L’animale è da sempre rappresentato in letteratura, ma la sua presenza, per quanto scomoda e inquietante, è spesso funzionale ad uno sguardo che è determinato esternamente. L’animale è chiamato a rappresentare, con la possibilità dell’estremo, del bestiale e del mostruoso, l’interiorità umana con le sue ipocrisie, con i suoi sogni di liberazione, i suoi gesti che si imprimono in una caricatura. Sotto alle possibilità infinite di questo rispecchiamento giace una struttura di dominio, quella in cui chi scrive e rappresenta è in un rapporto asimmetrico rispetto all’oggetto della sua narrazione. Si parla di “struttura” appunto, perché lo specismo non è una semplice forma di discriminazione, ma il prodotto di una trama di relazioni socioeconomiche e politiche, come emerge da Antispecismo politico di Marco Maurizi (L’ortica 2022). In questo saggio, dopo decenni di riflessione sull’antispecismo e di militanza in ambienti di sinistra progressista che per lo più ignorano la questione animale, Maurizi propone una riflessione teorica importante per legare gli interessi di umani e di altri animali per la costruzione di un’alternativa al modo di produzione capitalistico [1]. Si distingue tanto da un antispecismo detto “morale”, cioè unicamente incentrato su questioni di etica, quanto dal vegan capitalism della “spesa sostenibile”, del “voto con la forchetta”. Una prassi efficace per portare una politica antispecista si può infatti ricercare unicamente, secondo Maurizi, quando si riconosce che umani e altri animali sono collettivamente sfruttati dal capitale. Lo stesso capitale che ci sta portando al collasso climatico, alla crescente precarizzazione e al disagio sociale:
Quello che vorrei che il movimento di liberazione animale comprendesse e facesse proprio è l’esigenza di pensare tattiche e strategie di lotta che partano non da una diagnosi di tipo etico e dall’azione individuale ma da un’analisi della società e della trasformazione della società stessa, poiché i fenomeni che combattiamo nel caso dello sfruttamento animale non sono riconducibili al semplice “sadismo” degli individui. Si tratta di una forma di violenza e di sfruttamento che emerge da strutture inter-soggettive, trans-individuali, in una parola: sociali. E che, dunque, solo attraverso l’azione politica, cioè collettiva e coordinata, possiamo sperare di superare.
È possibile rendere conto di queste strutture inter-soggettive nella rappresentazione letteraria del rapporto umani-animali? La risposta che mi sento di dare e con cui avvio questo viaggio intertestuale è che gradualmente lo sguardo verso l’animale sfruttato si rende più consapevole e si avvicina al modo in cui l’essere umano racconta il proprio corpo, venduto ogni giorno per produrre quel plusvalore che pure rende la sua condizione sempre più precaria. Quest’ultima narrazione e indagine del sé sta ottenendo sempre più riconoscimento in quella che viene definita letteratura working class. Essa porta in primo piano storie e soggettività in cui le questioni prettamente etiche o morali non bastano come posizione antagonista, perché sono le disuguaglianze strutturali e di classe le prime a dover essere raccontate e colpite per proporre una rappresentazione di sé autentica. Se è pur vero, come scrive Alberto Prunetti in Non è un pranzo di gala (minimumfax 2022), che «sono i conflitti sociali a spostare il peso dei rapporti di forza nella società», la letteratura working class può «contribuire a tenere alto il livello del dibattito attorno alla classe lavoratrice», che scrive la propria storia liberandosi da rappresentazioni patetiche o bestiali della propria condizione, per lo più provenienti da opere che rispondono al gusto (e al mantenimento di privilegi socioeconomici e politici) della classe media, quella che ha più accesso all’industria culturale.
Il maiale non potrà mai scrivere un memoir, né “fare la rivoluzione”, come afferma Leonardo Caffo a titolo del suo saggio per un antispecismo “debole”, in polemica con Maurizi [2]. Tuttavia, la rappresentazione del rapporto asimmetrico che intratteniamo con l’animale, evidenziando al tempo stesso le disuguaglianze presenti nelle società umane dominate dal capitale, trova forma in quel “dare voce” consolatorio, intimo e individualistico a cui molta letteratura su animali ci ha abituato. Un esempio di questo sguardo alternativo lo dà Luigi Di Ruscio, per esempio, nella raccolta Istruzioni per l’uso della repressione (Savelli 1980):
LXXI
chiudere un porco vero nel reparto non un porco normale
un porco insomma un maiale insomma chiuderlo nel reparto per otto ore
vediamo come reagisce l’associazione protezione animali
vediamo come reagisce a questa estrema crudeltà un maiale
schianta strozza impazzisce si indemonia vediamo se è ancora commestibile
vediamo se il sistema nervoso non gli si è spezzato
vediamo se è diventato impotente con il sesso aguzzato e torto come un cavatappi
se è sopravvissuto allo schianto liberiamo il maiale
portiamolo nelle tante terre abbandonate e che pascoli
scovi le tenere radici e preziosissimi tartufi e godi maiale porco
sopravvissuto ad uno schianto atroce ora godi
sgambetta liberato respira arie pure saziati
però la proposta dimostrativa non può essere accettata
il maiale è stato selezionato perché ingrassi tenere bistecche di maiale
sottilissime fette di prosciutto e ingrassi un grassissimo cervello
per la schifosa coppa di maiale saziati ingrassa riposa ti aspetta un lungo coltello
Questo testo è risuonato, dalla voce di Angelo Ferracuti, al primo Festival di Letteratura Working Class organizzato da Edizioni Alegre e il Collettivo di fabbrica GKN (Campi Bisenzio, 31 marzo – 2 aprile). Sentire recitati questi versi in un luogo di resistenza, di lotta politica e sociale, apre alle possibilità di un rapporto tra letteratura working class e antispecismo politico. Soprattutto nella seconda metà del testo, Di Ruscio coglie infatti quelle «strutture inter-soggettive» che interessano la riflessione di Maurizi:
chi lavora in un reparto è stato selezionato per tutta una cosa diversa
resisti allo schianto per tutta una stagione
sei un animale diverso farti a pezzi non serve a nulla
devi resistere intero (sarai selezionato sempre meglio
sino a che non scoppi) metti un uomo nel reparto
chiudili dentro per otto ore consecutive vedi come reagisce
prendi un uomo dell’umanesimo staccalo dai quadri e affreschi dei grandi umanisti
prendi questo uomo umanizzatissimo vedi come reagisce
fare moltissime prove vediamo cosa succede
vedi se diventa pericoloso (può diventare pericoloso
chi lavora in fabbrica per infinite ore consecutive
può diventare molto pericoloso controllate tutti i telefoni
apri il suo cervello vedi cosa medita
misura la sua rabbia aspettati che scoppi)
Di Ruscio coglie la connessione tra il macello e la fabbrica, tra sfruttamento dell’animale non umano e umano. Il maiale deve morire per diventare merce, mentre l’operaio serve vivo per vendere la propria forza-lavoro, producendo quel plusvalore sottratto da chi detiene i mezzi di produzione. Naturalmente questa poesia non nasce da una riflessione estesa dell’operaio marchigiano sull’antispecismo politico, ma ne rappresenta un primo, quasi involontario approccio.
Un’opera che si incentra interamente sulla rappresentazione dell’animale nel macello, per quanto ponendosi in una posizione meno politica e più morale, è Macello di Ivano Ferrari, edito da Einaudi nel 2004 ma scritto negli anni Settanta, quando l’autore è impiegato al macello comunale di Mantova. È un libro giustamente definito di culto, che raccoglie 86 brevi poesie con un’impressionante varietà di sguardi verso l’animale non umano, da un altrettanto vasto campione di figure umane, con differenti funzioni all’interno del mattatoio. Ferrari cerca di esplorare a fondo il rapporto tra umano e dis-umano, tra vita e morte, rappresentando la violenza e l’apatia di gesti che perdono significato, della scrittura poetica come resistenza al male che ci si trova di fronte. In Macello risalta continuamente la presenza incomoda di un referente assente: le foto di donne nude appese allo spogliatoio, accanto a un manifesto che mostra i tagli migliori delle parti di una vacca; il pene di un toro usato come sciarpa o il cuore con cui giocano a pallone «macellatori contro facchini». I problemi che attanagliano l’io poetico di Macello, di fronte alla violenza che quotidianamente e meccanicamente si consuma, sono esclusivamente di tipo etico e morale. Sono, per citare una poesia dalla raccolta, «problemi dell’anima», di un essere umano più che di un lavoratore. Nella poesia di Ferrari non mancano le figure umane sfruttate nella macchina di morte che è il mattatoio, ma la violenza è sempre in un rapporto uno a uno: non solo da umani ad altri animali, ma anche dei primi tra loro stessi:
L’animale dissanguato
viene privato dei piedi
della testa
degli intestini
quindi scorticato
dalle stesse mani
che acconciano la carne viva
di una praticante.
L’unico testo in cui i lavoratori esprimono dissenso è uno in cui sono rappresentati mentre scioperano, però la protesta non è indirizzata contro le condizioni di lavoro imposte dal padrone del mattatoio, ma in solidarietà al popolo cileno contro la dittatura di Augusto Pinochet, definito singolarmente «il macellaio». Ferrari insomma non ha interesse a unire i destini di umani ed altri animali in quanto soggettività mercificate dal capitale, ma come anime affini che possono soffrire, compiere atti di violenza, morire e mostrare nonostante tutto un’estrema vitalità. Quest’ultima, in Macello, è riscattata dalla scrittura poetica, da ciò che fuori dal mattatoio permette di resistere e non rinunciare alla propria umanità:
Qualcuno mi chiede se io ami
se durante il giorno cerco
o risolvo, se almeno vedo.
Quando guardano le mie labbra
o le mie mani
e più maliziosamente giù, fra le cosce
sento sul corpo le domande
che mi attraversano
come una forca farebbe con la paglia.
Se faccio sanguinare il vento
Se trasformo le foglie fredde
in involtini di carne, se i cavalli bianchi del mio rinascimento
sono esposti sul bancone di una macelleria
non rinuncio alla mia umanità come voi
del resto.
La poesia entra letteralmente e a forza dentro l’animale, mentre l’io poetico-macellaio prova la febbre «al macellando» e inserisce, assieme al termometro, «un bigliettino / di versi scarabocchiati prima». L’umano che preserva se stesso attraverso la poesia si mantiene, insomma, in una posizione asimmetrica rispetto all’animale non umano. L’ingiustizia che coglie nella violenza compiuta non è, in questo caso, politica, ma frutto di considerazioni esclusivamente morali, da confrontare cercando perdono e bellezza in mezzo alla devastazione e al sangue.
Un discorso ancora diverso merita Sirene di Laura Pugno (Feltrinelli 2006), per un aspetto peculiare dello specismo che emerge in questo breve romanzo. Ambientata in un futuro non distante, la narrazione insiste maggiormente sulla mercificazione del corpo femminile, umano e non umano, sulla violenza patriarcale che non si limita alla specie umana. In una società distopica in cui il sole è diventato cancerogeno, il mondo è diviso in città sotterranee e subacquee comandate da organizzazioni criminali fallocentriche, che fanno affari con la mercificazione dei corpi delle sirene, costringendole a prostituirsi e alla riproduzione forzata, per poi diventare carne da macello. Più che Antispecismo politico di Maurizi, accanto a questo breve romanzo si può leggere The Sexual Politics of Meat di Carol J. Adams (Continuum, 1990), che mostra la stretta relazione tra specismo e patriarcato [3]. Tuttavia, nella società autoritaria descritta da Pugno in Sirene le disuguaglianze di classe sono evidenti, e questo pone le basi per una lettura politica delle vicende narrate:
I ricchi, e tra questi gli yakuza, avevano scoperto la vita nei resort suboceanici. La gente normale si arrangiava nei bunker, che erano diventati il modello architettonico prevalente, e con mute da giorno, maschere comprate al mercato nero e biacca protettiva. I disperati, quelli che non avevano niente da perdere o nessun particolare desiderio di continuare a vivere, andavano avanti come prima. Vivevano nei vecchi edifici, uscivano all’aperto.
Samuel era uno di loro.
Anche Samuel lavora in un macello, in cui le sirene sono costrette a un ciclo continuo di riproduzione forzata con esemplari maschi. In una di queste “monte”, Samuel si sostituisce a uno dei maschi e da questa violenza nasce una sirena in parte umana, che lui chiama Mia. [Spoiler fino a fine paragrafo] Per non essere scoperto dai suoi colleghi e superiori, riesce a portare la sirena fuori dallo stabile e a nasconderla per un periodo limitato, in cui cerca di insegnarle a parlare e, come con la madre, ha con lei un rapporto non consensuale. Samuel è poi catturato dalla yakuza, che vuole effettivamente scoprire se la sirena mezzo umana sia in grado di parlare. Mia pronuncia il nome di Samuel e sta per essere definitivamente catturata, ma quest’ultimo, ormai prossimo alla morte, riesce ad aprire un canale di scolo che fa finire il suo corpo e quello di Mia nell’oceano. La sirena si ciba del corpo di Samuel e così nasce la loro figlia, con cui Mia vivrà in fondo all’oceano, lontana dalle società umane che cercano profitto in nuovi territori.
Più che il libro di Ferrari, Sirene è stato definito un romanzo antispecista perché entra più direttamente nel dibattito contemporaneo su questioni prima di tutto etiche, oltre a rispecchiare in qualche modo anche un certo tipo di attivismo contemporaneo. Nella storia è presente il Mermaid Liberation Front, un’organizzazione dal basso che non propone un sistema politico, sociale ed economico alternativo, ma celebra la figura della sirena come divina e prevede la sua sopravvivenza all’essere umano, come del resto fa la voce narrante: «Le sirene smetteranno di vivere in fondo al mare e ci succederanno sulla Terra. Non le abbiamo addomesticate, non ancora. Le teniamo prigioniere, mangiamo la loro carne. Ma non siamo riusciti a addomesticarle». Ciò che emerge con maggiore enfasi dal racconto di Pugno è che non esista soluzione all’estinzione dell’umanità, chiusa in una società dominata dal maschio che assoggetta sirene e femmine umane. Samuel in questo senso è il personaggio più emblematico: [Spoiler fino a fine paragrafo] per tutto il romanzo sente la mancanza di Sadako, la sua compagna morta dal “cancro nero”, che gli è stata data in regalo dalla yakuza dopo essere stata schiava di diversi uomini più potenti di lui. Samuel sovrappone Mia a Sadako, iscrivendo sul corpo della prima i kanji, i tatuaggi che ricoprivano il corpo della seconda. Non si interroga mai se sia giusto o meno violentare le due sirene, né libera Mia la prima volta perché vuole che sia libera, ma solo perché non si scopra quello che ha fatto. A tradire Samuel è il suo collega agli impianti, Ken’nosuke, che ha la possibilità di fare carriera nella yakuza, cosa che il protagonista invece non è riuscito a fare.
La società di Sirene è popolata da uomini che esercitano violenza patriarcale e hanno l’ambizione (illusoria) di cambiare il loro status sociale, o che si lasciano morire perché non rimane altra prospettiva. Sanno di essere sostituibili in qualsiasi momento, come le sirene, ma questo non fa maturare in loro una spinta consapevole a cambiare le cose. L’unico movimento antagonista nel romanzo, come alternativa alla società oligarchica capitalista e criminale che domina le città subacquee, propone unicamente la liberazione delle sirene e accoglie l’estinzione degli esseri umani. Il Mermaid Liberation Front potrebbe essere accostabile, in modo chiaramente estremo, a quei movimenti antispecisti criticati da Maurizi in quanto mancanti di una prospettiva che includa gli interessi di umani e di altri animali, accantonando i primi sulla base di una loro colpa originaria:
Anche una parte dello strato più intellettuale e consapevole è attratta dall’idea secondo cui l’umanità è una specie “malata” che se non ci fosse sarebbe meglio per tutti. […] Che senso ha agire per migliorare la condizione degli animali se si considera l’umanità, in blocco, come un gruppo di irrimediabili “assassini”?.
Se leggendo Sirene emerge la banalità del male che caratterizza quasi tutti i personaggi umani, incluso il protagonista, il discorso cambia passando a Joseph Ponthus e al suo Alla linea (éditions table ronde, 2019 – in italiano Bompiani, 2022). L’autore francese, prematuramente scomparso nel 2021, pone in primo piano la riflessione sul suo essere lavoratore precario, su come questo influisca sulla macchina di violenza e morte a cui ogni giorno è confrontato. Emerge per esempio nel dialogo con Pok Pok, il suo cane, una volta tornato a casa dal turno:
Chissà cosa capiresti se ti raccontassi esattamente il mattatoio
Cambierebbe forse il tuo sguardo su di me
Mi considereresti come un agente della banalità del male
Un bastardo qualunque
Uno che fa il suo lavoro di anello della catena disgustosa e poi si chiama fuori per un sacco di buone ragioni
Può essere orribile da dire ma
I capi potrebbero chiedermi di uccidere gli animali
E io lo farei
Devi pur lavorare
Sento a volte nella pausa i ragazzi addetti all’abbattimento
Gli stringo la mano
Parlo un po’
Non sembrano peggiori o migliori di me
Hanno anche loro occhi distanti e stanchi
Non da barbari sanguinari
Chissà
Forse
Anche alcuni di loro hanno un cane a cui vogliono bene
Non lo so
Ponthus pone in primo piano la sua soggettività alienata e sfruttata dal lavoro, la sua consapevole analisi della propria forza-lavoro venduta alla fabbrica, di cui pure si ripromette di raccontare la «paradossale bellezza». L’idea che lo specismo sia proprio di una persona che deve essere per forza cattiva o insensibile è qui rigettata in favore di un’analisi socioeconomica più articolata, dove chi si trova costretto ad un lavoro precario può trovare più difficile ragionare, oltre che sulla propria miseria, anche su quella dell’animale mandato al macello. Ciononostante, attingendo ai suoi studi e alle canzoni che lo tengono in vita, come La folle complainte di Charles Trenet, l’autore resiste all’apatia e finisce comunque per accomunare, pur non direttamente, umani e altri animali, alla linea che li opprime e li mercifica. Ciò non significa che Ponthus (come Di Ruscio, per tornare all’esempio iniziale) non sia specista: in una lettera alla moglie contenuta nella raccolta, un verso restituisce tutta la contraddittorietà di un operaio che riflette sul proprio sfruttamento mentre contribuisce a mercificare l’animale, rubando delle aragoste come forma di riappropriazione proletaria contro la fabbrica, mangiando in mensa parte di quegli stessi animali di cui ha pulito i resti e le tracce di sangue, di cui ha spinto le carcasse: «C’è che sapendo io mangio bistecche».
Partendo da questa consapevolezza, da un’analisi materiale dell’assoggettamento al modo di produzione capitalistico che include umani ed altri animali, l’antispecismo può continuare a emergere nella rappresentazione letteraria, accanto a un discorso morale ed etico che non è più l’unico possibile, come ho cercato di mostrare in questo breve percorso intertestuale. Sempre di più la questione animale non è solo il rispecchiamento dei desideri e delle posizioni di un singolo, ma un discorso che deve portare implicazioni collettive e critiche radicali: la stessa esigenza che ha animato il Festival di Letteratura Working Class. Offrendo un resoconto di questa esperienza su lay0ut, Alberto Prunetti parla di “spezzare l’assedio”. In questo gesto di rottura, nella costruzione di un rinnovato e composito movimento di sinistra, come può trovare spazio l’antispecismo e, soprattutto, l’antispecismo politico? La risposta a questa domanda è necessariamente un lavoro in costruzione, a cui anche la letteratura può e deve contribuire, per costruire e liberare un immaginario che ridiscuta il rapporto tra arte e animalità.
[1] Dalle riflessioni di Maurizi e di altre persone antispeciste è nato GAP – Gruppo Antispecismo Politico (@gruppo_antispecismo_politico), un progetto che intende portare a sinistra una proposta concreta e alternativa al capitale, unendo antispecismo ed ecosocialismo.
[2] Leonardo Caffo, Il maiale non fa la rivoluzione. Il nuovo manifesto per un antispecismo debole (Edizioni Sonda 2013). Un confronto tra Maurizi e Caffo si può leggere qui.
[3] Il saggio di Adams è stato tradotto e pubblicato in Italia con il titolo Carne da macello (Vanda edizioni 2020).
Copertina: Miriam Montani, “Lo strappo” 2022 fotografia digitale, particolare e “Gli occhi di Lucia” 2022 Ph Mara Predicatori. Tutte le immagini in corpo al testo su gentile concessione dell’artista.