Dopo il successo ottenuto negli anni passati da ULTRAQUEER e Queer Pandèmia, TMW Factory ha inaugurato lo scorso 31 maggio Meteore Fest, un festival bi-centrato che si riproduce di settimana in settimana, di weekend in weekend, e segue un percorso che nasce a Roma (nel centro culturale Roma Smistamento) e proseguirà a Milano (presso BASE Milano). Ma cosa si nasconde dietro questa verticalità geografica? E soprattutto, cosa succede alle serate di Meteore Fest? Potremmo dire che succede di tutto: presentazioni, musica, talk, performance, slam poetry – ma anche atti psicomagici, evocazioni segrete, costruzioni comunitarie, sbevazzate allegre. E la materia che dà forma a quest’arte in movimento è quella della queerness.
Come l* curator* della mostra Carlo Battisti, Nicola Brucoli e Federico Sacco hanno avuto modo di raccontare, Meteore Fest «è un’esperienza che attraversa lo spazio, il tempo e i corpi, si stratifica nei luoghi che lo ospitano, così come nelle menti di chi vi partecipa. Meteore non si limita alle performance o ai dibattiti, ma vuole svilupparsi negli spazi interstiziali, nei momenti tra un happening e l’altro, nei rapporti umani che offrono l’opportunità di trasformare l’ordinario in straordinario, per ripensare gli ambienti comuni attraverso la scia del pensare queer».
Noi di lay0ut scegliamo così di andare alla terza serata: è il 7 giugno 2024. A Roma scoppia un’estate che fermentava da giorni, la stessa che ci fa ridere con risentimento quando apriamo le finestre dell’ufficio e il sole ci chiama all’assalto, quindi la sera c’è bisogno di uscire, prendere un po’ d’aria, staccare l’ombra da terra – metà Peter Pan, metà Daniele Del Giudice – giusto in tempo per riallacciare gli umori. Facciamo un bel double-check col Super Io: tutt’apposto?, sì tutt’apposto, ma esci di casa, ti prego, sgravami da questa sorveglianza infame, sono stanco a mia volta.
Approdiamo a Roma Smistamento con il sole ancora a mezz’asta, ri-controlliamo su instagram il programma della serata, una luce naturale chiarissima illumina un ambiente che sembra il figlio illegittimo di un ufficio a vetrate, una piccola galleria d’arte e una libreria intersezionale – triangolo amoroso, triello sexy e sdilinquito; noi ci passeggiamo attraverso, visitiamo il fantasma delle performance passate. È il day 3, nei giorni precedenti c’erano già state mostre/installazioni (The Queer Architect – A Selection; WHO AM I, poster series di Sarina Scheidegger in collaborazione con Kambiz Shafei; Mirabilia. Proiezioni sfacciate del collettivo Storthø) e, appunto, performance di vario genere (Maschile ausiliare, di Gioele Coccia; Reconnect your body, una performance di plurale; Questa cosa queer, un progetto orale). Oggi però c’è come una sensazione diversa, forse è l’orario, forse è lo specifico intreccio di forme artistiche, ma percepiamo di stare attraversando uno spazio liminale, uno spazio altro: è un sentimento che nasce in primo luogo in relazione all’ambiente imbastardito e trigemino di cui parlavamo prima, ma che si evolve poi incontrando mano a mano le varie visioni d’arte che lo abitano.
La prima condizione di attraversamento (e quindi di liminalità portata all’estremo, perché penetrabile) viene posta da I NEED YOU (volemose bene), l’installazione fotografica di Puertosool accompagnata dalle illustrazioni di Costanza Nani: per attraversare l’esposizione si è costretti ad aprire con le braccia un passaggio tra due file di tendaggi pesanti, che accoppiati fra loro, a due a due, costruiscono le immagini intere (stampate) di un bacio, due baci, più baci fra coppie di orientamenti sessuali diversi – noi penetriamo il bacio, come una lingua.
Passando di strato in strato fino alla stanza finale, veniamo invasi da un profumo densissimo, una stimolazione violenta dei sensi, mentre tutt’attorno compaiono oggetti quotidiani ma dimessi tipici del teenage-core, ricordi adolescenziali, residui fondamentali della costruzione identitaria. Musica di un altro tempo, di un altro luogo.
Lo scarto esperienziale è ancora più netto quando dall’installazione di Puertosool (circoscritta, obbligata, chiusa, come tutti gli spazi interiori) si esce e si accede alla stanza contigua, dove ha luogo BioQueer Tectonics, un laboratorio alchemico-spirituale di Bio Architettura tenuto da Giulia Cauti e Selenia Marinelli. Immagina una luce bianca che attraversa le vetrate, e un lungo tavolo di legno coperto di erbe, fiori, materiali organici di natura eterogenea, e immagina che di fronte a te ci siano due o tre persone che impastano nelle loro vaschette dei materiali che stanno progressivamente selezionando, in uno stato di irrealtà e immaterialità assoluta – un paradosso, data la natura laboratoriale di BioQueer Tectonics, ma siamo tutte e tutti in silenzio, le persone di fronte a te prendono le loro vaschette metalliche e ne rovesciano il contenuto in un quadro di altri contenuti rovesciati, di altre persone già passate da quel portale, prima di uscire dalla stanza con un cenno e un sorriso. Poi tocca a te e una ragazza ti si avvicina, sussurrandoti il senso segreto di questo processo di creazione evocativa e memoriale, ti passa una vaschetta, non sai bene dove ti trovi come sei arrivat* fin qui o cosa stia succedendo, ma raccogli i fiori morti, annusi il legno, e cominci a mescolare il tuo incantamento segreto. Rivelare le parole sussurrate all’orecchio significherebbe tradire il nostro patto alchemico.
Usciti da questo stato sensoriale passiamo di nuovo al punto di partenza, ricominciamo da zero (ma con un drink in mano), ci fermiamo a parlare con amic* e conoscent*; consideriamo di nuovo la rilevanza pratica e concettuale di Roma Smistamento come ambiente di relazione, ambiente mediale (nel senso più largo del termine, e quindi inteso come chiave di attraversamento) – e me lo conferma più tardi anche Federico, che lo spazio dove ci troviamo è importante, dopo che abbiamo assistito a STAR, la performance intermediale di Thomas Valerio, cui abbiamo riservato un’intervista più giù (se dai una mezza scrollata allo schermo la trovi!), lo spazio è importante, «lo spazio è al centro di tutto». Ora che è calato il buio, è come trovarsi in ufficio dopo l’orario di lavoro, ma con una massa di sconosciut* che si aggirano insieme a te fra le vetrate, incuriositi come in un fenomeno di backroom tourism. E più cala il buio, più si riesce ad apprezzare -IT DEPENDS ON YOU-, la sound performance finale di Egeeno (colonna portante degli ambienti musicali queer e underground di Roma), la sua ritualità verbale…
… rivolta a un pubblico prima timoroso di esporsi, seduto come in trance, e poi sollevato in piedi collettivamente, una ad uno, attivat* e pront* a ballare insieme dopo un’esperienza collettiva – quella del day 3 nella sua interezza – durata diverse ore. Un ottimo modo di chiudere la giornata: un buon metodo di liberazione corporale pratica e deliberata, che agisce poi da collante per le giornate successive perché Meteore Fest, nel frattempo, non si è fermato. Il 14 giugno, cioè pochi giorni fa, ha avuto luogo il day 4, ultimo incontro artistico situato a Roma Smistamento; ma non è ancora finita, anzi.
A partire dal 21 giugno, il festival migra a Milano e come dicevamo risorge fra le pareti di BASE Milano: un nuovo attraversamento, e questa volta geografico, che darà ulteriore linfa al discorso artistico impostato a Roma – e regalerà un nuovo terreno d’appoggio, o meglio, un nuovo territorio d’atterraggio, agli asteroidi liminali cui abbiamo assistito finora.
Qui sotto, l’intervista all* performer Thomas Valerio.
Thomas Valerio è un* artista performativo italo-inglese che indaga la ripetizione, la memoria ed il linguaggio. Lavora con la performance, muovendosi tra video, poesia e composizione musicale. La sua pratica indaga le tracce di ciò che è assente e come l’evento performativo possa tornare sotto forma di ricordo o rimosso. Ha frequentato il corso di Studi Performativi e di Genere a IUAV, Venezia, scrivendo una tesi su performance, agency e suono.
Pietro Bocca: Ciao Thomas, grazie di averci concesso il tuo tempo. Direi di partire dalle basi: come descriveresti le tue performance a una persona che non vi ha mai assistito?
Thomas Valerio: La mia ricerca esplora la ripetizione, la memoria e le tracce. Mi occupo di performance intermediali che intrecciano video, poesia, sound design e composizione musicale. La mia pratica esplora la tensione data dalla ripetizione all’interno della performance, sviluppando lavori fluidi che non possono ripetersi identici. Mi interessa concepire la performance come creazione di memoria, tentare di ricordarla differita, intermittente ed assente. La performance che ho portato a Meteore Fest si intitola STAR ed è una ricerca sulla trasformazione, la fragilità e il fallimento. L’ho sviluppata in collaborazione con Anna Bielli, musicista che sonorizza la performance con la sua chitarra, mentre il mio approccio è vocale e fisico. Nel lavoro canto e attraverso l’ambiente, cambiandomi costantemente d’abito e tentando di instaurare un’interazione con i corpi (non solo umani) presenti in ascolto.
PB: Il tuo timbro e la tua postura nel cantare ricordano (o sembrano attingere da) artisti musicali come Nick Cave o i Black Country New Road. Sembra che tu abbia dei riferimenti specifici al riguardo.
TV: Oh terribilmente! Il panorama musicale a cui faccio riferimento è il noise, l’ambient, il punk ma anche il rock “classico”. STAR, nelle sue possibili linee di fuga, investiga anche la figura della rockstar, la sua presenza scenica, il rapporto con il pubblico… Nick Cave nello specifico è da sempre un mio punto di riferimento, sia come performer che per i suoi testi. Aggiungerei anche Patti Smith, ANOHNI, IDLES, Otis Redding, Florence + The Machine, St. Vincent e ovviamente David Bowie.
PB: Parli di artist* che nei loro concerti lavorano molto anche sull’espressività fisica. In che modo credi che la musica si unisca alla prossemica, nelle tue esibizioni? Qual è il ruolo della musica, e quale quello della corporalità? In che modo si intrecciano?
TV: Più che di musica parlerei di suono. Sto esplorando da una prospettiva neomaterialista e femminista il modo in cui il suono trasforma gli ambienti, come mette in relazione i corpi – e le modalità secondo le quali il suono, anche se invisibile e intangibile, agisce fisicamente sulla materia. In questo quadro il suono possiede una certa materialità, e il momento del concerto diventa l’occasione per attivare le connessioni tra i corpi (umani e non umani) presenti e in ascolto. In che modo il suono può metterci in relazione? E come possiamo diventare, con la nostra energia, partecipazione e presenza, parte del lavoro? Percepire i corpi delle altre persone e delle cose fa cambiare il modo in cui siamo lì e assistiamo alla performance.
È un progetto che muta a seconda dell’energia, della postura e degli umori, ma anche banalmente in base a come sono disposte le spettatrici, a quanto è denso l’ambiente.
PB: Un elemento fondamentale della tua performance a Roma Smistamento è stato quello dell’attraversamento, della congiunzione tra spettacolo e spettatore. In che modo ti rapporti allo spazio (percorribile, agibile) nelle tue esibizioni?
TV: In STAR avevo una forte necessità di abbattere una distinzione spaziale tra performance e spettatrici. Il lavoro avviene quasi interamente tra il pubblico, tentando di instaurare un contatto, fisico ed emotivo. Lavorando sulla fragilità e la trasformazione, non mi interrogo solo sulla capacità trasformativa che può avere il suono, ma anche su come cambia lo spazio nel nostro attraversarlo e viverlo; come i nostri corpi lo abitano e lo definiscono. Passare tra le spettatrici ed entrarci in relazione è un tentativo di tenere lo spazio in costante movimento e mutamento, attivare l’energia dei corpi. Questo tentativo, ovviamente, si relaziona con la fragilità e il fallimento. Uno stato di costante trasformazione non permette il consolidamento e la stabilità; si è sempre in tensione e ad un passo dalla catastrofe. Mi baso molto su ciò che accade in scena e che mi danno le spettatrici; secondo me è questo che tiene il lavoro vivo. Il fallimento, perciò, lo intendo con Jack Halberstam non come un limite, ma come una modalità radicale e queer di operare al di fuori di determinati paradigmi neoliberali di completezza, successo e risultato.
In questo senso, il rapporto con le spettatrici è fondamentale. La loro presenza, energia e partecipazione è centrale. Negoziare quale sia il nostro ruolo all’interno del lavoro è una delicata danza. In una certa misura è una relazione di potere, che in più occasioni viene messa in discussione e trasformata. Se Anna e io abbiamo ovviamente un certo livello di controllo su quello che accade, è molto interessante quando questa sicurezza viene meno e c’è bisogno di membri del pubblico per portare avanti il lavoro. Allora, chiederti di suonare la chitarra al mio posto, o di tenermi il microfono o di allacciarmi il vestito, sancisce un rapporto di fiducia in cui io ho bisogno di te, quanto tu di me. Secondo una prospettiva neomaterialista, considero la performance un assemblaggio composto di corpi, tensioni, sensibilità e relazioni in cui ciascun elemento ha un suo ruolo e una sua agency. Siamo in diversa misura tutte co-autrici del progetto, anche soltanto nell’essere presenti e in ascolto. Questa riflessione non si ferma ai soli corpi umani, ma si estende a tutte le entità non umane, inorganiche, sonore ed effimere che abitano lo spazio: il cavo del microfono che mi trascino ovunque e mi intralcia il cammino, i pedali che trasformano il suono della chitarra, gli outfit che risignificano il mio corpo, la particolare conformazione della stanza e gli umori, i ricordi, le sensazioni. Questi sono tutti elementi che agiscono sulla performance e che noi soggetti umani non possiamo del tutto controllare. Anche queste entità sono co-autrici della performance.
PB: Il discorso sul corpo presente nelle tue performance trova un riscontro anche nella tematizzazione della nudità, dello spogliarsi, dell’abbattimento di uno scheletro per mostrarsi inerme. Che valore attribuisci a questo svelamento.
TV: Nel mio lavoro c’è sicuramente un’attenzione per la fisicità, per la presenza dei corpi nello spazio, per come essi lo formano e si formano e cosa si lasciano dietro. Il mio corpo insieme alla mia voce, nel loro essere presenti e assenti in scena, sono degli elementi che continuo ad indagare nella mia ricerca. Non penso però che l’utilizzo del corpo nudo sia un modo per svelare ciò che è nascosto, come se fosse una cosa sacra che possa in qualche modo metterci nel mezzo di una verità. Un corpo nudo è soltanto un corpo nudo. Vorrei cercare di evitare di dargli un peso eccessivo, trattarlo con reverenza o come un taboo. All’interno delle mie performance è solo uno dei tanti modi in cui il mio corpo tenta di abitare lo spazio. Per questo non credo che presentarsi nudi equivalga a mostrarsi inermi. Ritengo che l’utilizzo del nudo possa essere una presa di posizione che chiede forza e rispetto sia da parte di chi lo fa che da chi guarda. Penso sia un modo per avere una possibilità di narrazione sul proprio corpo rispetto a determinati sguardi ed etichette. Sono consapevole che la nudità possa essere un elemento disturbante poiché non siamo così abituate a vederla. Ma non c’è nulla di sbagliato nei nostri corpi e per questo penso sia importante naturalizzare determinate posture.
Immagine di copertina e fotografie interne all’articolo a cura di Riccardo Ferranti.
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