Eterotopie favolose: un archivio queer – Intervista a Luca Locati Luciani | Intersext

Luca Locati Luciani nasce a Carrara nel 1976 e lascia la Toscana a diciotto anni, dopo la maturità classica, per terminare gli studi a Bologna. Nel 2019 comincia a catalogare materiali e documenti legati alla cultura queer, creando la pagina Instagram @aqueerarchive1, e nel 2021 fonda a Carrara il Centro di Documentazione Aldo Mieli. È autore di Crisco disco. Disco music & clubbing gay tra gli anni ’70 e ’80 per Volo libero; ha collaborato alla pubblicazione di Panico drag. Il «caso» Boulton e Park e  I peccati della città della pianura e altre voluttà, per WoM edizioni, e a Quelle come me. Storia di splendori e miserie di Madame Royale per PM edizioni.

Un’intervista a cura di Federico Sacco e Camilla Sini.


Prima che tutti e ciascuno dei fragili archivi esistenti del femminismo e della cultura queer siano ridotti a ombre radioattive, è indispensabile trasformare questo sapere minoritario in sperimentazione collettiva, pratica corporea, modi di vivere e coabitare. Testo tossico, Paul B. Preciado

Istituzioni teoretiche, raccolte retoriche, spazi di legittimazione, collezionismi di materiali selezionati secondo un canone etero-borghese contribuiscono alla creazione di spazi privilegiati di sapere. Ignorare i vari processi di acquisizione, valutazione, gestione della raccolta, descrizione, indicizzazione, conservazione, ossidazione e accesso che interessano i documenti storici significa non rendersi conto che la costruzione di un archivio è un atto politico e di potere1, e come tale può diventare uno spazio in cui costruire narrazioni sovversive per sfidare le precedenti: un’eterotopia. 

La negligente miopia dell’archivio retorico si cura con la lente caleidoscopica di Luca Locati Luciani, cofondatore del Centro di documentazione Aldo Mieli a Carrara, città in cui nasce e in cui sceglie di restare. Per dirla con l’Hélène Cixous di La Risata della Medusa, l’archivio queer dépense – nel senso di “de-pensa”, e non “ri-pensa” – una Storia unificante, regolatrice e allo stesso tempo contraddittoria, mettendo a disposizione strumenti compensativi, capaci di creare contro-canoni e contro-narrazioni e soggetti storici più reali: raccoglie storie illegittime per dare vita a una progenie di figl* illegittim*2. L’utilizzo della preposizione «-de», in dépense, allontana e opera uno spostamento dall’alto verso il basso, nega un sistema di catalogazione verticale basato sull’esclusione: non solo valorizza storie dissidenti attraverso una storiografia non-convenzionale, non-scientifica, orizzontale, ma include ricordi materici, oggetti abbandonati nella polvere dei cassetti di militanti ignari di contribuire alla ricostruzione della loro stessa storia, oggetti considerati ignobili che costruiscono collezioni, creano corpora

Una piccola parte delle centinaia di spille donate all’archivio da un membro del Gay Liberation Front di New York.

Come nasce il Centro di documentazione Aldo Mieli? Qual è la genesi di questo progetto?

Ho cominciato a leggere alcuni testi che parlavano di storia queer a diciassette anni, scoprendo che esisteva un movimento queer addirittura prima del periodo nazifascista e della Seconda guerra mondiale. Ero uno squattrinato, ma volevo trovare queste fonti. Non volevo solo trovarle in biblioteca, volevo possederle, quindi ho cominciato a cercarle nei mercatini. Questa ricerca è diventata bulimica, un virus. Quindi il Centro è nato così, da una collezione. Per quanto riguarda lo spazio interno, invece, lo abbiamo pensato e realizzato esattamente come è successo per i materiali di archivio: è stato il frutto di accumulazione e scoperta. Le sedie in velluto degli anni Venti, il tendaggio pesante, le lampade in stile liberty – che tra l’altro mi sono state fortemente criticate, in quanto simbolo di una presunta scelta estetica borghese [Luciani ride, mentre noi ci immaginiamo Tognazzi nelle vesti di Madame Royale a “campeggiare” su una delle sedie del Centro]. Quello che non capisco è come la scelta di prendere un arredamento vintage e camp – quasi di scarto – dai mercatini, possa essere più elitario di un arredamento minimalista che hai sovrappagato all’Ikea.  È il “terrore del glitter”: un certo tipo di estetica – noi l’abbiamo chiamata “favolosità” – anche se storicamente importante per il movimento queer, sembra non poter accompagnare discorsi politici troppo radicali.

Questa ricerca bulimica ti allontana quindi da una modalità di acquisizione «ufficiale». Parlaci di questo momento di scoperta, di quali materiali si nascondono nel caos dei mercatini o degli annunci su ebay.

Ho notato che molti archivi, anche queer, snobbavano un certo tipo di materiale, soprattutto i memorabilia. Le cose che conserviamo nei cassetti a impolverarsi, senza comprenderne a pieno il valore: volantini di eventi, calendari, confezioni di preservativi, tutti oggetti quotidiani che, subendo un mutamento nella grafica e nel linguaggio, mi sembravano fonti storiche interessanti tanto quanto il resto. Ho cominciato a cercare quindi i materiali più difficili da trovare, perché spesso vengono buttati via, e mi sono ritrovato così nelle case di persone della vecchia guardia militante a chiedere cimeli, ricordi materiali.

Anche noi siamo accumulatori seriali di ricordi materiali, e tappezzando le pareti delle nostre camere ci siamo accort* di quanto è bello essere circondat* da estetiche familiari e personalmente selezionate – un buon esempio di quella Bedroom Culture di cui parlavano McRobbie e Garber nel ’77 – ma accumulare con la consapevolezza di creare un archivio storico personale è un evidente atto politico.

Ognuno ha il suo piccolo archivio. Da un punto di vista di studio, di conservazione di vita delle persone (e non solo queer) è un peccato non considerare gli oggetti. Ci sono degli universi, delle storie che ancora non si conoscono perché sono chiuse negli armadi e non si dà loro valore. E invece sono inestimabili, perché rispetto ai libri e alle riviste che vengono stampati in tirature numerose, questi oggetti conservano la loro unicità e rimangono legati alla vita che abbiamo vissuto. Nei libri di storia spesso le fonti secondarie non vengono citate, ma se vogliamo capire davvero come vivevamo allora bisogna necessariamente considerarle: le lettere che ci siamo scritti, le cartoline che ci siamo inviati… quelle sono testimonianze reali. La storia dei libri sembra ufficiale perché è stampata, ma non descrive le nostre realtà plurali: ci informa solo su come gli altri ci descrivevano.

Un favoloso scorcio del Centro di Documentazione.

Non a caso una delle prime studiose a confezionare la differenza tra sesso e genere è stata proprio una storica, Joan Scott. Si può dire che l’archivio, oltre a essere uno spazio politico, abbia un valore storiografico che aiuta a vedere la storia dal basso?

Dipende da come uno struttura l’archivio, perché le fonti secondarie non bastano, rischiano di dare una visione falsata della storia. Come dicevo, i documenti in cui le persone parlano in prima persona ci aiutano a scoprire che le persone queer sono sempre esistite. Ci si rende conto come il concetto di queer, che poi è nato negli anni Ottanta, si possa adattare a contesti anche molto precedenti. Quindi l’archivio è assolutamente uno spazio politico, perché vi è al suo interno la possibilità di elaborare nuove teorie (non solo storiche ma filosofiche, sociologiche) e di instaurare connessioni inter-temporali – ma anche inter-spaziali, visto che il mio collezionismo esce dai confini nazionali. Per me è davvero importante avere un archivio della complessità, che comprenda tutto: arte, vita quotidiana, libri che parlino bene e male di noi, le riviste del movimento – ma anche quelle che ci andavano contro.

Riconoscersi nelle pagine di un libro è un’esperienza quasi epifanica, per non dire maieutica, o almeno per noi è stato così con Notre-Dame-des-Fleurs di Jean Genet e Nights at the Circus di Angela Carter. Ti ricordi qual è il primo libro in cui ti sei riconosciuto?

Il primo libro è stato La lingua perduta delle gru di David Leavitt, in cui ci sono dei riferimenti, ma non proprio delle scene omoerotiche. Però mi ha aiutato a fare coming out, perché seppur venissi da una famiglia sessantottina vivevo nel contesto di una cittadina piccola e il problema era il contorno, la scuola, gli amici. Negli anni Novanta trovare un libro del genere in una piccola libreria di paese mi sembrava una rivoluzione. Il primo libro che ho trovato che mi facesse pensare all’archivio non lo ricordo, ma ricordo il primo libro di cui non si sapeva più nulla e che ho riportato nel presente: Duello di donne, di Ferdinando Vassallo, pubblicato da Alibrandi a Milano nel 1896. Lo pagai tre euro, sulla copertina c’erano due donne che duellavano con le spade, quindi mi sono incuriosito. In fin dei conti era un testo protofemminista: parla di due donne che si contendono in duello armato lo stesso uomo. Alla fine una delle due viene ferita al seno (l’elemento voyeuristico non manca mai, si capisce che la penna era di un uomo) e l’altra va ad abbeverarsi del sangue che esce da questa ferita. Abbandonano l’uomo e se ne vanno via insieme.

Angoli di abitabilità dell’Archivio.

[Ci viene da ridere e associamo i topoi del libro di Vassallo a Death Becomes Her, con Meryl Streep, e a The Other Woman con Cameron Diaz. Poi facciamo una pausa dall’intervista: ci giriamo una sigaretta e usciamo a fumare per cercare di riordinare le idee, l’entusiasmo della scoperta ha travolto anche noi. Abbiamo cose a cui pensare. Nonostante sembri che l’esistenza degli spazi-archivio – come zona di fruizione dei saperi minoritari – tenda a verificarsi in un clima di apparente accettazione culturale, nell’attuale contesto socio-politico rischia di essere ancora soggetta a indicizzazione religiosa o distruzione politica.

Per questo motivo, nonostante la tangibilità fisica dei materiali di archivio conservi un’efficace tasso di esperienzialità manuale, ci sembra indispensabile trasformare questi documenti in “saperi immateriali” – un processo che dovrebbe muoversi su più binari: dalle modalità di fruizione e accessibilità dell’archivio, fino ad arrivare a quei processi di sperimentazione collettiva di cui parlava Preciado in Testo Tossico. Una delle possibili pratiche di “smaterializzazione” del sapere consiste nella sua digitalizzazione, e nella sua divulgazione attraverso la rete e i social network, che intrappolano l’informazione rendendola, almeno apparentemente, una massa eterna e consultabile infinite volte – ma non è detto che anche questa pratica non sia soggetta al grande occhio che ancora filtra e legittima i contenuti (visuali, testuali, sonori che siano). Le pratiche e le teorie dissidenti hanno quindi bisogno di diventare particelle che si fondano con i corpi, i luoghi e i discorsi.

Il Centro di documentazione Aldo Mieli non è solo un ritrovo spaziale per ricercatori e curiosi, ma un cuore pulsante di contenuti (parzialmente) digitalizzati lasciati alla mercé del singolo, rifugio per squattrinati – Luca ti lascia direttamente le chiavi in mano; l’archivio diventa casa tua –, motore organizzativo di eventi culturali: è insomma uno spazio-tempo abitato da una potenza immaginativa e da un impulso utopico che permettono la costruzione di nuove prospettive di fare-mondo3.

Abbiamo pensato abbastanza. Quando la sigaretta si spegne rientriamo, ci sediamo e riprendiamo da dove ci eravamo interrott*.]

La piccola sala dei vinili.

In che modo sei riuscito a trasformare concretamente il tuo collezionismo in un archivio pubblico, al secondo piano di un edificio di Carrara?

Le due cose sono sempre coincise, in realtà! Io sono un anarco-comunista, non ho mai concepito l’idea del collezionismo classico, aristocratico, del godersi i materiali a casa propria. Non mi interessava, mi sembrava un modo sterile di conoscere. Ho messo a disposizione la mia casa fin da subito, ad amici, ricercatori o curiosi: per me è stato uno stimolo e una gioia. Forse per i miei genitori meno, visto che casa mia era un porto di mare!

Hai de-materializzato lo spazio-archivio attraverso i social e lo hai chiamato Queer Archive. Cosa Significa per te utilizzare lo spazio digitale in questo senso?

Io vorrei addirittura aprire un canale OnlyFans. Innanzitutto perché può aiutare a finanziarci, ma anche perché ci sono tutta una serie di materiali pornografici che non possiamo mostrare su altre piattaforme. Poi con l’immagine ci fai quello che vuoi, alla fine è un luogo a pagamento per la condivisione di contenuti. Il fatto che non ci sia censura attira il porno, che non ha altrimenti modo di esistere. Devo capire come fare perché credo serva un documento, quindi questa pagina avrebbe il mio nome…

Anche se il corpo che deterrebbe lo spazio dell’account non sarebbe il tuo, ma il corpo-archivio del Centro di documentazione.

È pornografia anche questa! Viene sempre messa in secondo piano, ma c’è una produzione sterminata di letteratura pornografica in Italia. Durante il periodo pre-fascista si pubblicavano molti libri erotici che venivano venduti nelle librerie, quelli pornografici erano distribuiti invece clandestinamente. Ma la produzione era immensa, quasi al pari di quella francese. Fortunatamente il movimento transfemminista degli ultimi dieci anni si sta appropriando di un’idea di sesso differente rispetto a quella veicolata dal femminismo degli anni precedenti. Vero è che la pornografia come altri temi è multi-sfaccettata, complessa, ci sono elementi sessisti e patriarcali, ma c’è anche tanto altro.

Immaginiamo questa piattaforma.

Me la immagino caotica e priva di categorizzazioni. Anche su altre piattaforme pubblico dei contenuti senza un criterio particolare: a un volantino degli anni Novanta può seguire un libro dell’Ottocento. Le categorizzazioni creano mondi separati, invece avere tutto il materiale sul tavolo aiuta a fare delle scoperte interessanti. Si crea una genealogia differente a seconda di chi consulta il materiale. Vorrei che rispecchiasse lo stato attuale dell’archivio: un caos stimolante. A casa mia non ho mai catalogato nulla, eppure sapevo dove trovare le cose e quando è diventato un archivio mi sono reso conto che anche gli altri si trovavano bene così. Mi piacerebbe mostrare tutto con un approccio storiografico: mostriamo anche la queerfobia! Ovviamente dandogli un senso, tematizzandola. Non censurare nulla sarà complesso, ma credo che con la dovuta maniera di presentarli, riuscirei a esporre anche i contenuti problematici come quelli della NAMBLA (North American Man/Boy Love Association), una realtà di cui  tutt’ora faccio fatica a legittimare la passata esistenza, perché era un’associazione pederastica nata dopo Stonewall, che ha effettivamente contribuito alla creazione del pride. Molti materiali che riguardano il passato del movimento queer (soprattutto per quanto riguarda l’omosessualità maschile) presentano infatti elementi pederastici: era difficile trovare soggettività più virili in cui l’elemento efebico non era presente. Se ragionassimo come ragioniamo oggi il mio archivio sarebbe da bruciare. Io credo che l’importante sia contestualizzare i contenuti.

Memorabilia sparsi per l’archivio.

Mentre Luca si alza in piedi ci scambiamo le ultime parole, prima di salutarci e di saltare su un treno che ci riporti a Roma. Parliamo ancora dell’esistenza di una bolla di contenuti a pagamento esente dalla censura – Only Fans è un archivio digitale e sessuale che prova a isolarsi dai meccanismi del pudore attraverso il denaro. Le piattaforme digitali sono  uno strumento che concede l’accesso al piacere sessuale a pagamento, capitalizzando le perversione e formalizzando la deviazione dal consentito e dall’accettabile. Come si può “queerizzare” uno spazio così fintamente anticonvenzionale, per diffondere contenuti “minacciosi”? Una risposta possibile è quella di cui parla Luciani: il porno letterario, il porno d’archivio, quello memorabile, che viola le linee guida della community. Non più un essere definito da un potere che sovranizza lo spazio digitale, ma un erede legittimo dei movimenti di liberazione che, con una politica esperienziale e radicale, facevano del sesso una sperimentazione continua. Pagheremmo volentieri una piattaforma digitale che ci desse la possibilità di vedere qualcosa in più del materiale riproduttivo, dei finti desideri carnali, dei finti orgasmi: e infatti A Queer Archive su Only Fans sarebbe velleità artistica e sessuale di (multi)materiali deformi, anali, perversi. Contenuti a pagamento, ma solo per ora

Non vediamo l’ora di masturbarci leggendo qualche Anonimo che non sapeva di essere queer.


  1.  Sharer, B., Wendy, «Disintegrating Bodies of Knowledge» in Rethorical Bodies a cura di J.Selzer-S.Crowley, University of Wisconsin Press, Madison, 1999. ↩︎
  2.  Ballif, Michelle, Re/Dressing Histories; Or, on Re/Covering Figures Who Have Been Laid Bare by Our Gaze in Rhetoric Society Quarterly , Winter, 1992, Vol. 22, No. 1. ↩︎
  3. Muñoz in Cruising Utopia offre una lettura del legame fondamentale che esiste tra le pratiche queer e la potenza politica – blochianamente utopica – che esse nascondono: critica dell’essere presente e dell’ordine dominante per re-immaginare le nostre reali condizioni di possibilità. ↩︎