Rotting in the Pride – Per una confusa critica dell’attraversamento | Intersext

Attraversare lo spazio del Pride oggi, in un periodo di crescita esponenziale della sua visibilità pubblica, spesso presuppone un allontanamento dalla radicalità politica delle sue origini. All’interno dei movimenti LGBTQIA+, la questione dell’inclusione e della legittimità è sempre stata una questione divisiva: per questo motivo è necessario comprendere (o quantomeno tematizzare) le modalità d’attraversamento di questo spazio simbolico. E farlo in maniera dialogica, collettiva, e addirittura confusa, probabilmente è il modo più sincero di relazionarsi con una questione assoluta.

In questo articolo Susanna Chiulli, in collaborazione con Camilla Sini, cerca di orientarsi fra gli svincoli storiografici e le contraddizioni che definiscono il presente del Pride.


M: Amo, ma alla fine C. è venut*?

S: No, mi ha scritto prima che non se la sentiva di venire

M: Boh. A me sembra esagerat*, non pensi?

S. sono io. Faccio un lunghissimo tiro di sigaretta e alzo le spalle. Ho camminato tre chilometri, le Dr. Martens mi tengono incollata al marciapiede, la canottiera è appiccicata alla schiena da ore: per rispondere con serietà alla domanda di M. dovrei tirare fuori una forza dialogica che in quel momento non riesco a trovare, seppellita com’è fra i glitter e il sudore. Dopo una doccia fondamentale, e dopo aver spiattellato le gambe a novanta gradi sul muro bianco di M., mi rendo conto che sto solo prendendo tempo. È uno stallo: come cazzo faccio a spiegare a M. che capisco le motivazioni di C.?

E come posso spiegare a C. che invece io, al Pride, ho deciso di andarci? 

La risposta breve è questa: i movimenti LGBTQIA+ nella contemporaneità sono di fronte a una frattura. La visibilità sempre più ampia a cui sono esposti nell’immaginario comune si scontra con un bivio pragmatico: vogliamo farci spazio nel sistema politico-economico attuale, colorando il capitalismo dei colori dell’ arcobaleno, o vogliamo rifiutare radicalmente, in quanto comunità in alleanza con le altre soggettività marginalizzate, ogni forma di oppressione sociale, politica ed economica, e puntare alla trasformazione della realtà?

Per una risposta più estesa, invece, mi toccherà prendermi un po’ più di spazio.

Partiamo dalle basi!

Se partiamo facendo riferimento alle società occidentali, e poi dalle società occidentali passiamo in Italia, e dall’Italia particolareggiamo ancora di più fino a scendere fra le strade sempre più calde di Roma, ci rendiamo conto che i Pride siano manifestazioni ormai partecipatissime, che arrivano a portare più di un milione di persone in piazza. Le istanze della comunità LGBTQIA+, almeno quelle riguardanti il piano dei diritti civili, sono note e condivise dalla maggior parte della popolazione metropolitana – e soprattutto dalla popolazione giovane, che a questi eventi vede accorrere in massa migliaia di adolescenti. Certo, la visibilità delle singole cause è proporzionale al livello di privilegio sociale che una persona queer detiene: le lotte delle comunità trans*, intersex, asessuali, aromantiche, bisessuali, e anche di quella lesbica, sono meno visibili di quella della comunità gay maschile e cisgender. Si può tuttavia dire che si stia collettivamente raggiungendo il (magro) risultato di una qualche forma di pudore comunicativo, che a volte nei contesti sociali impedisce l’espressione del disprezzo provato dai meno tolleranti nei confronti delle persone LGBTQIA+; in altri casi più “virtuosi”, si arriva a una certa simpatia per le più visibili delle loro rivendicazioni. (Governo vigente simil-fascista a parte, chiaramente).

Un buon livello di consenso, di riscontro nell’opinione pubblica, o, in termini gramsciani, di egemonia culturale, sono obiettivi fondamentali per ogni comunità politica che punti a trasformare la società e per ogni gruppo di soggettività subalterne che voglia essere riconosciuto e tutelato. E in Italia, anche solo fino a dieci anni fa, questo livello di visibilità (per quanto parzialissima) del mondo queer, non era per nulla scontata.

Auto-posizionarsi nella Storia.

Quando frequentavo le scuole medie e superiori, a cavallo fra gli anni 2000 e 2010, fra i miei coetanei l’idea di scoprirsi non-eterosessuale era estraniante, a tratti spaventosa. Era qualcosa che ti avrebbe proiettato in un ovvio contrasto con il tuo contesto di origine, ma soprattutto che ti avrebbe ancorato a una sottocultura molto specifica – e per lo più ancora invisibile. Ricordo il mio terrore vivo a 14 anni nel dover ammettere, innanzitutto a me stessa, di non essere attratta sessualmente dai ragazzi. E che cosa si faceva in quel caso? Con chi se ne parlava? Che facevano “quell* come me”? Gruppi facebook, forum bidimensionali, blog, video-racconti emotivamente devastanti di coming out in una cittadina ostile sembravano essere l’unica risposta; ed era già molto di più, come primo approccio, di quello che avevano ricevuto le generazioni cresciute senza alcuna rete digitale.

I Pride delle grandi città erano manifestazioni molto diverse dall’evento che rappresentano ora, fondamentalmente perché non erano in grado di raggiungere i numeri di partecipazione e la visibilità attuali: il primo Pride ufficiale italiano, organizzato dal Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli a Roma nel ‘94, contava circa 10.000 persone. Tuttavia, gradualmente, continuavano a crescere (pensiamo al World Pride del 2000 a Roma, stesso anno del Giubileo, che contava più di 200.000 persone), “grattando” la coscienza di un paese fossilizzato su una visione univoca e conservatrice dell’amore, della sessualità e della famiglia: patriarcale, etero-normativa, mononucleare, amen. Sappiamo bene che già allora i modi di essere e di amare delle persone queer che si trovavano a vivere in questo paese si moltiplicavano, resistevano e prosperavano ben oltre le più piccanti fantasie clerical-fasciste del discorso pubblico italiano. Ma anche rispetto al resto dei paesi dell’Europa cosiddetta occidentale, le istanze della comunità LGBT+, allora, in Italia, non si potevano certo dire mainstream.

Anche se nel 2013 non potevo ancora saperlo, quella fase dei Pride era il frutto di una lunghissima storia di lotte contro la norma eterosessuale, contro le gerarchizzazioni sociali e contro gli ostacoli che queste rappresentavano per l’ambizione di una vita serena. È da questi moti di rivendicazione e sopravvivenza che si sarebbe propagata a macchia d’olio l’elaborazione politica dei movimenti LGBTQIA+, allora movimenti di liberazione omosessuale, nelle strade dove si erano già riversati gli studenti universitari qualche primavera prima – moltiplicandosi nel corso degli anni Settanta in “gruppuscoli” (parola meravigliosa che restituisce il senso pulviscolare della moltiplicazione) che riflettevano il fermento politico e ideologico di quegli anni. Le lotte femministe incendiavano l’Europa mettendo(si) a nudo la divisione artificiale tra cosa privata (come l’assetto della famiglia, la sessualità, l’affettività, il lavoro domestico) e cosa pubblica, rendendo per la prima volta il corpo un campo di battaglia profondamente politico – presupposto fondamentale per l’emergere delle lotte omosessuali, lesbiche, trans* e queer.

Tutto questo avrebbe dato vita a collettivi radicali come il Gay Liberation Front, negli Stati Uniti, che deve molto alla militanza del Black Panther Party («Gay power» è figlio illegittimo di «Black power»); al suo omonimo inglese; poi al FHAR in Francia, e al FUORI! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano) in Italia. Ma tra le fila di questi movimenti, inclusi quelli femministi, avrebbero proliferato anche numerosi gruppi lesbici e trans*, oggi meno visibili, come quello di via Pompeo Magno a Roma e, nel ‘79, il MIT (Movimento Identità Trans) di Bologna. L’invisibilizzazione di alcuni gruppi dalla narrazione ufficiale, e da certe forme di militanza, è l’esempio concreto del rapporto fra accettabilità e privilegio sociale che il capitalismo, come ricordano Foucault prima e Federici poi, cerca di nascondere ai nostri occhi, giocando un perverso scherzo secondo il quale il processo di legittimazione può avere luogo solo a patto di prendere le distanze dallo stato di illegittimità all’interno del quale si era rivendicato, per la prima volta, uno spazio di rappresentanza.

La miccia che avrebbe fatto esplodere le lotte dei movimenti di liberazione sarebbe stato lo scontro allo Stonewall Inn di New York, nel giugno del 1969, dove la polizia irruppe per l’ennesima volta negli spazi ricreativi e sociali dove le comunità queer – in particolare le donne trans, le persone gender non-conforming e le butch nere e latine – ballavano e cercavano amore, sesso, conforto, amicizia, cibo, (mutuo) aiuto, un tetto sopra la testa.

Inizialmente era stata una resistenza portata avanti a colpi di mattoni, bottiglie e scarpate, a forza di picchetti fuori da convegni di psicologi e medici che ci classificavano minuziosamente come malat* – come quando nel 1972 il neonato collettivo FUORI! si riunì davanti al Casinò di Sanremo per protestare contro il Congresso internazionale di sessuologia che affrontava il tema “Comportamenti devianti della sessualità umana”, dando vita alla cosiddetta Stonewall italiana (perché la luce dei riflettori hollywoodiani sembra regalare sempre quel fascino in più).

Queste collettività volevano rivoluzionare, insieme alla norma di genere e sessuale, l’intero assetto sociale, politico ed economico capitalista. L’obiettivo più profondo per l* attivist* lesbiche, queer, trans*, gay non era quello di cercare un posto nella società eterosessuale, di esservi “inclus*” (in quale sistema?), o di chiedere il permesso di entrarvi, ma stravolgere e rifondare la società nella sua interezza.

Mario Mieli, così come Mariasilvia Spolato, invitarono tutt* ad abbracciare una lotta trasformativa e visionaria, perché:

«Ciò che dovete temere […] è di rimanere quello che siete, maschi eterosessuali come vuole la Norma, ora per giunta in crisi […]. Come se non fosse tempo di rifiutare gaiamente il disagio che la società ci ha imposto, e di arrestare la macchina totalitaria del capitale realizzando rapporti nuovi. E, giacchè siamo corpi, rapporti erotici fra tutti. […] Il vostro terrore dell’omosessualità è terrorismo capitalistico e il terrorismo paterno, è il terrore del padre che non avete mai superato.»

E poi? Le scissioni.

I Pride, dunque, sono esplosi come un “venir fuori” della comunità queer che, attraverso il suo sguardo eccedente rispetto alla realtà, attraverso corpi e voci squillanti e incazzate, si appropria delle strade, dello spazio pubblico, smascherandolo come uno spazio non neutro, ma politico. Come ci ricorda Leslie Kern ne La città femminista, infatti: «La postura, il modo di camminare, le espressioni del viso, i movimenti, i gesti, il contatto visivo, la posizione, la tensione muscolare e molto altro sono plasmati dalla navigazione dell’ambiente urbano – la città degli uomini – e dalle relazioni sociali». Se l’attraversamento dei luoghi direziona i corpi, allora i nostri corpi, i nostri sguardi e le nostre voci possono occupare lo spazio in modo da trasformarlo e ri-significarlo. I Pride portarono la comunità fuori dall’ombra dello spazio domestico, “fuori dai bar”, per abitare attivamente e con le proprie gambe una città plasmata su una figura dominante; per smascherarne la presunta neutralità; per costruire, con i propri corpi liberi di mostrarsi ed esprimersi, un’altra idea di mondo.

La storia dei Pride e delle rivendicazioni è stata allora anche una storia di compromessi e di scissioni intestine fra l* stess* compagn*, che esigevano il loro diritto di esistere in modalità tanto numericamente differenti quante erano quelle stesse esistenze. Nei movimenti LGBTQIA+ che hanno attraversato le epoche c’è sempre stata una tensione fra il lottare per essere “assimilat*” e il lottare per una “rivoluzione” sociale. Queste prospettive erano legate non solo a idee politiche e filosofiche, ma a diverse prassi radicate nella comunità LGBTQIA+ che si sovrapponevano  alle oppressioni che si subivano. L’attivista trans* latina Sylvia Rivera – co-fondatrice, insieme a Marsha P. Jhonson di STARR (Street Transvestite Action Revolutionaries) e pioniera delle lotte queer (la storia racconta che fu lei a lanciare la bottiglia che diede il via agli scontri di Stonewall) – parlò così a proposito del funerale di Judy Garland (icona gay degli anni Cinquanta e Sessanta) che ebbe luogo il giorno antecedente alla rivolta, e che da molti fu poi valutato come una delle scintille che la accesero: «Garland significava giusto qualcosina per noi – Somewhere over the rainbow. E onestamente quella canzone era pia illusione, un inno della vecchia generazione. In quel bar avevamo intenzione di distruggere quell’arcobaleno».

Senza spostare continuamente il nostro sguardo oltreoceano, il FUORI, già nel novembre del 1972, pochi mesi dopo fondazione stessa del movimento, mostrava le sue contraddizioni interne testimoniando una tensione politica fondamentale. La posizione interclassista di Pezzana si scontrava con la visione della frangia veneziana del movimento, e sembrò presagire la scissione del gruppo nel 1974, quando l’ala riformista si federò al partito radicale e quella rivoluzionaria (ci cui facevano Mario Mieli e il gruppo milanese) scelse di abbandonare il movimento.

Siamo convinti innanzitutto che non sia più possibile parlare genericamente di “omosessuali” perché si verrebbe ad ammettere automaticamente l’esistenza di una classe di persone accomunate da condizioni o da interessi. Niente di più lontano dalla realtà… Sappiamo infatti che sul fronte della liberazione degli omosessuali ci troveremo divisi nella misura in cui apparteniamo alla classe che detiene il potere o alla classe oppressa. Ci troveremo divisi infatti perché omosessuali che godono di tutti i privilegi della legge e delle istituzioni che sorreggono il nostro stato borghese non vogliono lottare con omosessuali proletari che lottano per l’abbattimento delle classi.

Queste parole comparse sul quinto numero della rivista «Fuori!» nel novembre del 1972, in risposta a un articolo di Pezzana sullo stesso numero («L’interclassismo omosessuale, forza rivoluzionaria?») espongono chiaramente la divisione intestina che polarizza il discorso ancora oggi. Da un lato, la visibilità acquisita dal movimento LGBTQIA+ – ottenuta lasciando progressivamente da parte una critica esplicita e radicale al sistema economico capitalista e alla gerarchia sociale che esso genera – è stata fondamentale per la popolarizzazione delle sue istanze, per far comprendere e far esprimere e vivere apertamente l’essere parte della comunità LGBTQIA+ a un numero sempre maggiore di persone. Dall’altro lato questo passaggio, allora come oggi, periodo in cui l’approccio “riformista” è ancora più egemonico, certo non è avvenuto senza un prezzo: l’allontanamento dalla radicalità politica, quella che portò all’esplosione dei moti di rivolta e alla formazione del Pride, lasciando fuori dalla prima fila proprio le persone che quelle lotte le fecero esplodere e che subiscono ancora oggi una moltitudine di oppressioni (persone razzializzate, in carcere, senzatetto e via dicendo).

In un video che è miracolosamente arrivato a noi, possiamo vedere Sylvia Rivera scagliarsi contro l’organizzazione del Pride di New York del 1973, dopo aver dovuto litigare con la security per salire sul palco – in maniera simile a quel che avrebbe fatto anche Mieli in Parco Lambro, nel 1976, e in piazza VIII Agosto nel 1977:

I have been beaten, I have had my nose broken, I have been thrown in jail, I have lost my job, I have lost my apartment, for Gay Liberation, and y’all treat me this way? 

Love is love?

Passeggiando per la folla sbrilluccicante e sudata del Roma Pride, i carri che si riflettono e sfilano sui miei occhiali sono per la maggior parte appartenenti a aziende (VitaSnella, W Rome-Hotel di Lusso a Roma, Walt Disney, P&G etc.); ambasciate (quella tedesca, quella inglese, quella canadese etc.); persino partiti come Più Europa. Numerose figure politiche istituzionali, fra cui il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, non sfilano confuse fra la folla, tentando timidamente o sfacciatamente di farsi notare. Sono direttamente sopra il primo carro, a guidare la parata. Perdere in radicalità, oggi, significa anche rendersi complici di fenomeni neo-coloniali, che legittimano la violenza istituzionale delle multinazionali e dei governi sui popoli, dando vita a fenomeni come l’omo-nazionalismo e il pink-washing. Un macabro esempio di questo processo è rappresentato dai soldati israeliani che, intenti a occupare il territorio della striscia di Gaza, sfollando e decimando i suoi abitanti, sventolano felici la bandiera LGBT+.

Love is love, giusto?

Il grido di Sylvia Rivera ci risuona nelle orecchie spaccando i timpani, penetra il cervello, ci costringe ad assistere a un Pride ricoperto di loghi, di bandiere di partito; un luogo dove i collettivi queer devono pagare per attraversare il corteo con il loro carro, sulla base di presupposti necessariamente in linea con la sensibilità delle classi benestanti – un luogo rumoroso il giusto da non disturbare chi, fra multinazionali e governi, detiene il potere: anche quel giorno, anche in quelle strade, anche in quella commemorazione, sono loro ad aprire il corteo e a scegliere come poterlo attraversare . La società che i movimenti queer volevano ribaltare è davvero cambiata o è solo più “colorata”? Le disuguaglianze sociali non esistono più? «Gay Power!», urla Sylvia Rivera. Secondo la sua visione, la messa in questione e la redistribuzione del potere sono fondamentali.

Le domande che Sylvia Rivera, Mario Mieli e Mariasilvia Spolato rivolgono a ognun* di noi, oggi sono ancora più necessarie. Che tipo di egemonia ci interessa? Quella necessaria per venire brandizzat* dal mercato con un meccanismo identitario di consumo? È questo l’unico modo di arrivare a più persone possibili? A chi cambia davvero la vita? A che costo? Io non ho una risposta, non è facile rispondermi, figuratevi scriverlo in un articolo: non è facile rendere accessibili, comprensibili e virali le istanze di una comunità politica, mantenendo, allo stesso tempo, radicale e profondo l’intento trasformativo delle stesse; smuovere le coscienze e contemporaneamente guardare i nostri privilegi con uno sguardo critico.

Una bandiera palestinese enorme irrompe in piazza Santa Maria Maggiore. I volantini che vengono distribuiti riportano la scritta “No Pride in Genocide”. Guardo il carro delle associazioni trans*, Libellula e Gender X, e vedo piccole bandiere palestinesi sparse ovunque, disegnate sulle braccia, ritagliate a mano e incollate sul bordo dei carri. Una mia compagna a-spec ha due orecchini fatti all’uncinetto a forma di anguria. Si muovono nel vento e brillano con lei. Ci sono stati molti movimenti e collettivi queer che hanno continuato a interrogarsi sul legame fra oppressione queer e capitalismo e sul valore dei Pride come trasformazione in atto della realtà, spazi liberati dalla violenza e dalla repressione. Negli ultimi anni in particolare, ci sono state realtà sorte proprio per un moto di straniamento rispetto alla perdita di radicalità dei Pride, percepiti non più come vetrine per intrattenere e rassicurare, e dunque non più spazi autenticamente sicuri e liberatori per tutt*.

Qualcun* ci prova.

Fra queste realtà alternative, nomino due esempi che conosco un po’ più da vicino.

Il primo riguarda gli Stati Genderali, cioè un’assemblea permanente che ha unito svariate realtà LGBTQIA+, con storie e sensibilità diverse, nata nel 2021 per lottare per l’approvazione del DDL Zan antidiscriminazione – che peraltro non includeva le soggettività LGBTQIA+ più invisibilizzate dalle tutele che prometteva – volendo al contempo proiettare la lotta queer molto oltre il piano del riconoscimento legale, molto oltre il concetto di “tutela”. La rete mirava a costruire alleanze su tutti i temi possibili, dall’educazione sessuale alla lotta alla precarietà, dai percorsi di autodeterminazione e fuoriuscita dalla violenza alle s-famiglie queer, dai flussi migratori alla lotta all’HIV e alla sierofobia, e via dicendo fra diversi spazi, realtà e soggetti queer, disabili, neurodivergenti, con l’intenzione di costruire convergenze esterne, come quella fra lavorator* queer sfruttat* e il resto dell* lavorator*, per esempio attraverso il comunicato congiunto con il collettivo di fabbrica GKN a Firenze.

Invece a Roma, nel 2023, dalla messa in rete di vari collettivi anti-capitalisti e transfemministi, fra cui i collettivi studenteschi Marielle (Roma Tre) e Prisma (La Sapienza), è nato PRIOT (Pride Romano Indecoroso Oltre Tutto), che ha portato nelle periferie romane un Pride alternativo a quello “ufficiale”, rumoroso e radicalmente anti-sistemico, riempiendo l’anno scorso le strade di Centocelle, e quest’anno quelle del Quarticciolo.

C’è una parte della comunità queer, insomma, che non è disposta a fare compromessi sulla propria pelle e su quella delle persone LGBTQIA+ ancora invisibilizzate e ostracizzate, e che cerca di lottare con lo sguardo rivolto alle molteplici oppressioni presenti nella società attuale.

Questa chiusura non è una chiusura.

La verità è che non saprei ancora cosa dire a M. e a C., non potrei nominare torti o ragioni inequivocabili – ma anche rifletterci davvero, in fondo, può essere un punto di partenza.

Secondo la filosofa femminista Silvia Federici, il capitalismo non è «una realtà sociale autonoma, che cresce su sé stessa», ma è come «una realtà che è continuamente plasmata e rimodellata in risposta ai movimenti e alle lotte». Se le logiche capitalistiche e neoliberiste hanno potuto appropriarsi di alcuni aspetti delle lotte LGBTQIA+, in risposta al loro emergere, questo non vuol dire che i movimenti queer non possano divincolarsi da questa stessa logica.

La forza assoluta delle nostre comunità non risiede tanto in una costituzione identitaria fissa, quanto nel fatto che il concetto di queer presuppone uno sguardo obliquo sul reale, una modalità di sguardo sul mondo che mette in discussione lo sguardo straight (dritto, ma ovviamente anche etero), la staticità e la fissità di un sistema interiorizzato e ritenuto naturale per osservare e organizzare la realtà. Il queer è costantemente in sovrascrizione o contro scrittura, perché si trova sempre fuori da quello che Judith Butler, leggendo The problem of our Laws di Kafka, definisce come la costituzione della Legge («the act of law is the act of exclusion»).

Il queer come strumento di rottura epistemologica del reale sarà sempre pre-legale, perché solo in quello stato liminale, fuori dalla linea tracciata dalla legittimità, esiste uno spazio-tempo in cui il butleriano «limit imposed on what is imaginable»… non esiste.


Le immagini sono tratte da fotografie scattate dalle autrici, dall’Archivio di Angelo Pezzana e dall’Archivio Aldo Mieli.