionfa l’attualità e lavorare nascosti, nell’ombra del chi perde vince che si oppone ai riflettori del chi vince perde – metodo sconveniente in una epoca in cui contano solo la velocità e il presente, dimentica delle muse pazienti che tendono la trappola dell’autostoppismo a quelli che non si rassegnano a percorrere a piedi la dolorosa strada.

Percorrere la dolorosa strada, fino alla morte, tanto più che il poeta «muore continuamente»: questa la morale concessa all’artista, secondo Cocteau.