dobbiamo rimettere al centro i problemi sociali

Editoriale | Vogliamo tutto: letteratura, arte, musica working class, ecologica, transfemminista…

Quando leggo Alla catena di Joseph Ponthus non voglio che mi resti appiccicato l’odore di gamberetti e per questo mi dico che i versi non hanno senso, che non c’è stile. Che non c’è ritmo o un’ombra di metrica. Non sento la campanella di inizio e fine pausa, nemmeno i night shift sulla cornea e preservo la differenza tra alba e tramonto:

So che la prima occorrenza della parola gamberetto è in Rabelais 
Mi piace e si collega bene con gli effluvi gastrici della fabbrica    

Uscire dalla fabbrica il sole e il calore quando c’è    
Fumare
Rincasare
Bere
Scopare
Piangere
Ridere
Vivere la tua vita oltre i gamberetti       
Dormire          
Mettere la sveglia   
Dormire un sonno di piombo

Domani tornare ai gamberetti

Unharmed to death rays

Ma se provassi ad aggirare i layout critici, in parole diverse i filtri ideologici, capirei che l’episodicità del verso di Ponthus, questa sua libertà, sono la stessa forma interrotta di memoria dell’operaio di fabbrica, scandita dal ritmo della catena. Poi, l’organizzazione conscia e inconscia, il loro alternarsi: «Chissà quale parte di macchina integriamo inconsciamente in fabbrica».    
Così, anche:

Otto ore moltiplicate per tutta la vita  
che copre il coraggio degli eroi e di tutti i santi         
uomini intercambiabili e danzanti         
la macchina è l’anima nostra       
nel cartellino delle timbrate        
sono le date della nostra storia  
la produzione è il diario nostro   
che raspa su tutte le coperture pagliaccesche           
tutta l’anima nostra tra quattro mura rivoltanti       
dove l’Iddio del duemila crepa perpetuamente         
e perpetuamente rinasce
ogni nostro giorno per questo Iddio che è voce nostra      
il Dio che è nelle nostre mani      
il Dio fresato e saldato ogni giorno […]

Versi di Luigi Di Ruscio, metalmeccanico emigrato in Norvegia, morto nel duemiladieci (recentemente recuperato da Marcos y Marcos, nelle Poesie scelte).         
Capite: ho parlato di “filtri ideologici” perché mi allontano da questi testi per un meccanismo che sembrerebbe personale, invece è parte di una rimozione collettiva. Il crepare perpetuo della working class.

Poco tempo fa, nel giro di qualche giorno, sono usciti Melanconia di classe. Manifesto per la working class di Cynthia Cruz (Atlantide) e Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class di Alberto Prunetti (minimum fax). Due libri (molto diversi) che affrontano di petto il problema dell’assenza, nei discorsi sulla scrittura e più in generale sull’arte, della classe sociale. Del resto, ci è stato continuamente insegnato che le classi non ci sono più; che il sogno (di chi) verso una classe media generalizzata si è compiuto (di chi. Beh: di tutti, se riconosco nell’adesione, per esempio, al metodo come burocrazia in università un tentativo di essere riconosciuto). Quando, invece, il divario tra le parti si ingrossa ogni giorno, aggravato dalla crisi climatica, e la stessa classe media (propriamente detta), sta vedendosi in rinculo verso la working class. Una parentesi: la traduzione alla lettera sarebbe, con un’estensione, non a caso “classe lavoratrice” (anche se Prunetti, giustamente, problematizza).[1]       

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Disordini nel bracciale martellato

Comunque, tornando a noi: l’assenza della “classe” è una rimozione in piena regola. Il fatto è che l’egemonia culturale non ha bisogno, dice Cruz parafrasando Gramsci, di una retorica ufficiale, è sufficiente che faccia passare sé stessa come naturale. È il meccanismo, descritto molto bene da Mark Fisher, del Realismo Capitalista: non è vero che non c’è alternativa, ma è come se lo fosse.    

Per cui, fare contro-cultura: Cruz attraversa la letteratura (soprattutto di lingua inglese, ma leggiamo anche Clarice Lispector), la cinematografia (soprattutto l’esperienza paradigmatica di Barbara Loden e del suo Wanda, del 1970), quindi tanta musica (forse per la formazione fisheriana), Ian Curtis e i Joy Division, i Jam, Emy Winehouse, Chan Marshall, Mark Linkous, Jason Molina…. autori che nella loro fuga dalle origini, illusi di poter ascendere socialmente, perdono un aspetto di sé che diviene irrecuperabile. La melanconia di classe è la costatazione (conscia o inconscia) di vivere tra due mondi, senza appartenere a nessuno dei due.            
Prunetti conduce un’indagine che fa continuamente zoom in e zoom out tra panorama internazionale e panorama italiano (in ritardo). Non che fuori dall’Italia sia accolta senza tentativi di assimilazione (per Fisher, ricorda Cruz, l’assimilazione è peggio dell’omicidio), ma sembra che l’industria culturale sia scesa parzialmente a patti con l’esistenza di una scrittura della classe lavoratrice. Il libro – che rimette al centro il politico, se è in qualche modo la scrittura una messa in crisi dei significati collettivi percepiti come naturali – mi sembra un’ideale pit-stop teorico nella sua prassi di scrittura e curatela: autore di una trilogia sul lavoro, dirige la collana Working Class per l’editore Alegre dove, tra le traduzioni da David Hunter, la pubblicazione di Tea Rooms di Louisa Carnés e il recupero di Tommaso Di Ciaula, per citarne alcuni, troviamo quello che a mio parere è il miglior romanzo degli ultimi anni: Insorgiamo. Diario collettivo di una lotta operaia (e non solo), scritto dal collettivo di fabbrica GKN (sulla vicenda, noi abbiamo recentemente pubblicato un pezzo). Comincio qui il long shot: è quello che Nanni Balestrini avrebbe voluto scrivere al posto di Vogliamo tutto (uscito nel 1971 per Feltrinelli)? Giù le pistole, è solo una provocazione.  

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Totally other

La rimozione della classe avviene anche, controintuitivamente, dalla lotta dei diritti sociali. Transfemminismo ed ecologismo vengono facilmente risciacquate dallo storytelling contemporaneo e la paura, confessa Prunetti, di una «intersezionalità senza classe», è più che realistica. Ma “Fine del mese, fine del mondo: stessa lotta”, come recitano molti striscioni durante le manifestazioni, ben prima della pandemia.
Andiamo sull’audiovisivo: in alcune serie recenti la condivisione della lotta è molto chiara: The Bear, serie FX uscita in Italia su Disney+ di Christopher Storer, è un attacco radicale all’ambiente dell’alta cucina (un movimento congiunto, a quanto pare, vista l’uscita di The Menu di Mark Mylod). Bene: ma è anche una critica all’idea di successo (Carmen Berzatto, il protagonista, torna a casa dopo aver capito quanto fosse “illusoria” la sua ricerca); quindi uno first person della ristorazione. Persino una estroflessione dei pensieri intrusivi, ovvero un serissimo discorso sulla salute mentale. Atlanta di Donald Glover, sempre su Disney+ da FX, è una serie sull’ambiente del rap, anch’esso quindi una problematizzazione della “carriera” e una esposizione del lavoro com’è adesso, non come è immaginato (Earn, il protagonista, lavoro come rappresentante in aeroporto); però è un discorso anche transfemminista, una serie sulla lotta razziale (negli Stati Uniti). Il tema “manifesto”, la cucina e il rap, temi “pubblicitari” si approfondiscono sotto le istanze working class, le istanze sulla salute mentale, le istanze transfemministe.

La provocazione lasciata in sospeso. Insorgiamo è un Vogliamo tutto più riuscito perché, davvero, non è solo un’immaginazione della lotta sociale ma è lotta sociale: il collettivo di fabbrica GKN nel luglio 2021 porta avanti una vertenza contro la delocalizzazione attraverso l’assemblea permanente e l’autogestione dello stabilimento. Il libro raccoglie e rielabora niente di meno che i post e le comunicazioni sindacali: un meccanismo quasi epico a partire da una scrittura estemporanea e social (penso che se ci sarà da aggiungere un tassello alla mitologia operaia, questo debba entrarci). Ma GKN non si è fermata alla difesa, sacrosanta, dei diritti dei propri membri e alla espressione delle istanze operaie. Ha sfruttato l’entusiasmo per fare rete, per far sì che #insorgiamo divenisse il grido di ogni collettivo o individuo che non può riconoscersi, non può più vivere all’interno della violenza di sistema. È un’opera d’arte “totale” (esagero).

Esagero ancora (e do un suggerimento legale) se dico che quello che fa Ultima generazione è una delle forme di performance pubblica più brillanti? Soprattutto perché, con un attacco frontale alla lobby dei fossili e all’inermità dello stato, fa tutto: disinnesca la centralità dell’autore; disinnesca l’idea che la tradizione sia il gigante e la contemporaneità il nano (imbrattare non è altro che fare parodia, cioè controcanto, cioè far emergere le tensioni sociali); perché asseconda la degradabilità. E sono azioni collettive che funzionano come espressione, non comunicazione, come retorica a fianco a una prassi (che a volte è del tutto priva di performance artistica, e recupera la prammaticità e la teleologia della lotta, come quando hanno bloccato la partenza dei jet privati dall’Aeroporto di Linate). Lanciare farina su un’auto di Andy Warhol a Milano è tanto efficace quanto gettare vernice sulla statua di Indro Montanelli. Né Warhol (per quanto colpevole di una nobilitazione della persuasione occulta, illudendosi di criticarla) né Montanelli (per quanto ideologo del postfascismo) sono i diretti responsabili della violenza di sistema, per il collasso climatico e contro la donna. La loro decostruzione lascia spazio a una costruzione d’immaginario.

Ecco. Il punto è che la letteratura, la musica, l’arte working class non è una cosa altra rispetto alle letterature, alla musica e all’arte ecologica e transfemminista. Vogliamo tutto. Voglio dire anche che sia possibile una rinnovata idea di arte, non separata dalla realtà, non un’allegoria, non una trasformazione metaforica. Non solo: un’arte invece pragmatica, inammissibile dall’élite culturale. Ecco: la forza dei libri di Cruz e Prunetti sta nel fatto che sono, prima di tutto che libri di critica, lavoro culturale.

Penso alla quarta stagione di Boris, a come nella sceneggiatura si cerchi spesso il “fantasma”. E se nella sceneggiatura del reale – in questo susseguirsi di lotte che sempre più spesso nascono già performance, già medializzate – il “fantasma” fosse quello dei lavoratori? Il moto di una storia tutto sommato non alla sua fine? O che finisce di finire? Sia Cruz sia Prunetti citano il Manifesto del Partito Comunista: «Uno spettro si aggira…»     
Il rimosso esce dalla porta e torna dalla finestra. L’hauntologia di Fisher (e quindi il suo desiderio postcapitalista), la pedagogia di bell hooks (Da che parte stiamo è la novità del catalogo di Tamu).     
Si fa come Bianciardi, che di presto fece tardi. Meglio tardi che mai, però.


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di notte oscurava i cieli

[1] Le immagini contenute nell’articolo sono tutte di Emanuele Resce, artista che vive a Milano e utilizza materiali di scarto per generare una statuaria fuori-fuoco, qualcosa di anomalo (qui un’intervista assieme a Miriam Montani, che usa spesso il residuo della città che corre e lavorava [PM10] per realizzare degli spolveri). In una conversazione privata, mi ha ribadito più volte che la “catena”, il movimento incessante tipico del lavoro operaio, in questo momento storico, potrebbe essere estesa a moltissimi altri lavori, comprese le professionalità. Un discorso che andrebbe approfondito, forse seguendo l’intuizione di Ottiero Ottieri che si tratti, alla fine, di una costrizione “ritmica”: i tempi stretti.

In copertina: veduta di storie di altre storie, Torino, Piazza della Repubblica, 2021

[2] Una nota senza appiglio al testo. Bello l’articolo di Marco Mattei su L’Indiscreto, L’arte è di chi la esperisce. A partire da Dewey decostruisce l’idea elitaria di un’arte fuori dal tempo e dallo spazio, per qualcosa di collettivo e rituale.