We live in capitalism, its power seems inescapable —
but then, so did the divine right of kings
Ursula K. Le Guin
In un post sul mio profilo Instagram, che la piattaforma fa risalire a 146 settimane fa, si legge: «La police larbine pour le riches. La police tue pour les riches. Abolissons la police, abolissons les riches». Ero arrivata a Marsiglia da poco, approfittando di una ristretta ma fortunata finestra di tempo nell’estate del 2020, per raggiungere un’amica che per una serie di circostanze viveva temporaneamente a casa di un altro nostro amico dottorando nella città francese. Il carosello postato racchiudeva una manciata di scritte e volantini e sotto la mia didascalia sentenziava: «Punti di riferimento». Come a dire: sono nel posto giusto, ci capiamo. In un anno in cui si era tornato tanto a parlare di razzismo e abolizionismo – l’omicidio di George Floyd negli Stati Uniti e la successiva ondata di manifestazioni in tutto il mondo, il sovraffollamento e la violenza nelle carceri italiane amplificate dall’emergenza Covid –, muoversi in uno spazio urbano in cui qualcuno aveva lasciato un segno con degli ideali a me vicini era in qualche forma accogliente.
Il discorso abolizionista popola da decenni – con le dovute peculiarità – il dibattito militante trans-nazionale. Con abolizionismo si intende un movimento o corrente di pensiero volta appunto a modificare una determinata condizione sociale non attraverso riforme, ma attraverso l’eliminazione di determinate strutture oppressive. Nello specifico contesto italiano tanto se n’è parlato a partire dalle riflessioni di Salvatore Ricciardi, dalla violenza poliziesca in occasione del G8 di Genova; negli ultimi mesi per via dello sciopero della fame di Alfredo Cospito finalizzato a mettere in luce la tortura di detenzione speciale fino all’ultimissimo caso. In ultimo, mentre scrivo, della donna trans nera per terra e disarmata manganellata da alcuni agenti della polizia locale di Milano. Se viene perlopiù facile posizionarsi criticamente rispetto alle espressioni più violente delle istituzioni di carcere e polizia, più difficile è riuscire a leggere e ricondurre queste dimostrazioni plateali a una natura intrinsecamente violenta delle stesse. Specialmente quando queste forme di violenza sono vissute da una posizione che ci salvaguarda dall’esserne le vittime principali. Laddove poi quella consapevolezza viene raggiunta, spesso segue il vuoto. Di azioni, possibilità, immaginazione.
Sogni e pratiche di giustizia
Abbiamo un’enorme quantità di contribuiti a cui fare affidamento per studiare, persone che nel dolore dei propri lutti hanno dovuto trovare la forza per mobilitarsi e anche produrre materiale affinché fosse chiaro come carcere e polizia siano strumenti del potere: un potere capitalista, razzista, misogino e coloniale, quindi interessato a preservare il suo status. Eppure se ci ritroviamo negli slogan, tra le manifestazioni fino alle più banali condivisioni online nella speranza di percepire uno stralcio di connessione con altri, difficilmente siamo poi in grado di dirci che sì, è davvero possibile un mondo senza e agire attivamente verso il suo raggiungimento. Probabilmente per due motivi: da una parte, le esperienze di pratiche abolizioniste nascono e vengono sperimentate all’interno di comunità già formate – spesso nate per necessità, come le realtà dei quartieri a maggioranza di popolazione nera come spesso ha raccontato Angela Davis – mentre viviamo in una società che ci spinge all’isolamento, alla mancanza di tempo e alla stanchezza, al poco margine di rischio in cui non ci sentiamo nella possibilità di creare davvero dissenso e un tessuto sociale alternativo e resistente, delegando sempre a chi sta messo peggio, chi non ha scelta.
Dall’altra parte, qualcosa che un Leitmotiv delle proteste sintetizza bene: Fuck the police means that we don’t act like police to each other. Come guardare non solo alle ingiustizie intorno a noi, ma riconoscere e mettere in discussioni non tanto le nostre reazioni emotive, ma il modo in cui desideriamo rispondere alla violenza e al conflitto. Per fare in modo diverso, bisogna prima pensare in modo diverso. Liberarsi da ciò che abbiamo dato per scontato. Riconoscere che desiderare un mondo senza prigioni, vuol dire anche liberarsi dall’istinto di vedere una persona annientata, credere nella sua possibilità di trasformarsi.
Giusi Palomba ha recentemente affrontato cosa muove queste fantasie di vendetta punitiva nel suo bellissimo La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la giustizia di genere, saggio recentemente pubblicato da minimum fax. Un testo importante per la densità delle riflessioni riportate, che cita le genealogie del pensiero abolizionista, a partire dalle voci del femminismo nero statunitense, restituendoci però un’esperienza che per contesto storico, culturale e sociale il lettore italiano non può che sentire più vicina. Più volte posizioni anticarcerarie vengono etichettate come posizioni a favore di chi compie qualcosa che è considerato un crimine, nel caso della violenza di genere quindi dell’aggressore e dello stupratore. Palomba nel suo testo si svincola fin da subito da questa possibile lettura affermando con chiarezza che «le prigioni sono un luogo in cui i diritti umani non sono garantiti» e che «il femminismo anticarcerario – così come qualunque movimento antipunitivista e abolizionista – […] vuole evitare altra violenza». Palomba non giudica né il desiderio di vendetta né la rabbia, ma li analizza con l’invito a generare da questi qualcosa di diverso, di più costruttivo. Scrive infatti, affidandosi anche alla analisi di alcuni prodotti cinematografici, che «le storie di vendetta […] a volte riescono nell’intento di fungere da occhio esterno» e ci fanno quindi capire come, in circostanze in cui la punizione viene sempre affidata a soggetti terzi, la vendetta è un modo di operare che “non delega il controllo, lo conserva, anche se poi ci trasporta in territori cupi e desolati, da cui è difficile tornare indietro”. Citando Elizabeth Long, aggiunge però che «la verbalizzazione del desiderio di vendetta è spesso liberatoria, mentre la messa in pratica della vendetta quasi mai lo è».
Immaginare un mondo in cui come comunità non abbiamo bisogno dell’intervento della polizia vuol dire quindi anche guardare in faccia la propria rabbia, cercando di far partire da questa qualcosa che non segua le tracce della vendetta, ma sia capace di dare inizio a un cambiamento. Vuol dire accettare la possibilità di trasformazione, individuale e collettiva, e riconoscere le sottili vie di come si può manifestare un sentimento punitivista per imparare a evitarlo. Illustra con lucidità e infinita chiarezza Palomba infatti che «punitivismo non è soltanto […] ricorrere al sistema penale per risolvere un problema sociale: sono le parole di stizza dette a un’amica in difficoltà, a un parente che non soddisfa le proprie aspettative familiari, a un dipendente sul posto di lavoro che non raggiunge un obiettivo, a una relazione intima da cui pretendiamo qualcosa che non ci può dare. Sono le reazioni saccenti e acide sui social che scatenano discussioni infinite».
Come reagire di fronte a un conflitto? A un abuso di una parte sull’altra? Occuparsi di giustizia trasformativa vuol dire sempre e in ogni caso mantenere l’accountability di una persona, ma anche ricondurne le azioni a un contesto sociale, culturale e di disuguaglianza economica che ha insegnato e tollerato l’esercizio di determinate oppressioni di alcuni individui su altri e creato i presupposti per cui delle categorie venissero marginalizzate, criminalizzate in quanto tali, ma anche costrette alla criminalità spesso come unico orizzonte possibile. Si può accettare che una persona si sia comportata male, pur rifiutando l’idea che questa venga esclusa da uno spazio o che resti chiusa per anni in una cella. «[…] il modo in cui concepiamo il conflitto, in cui rispondiamo al conflitto, il nostro comportamento da spettatori davanti al conflitto altrui, è cruciale per determinare se otterremo o no giustizia e pace collettive», scrive Sarah Schulman ne Il conflitto non è abuso, tradotto dalla stessa Palomba per minimum fax.
Sconfiggere il proprio “poliziotto interiore” non è però qualcosa che va fatto in solitudine, ma si innesca in seno a realtà comunitarie, di persone in relazione. Tutta l’analisi teorica del saggio di Palomba si snoda a partire da un’esperienza di giustizia trasformativa vissuta in prima persona. Negli anni di vita trascorsi a Barcellona, all’interno di un quartiere politicamente vivo, ha infatti partecipato a gruppi di giustizia trasformativa in seguito a una violenza sessuale avvenuta al suo interno, in cui la donna sopravvivente aveva però espresso la volontà di non denunciare l’aggressore. Da una parte perché l’iter giudiziario dei processi di violenza di genere è tutto fuorché a supporto della sopravvivente; dall’altra, cruciale, perché desiderava ci fosse un lavoro di responsabilizzazione e presa di coscienza individuale dell’abusante ma anche collettiva. Un lavoro sviluppato secondo le sue indicazioni e le necessità legate al suo processo di guarigione dal dolore subito, ma che coinvolgesse tutti, a livelli differenti, soprattutto l’uomo, neutralizzandone potere e privilegi all’interno della rete di quartiere e creando spazi di riflessione e autocoscienza sulla natura della violenza agita.
L’uomo di cui si parla nel libro era un amico di Palomba, una persona fondamentale per il suo inserimento nella realtà attivista catalana e a cui lei era legata da affetto e un legame di fiducia. Questo non è un dettaglio superfluo, perché molto del racconto dell’autrice si concentra sulle reazioni personali e sfaccettate di fronte a un evento del genere. Si parla di come si possa provare a fare a meno della polizia, ma anche di tutte le tensioni individuali, della delusione, dell’enorme carico di lavoro emotivo del gestire una situazione di questo tipo. Il saggio di Palombaè un libro sulla fatica e sull’imparare a stare scomodi, che non snocciola soluzioni semplici, ma restituisce tutta la complessità di un percorso che però può permettere a nuove forme di possibile di manifestarsi, in noi e intorno a noi.
Utopia concreta
Rende bene l’idea dell’abolizionismo come processo in divenire anche Derecka Purnell nel suo saggio Come sono diventata abolizionista. Polizia, proteste e libertà – recentemente tradotto in Italia da Fandango libri. Purnell scrive, nell’introduzione al suo saggio, come il concetto stesso di abolizionismo fosse per lei respingente e considerato, in senso dispregiativo, “utopico”. Il ribaltamento di questa prospettiva diventa però un qualcosa quasi di inevitabile. Come cittadina nera facente parte della “Trayvon generation” – definizione coniata da Elizabeth Alexandar in un articolo sul New Yorker – era cresciuta di fronte a numerosi casi di giovani coetanei neri vittima di violenza poliziesca. Nel suo libro, di capitolo in capitolo, intreccia storia personale a quella statunitense, affrontando vari aspetti della nostra vita colpiti da una società punitivista e carceraria, arrivando in conclusione ad esplicitare uno degli obiettivi fondamentali dell’abolizionismo: sradicare il complesso industriale carcerario e insieme il male, gradualmente ma allo stesso tempo, in modo da riuscire a rendere entrambi obsoleti.
Purnell precisa anche che questo non vuol dire che in una società abolizionista non ci saranno mai delle emergenze o del male inflitto, ma che la maggior parte di questo può essere prevenibile ed eliminabile. Illustra infatti una serie di modalità in cui una comunità può organizzarsi in modo abolizionista – nella gestione delle emergenze, appunto, ma soprattutto dal punto di vista del lavoro, del diritto alla casa, della sanità pubblica, della lotta contro la crisi climatica, cercando di sanare così le disuguaglianze miccia di azioni criminali e criminalizzate.
Nelle ultime righe conclude poi senza troppi giri di parole affermando che con l’abolizionismo la domanda da porsi non è “se”, ma “quando”.
Pratiche abolizioniste – d’altronde come quella raccontata da Palomba – sono già state messe in atto. È vero che queste richiedono l’esistenza di comunità già solide, ma la solidità non è un traguardo impossibile da raggiungere.
Entrambi i saggi raccontano di esperienze in nazioni diverse, in cui l’evoluzione del sistema carcerario si affianca a radici storico-culturali specifiche, ma hanno inevitabilmente molti punti e riferimenti comuni. Non è un caso che sia Purnell sia Palomba decidano di citare, in chiusura, Ursula K. Le Guin. Non una teorica quindi, ma una scrittrice di fantasy e fantascienza, conosciuta per le sue narrazioni di società utopiche, capaci di spingere l’immaginazione oltre confini in cui è stata costretta. Scrive Le Guin in Una guerra senza fine – una raccolta di appunti contenuta nella postfazione a una nuova edizione di Utopia di Tommaso Moro (in Italia uscita come primo titolo dell’editore Timeo):
Per me l’importante non è offrire una specifica speranza di miglioramento, bensì – mostrando una realtà alternativa ipotetica e plausibile – liberare la mia mente, e quindi quella dei lettori, dalla pigra e pavida abitudine a pensare che il mondo in cui viviamo sia l’unico possibile. È questa inerzia che consente alle istituzioni basate sull’ingiustizia di prosperare senza essere mai messe in discussione.” E ancora: “L’esercizio dell’immaginazione è pericoloso per chi trae profitto dallo stato attuale delle cose, perché ha il potere di mostrare che lo stato attuale delle cose non è permanente, né universale, né necessario.
L’utopia, da concetto rifiutato e invalidato – come ammesso da Derecka Purnell – diviene così un nuovo orizzonte di possibile verso cui muoversi. Parafrasando Herbert Marcuse in Saggio sulla liberazione, utopico non è più ciò che non ha “nessun posto” e né può averne, ma ciò che non accade poiché ostacolato dal potere delle società costituite.
Tutti i testi qui citati mostrano che, nonostante i territori di sperimentazione siano ancora ristretti e non possediamo manuali di istruzione, le cose si possono fare. L’utopia può davvero accadere e farsi concreta nella vita di tutti i giorni. Non possiamo aspettarci che le società cambino da un momento all’altro né che la violenza improvvisamente si esaurisca, ma possiamo immaginare nuovi mondi da vivere, e lavorare finché non ne saremo soddisfatti.
In copertina e in corpo al testo: fotografie di Letizia Battaglia
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