Nessuno fa niente se si sente impotente
Ma è così facendo che lo rende reale
[…]
Riesco a immaginare più la fine del mondo, sì,
Che la fine della differenza sociale(Marracash, Loro)
Chiunque oggi urli giustizia sociale trova un megafono nel movimento che il Collettivo di fabbrica Gkn sta portando avanti dal 9 luglio 2021. In quella data, un’improvvisa e-mail comunicò a 422 lavoratrici e lavoratori dello stabilimento fiorentino della Gkn il loro immediato licenziamento e la chiusura della fabbrica. La procedura fu così brutale che si parlò di mattanza sociale. Questo articolo, però, non vuole tanto raccontare la vicenda, quanto piuttosto indagare il peculiare movimento sociale portato avanti dal Collettivo, un movimento che – sulle spalle dell’ideale di una società migliore guidata dalla morale umana, non economica – non ha abbracciato solo le istanze dei lavoratori, ma ha messo al centro il dualismo, caratteristico delle società umane, tra chi discrimina e chi è discriminato, tra chi sfrutta e chi è sfruttato, tra chi licenzia e chi è licenziato: in breve, il dualismo tra chi opprime e chi è oppresso. Un movimento, cioè, che si oppone alla disuguaglianza e all’ingiustizia sociale in quanto tali, quale che sia la forma che queste assumono di volta in volta. «Non venite in piazza per i nostri problemi», dice il Collettivo, ma «venite in piazza con i vostri problemi, e che la nostra vertenza apra la via a un fiume in piena di rivendicazioni»[1].
E così si sono uniti in una sola voce il movimento ambientalista, femminista, transfemminista, dei lavoratori, studentesco, pacifista, dei disoccupati e dei precari, antirazzista, per i diritti umani e tutte le altre lotte che reclamano diritti civili e sociali. L’intento del Collettivo è che questi movimenti, mobilitandosi l’uno per l’altro, si rinforzino a vicenda: solo così, amplificando la loro voce altrimenti più debole di fronte alla forte rigidità istituzionale di chi detiene il potere di discriminare e opprimere, è possibile determinare un reale cambiamento sistemico.
1.
«Buy. Improve. Sell», recita il motto di Melrose Industries, il fondo d’investimento speculativo londinese che il 9 luglio 2021 ha licenziato le 422 persone della Gkn tramite un’e-mail, con l’intenzione di spostare la produzione in un altro paese dove i costi – tra tutti, quelli dei lavoratori – fossero inferiori. Eppure, lo stabilimento fiorentino della Gkn, in attività da molti decenni, era in salute: registrava fatturati al di sopra dei 100 milioni di euro, e proprio nel primo trimestre del 2021 aveva ottenuto risultati superiori alle previsioni. Tuttavia, il semplice profitto non è abbastanza per i fondi d’investimento speculativi. Il sito web di Melrose Industries è chiarissimo a riguardo: acquistare aziende in salute (cioè, già profittevoli), aumentarne ulteriormente i risultati economici e infine rivenderle; tutto ciò in un lasso di tempo «compreso tra i 3 e i 5 anni dall’acquisto». Di conseguenza, questi fondi non hanno alcuna intenzione di sviluppare una politica aziendale a lungo termine, potendosi così disinteressare delle condizioni dei lavoratori che in poco tempo non saranno più affar loro.
Nel 2018, nel mirino di Melrose è finita la multinazionale inglese Gkn. In Inghilterra, l’allora leader nazionale del partito laburista affermò che il governo, avendone permesso l’acquisto, aveva anteposto gli interessi degli speculatori finanziari a quelli di tanti lavoratori. Nel 2021, Melrose ha deciso improvvisamente di chiudere alcuni stabilimenti Gkn, come quello italiano di Firenze. Non è che questi stabilimenti non fossero profittevoli; il problema è che non lo erano abbastanza. Il fondo, infatti, ha come unico obiettivo quello di garantire ai suoi investitori – soggetti che per investire nel fondo devono essere già milionari – dividendi molto elevati. Per celebrare i licenziamenti, i quattro principali dirigenti di Melrose hanno ricevuto un ulteriore bonus monetario motivato, citiamo testualmente, dalla «complessa sfida» che hanno dovuto affrontare licenziando le 422 persone della fabbrica fiorentina. Ciascuno di questi quattro dirigenti, singolarmente, ha guadagnato nel 2021 più di tutti i 422 lavoratori dello stabilimento fiorentino messi insieme.
Il potere dei fondi d’investimento è pressoché illimitato. Pensiamo al fondo statunitense BlackRock, che nella maggior parte delle facoltà di economia viene presentato come un eroe contemporaneo. Nel 2021 gestiva un patrimonio di 10 mila miliardi di euro, ben cinque volte il PIL dell’Italia. Tra le altre, BlackRock detiene quote di ENI: si stima che incasserà dividendi per oltre 100 milioni di euro dagli extraprofitti ottenuti paradossalmente dalla stessa ENI durante l’attuale crisi energetica ed economica. Non ci stupiamo, allora, quando scopriamo che BlackRock è uno degli investitori – rullo di tamburi – di Melrose Industries.
Come si sarà compreso, queste entità finanziarie non tengono in considerazione neppure i più basilari princìpi di etica umana, tanto da spingere David Graeber, uno dei più grandi antropologi contemporanei, a ritenerne i dirigenti «senz’altro responsabili di una quota sproporzionatamente grande del male fatto nel mondo», definendoli «soggetti che in sostanza sono solo dei bastardi egoisti e non fingono in realtà di essere altro»[2]. Il problema, come è chiaro da molto tempo, è che il potere politico dei singoli stati è interamente subordinato al potere economico dei grandi centri finanziari globali – quali le banche d’investimento, le multinazionali e i fondi. Il sociologo Ulrich Beck ha descritto questo fenomeno dequalificando la politica a “sub-politica”, ossia una specie di entità gregaria che non ha alcun potere di intervento sui processi economici globali.
2.
Il Collettivo di fabbrica Gkn tutto questo lo sa bene. Sa che in Italia le operazioni di delocalizzazione della produzione all’estero avvengono continuamente: a luglio 2022, per esempio, la stessa sorte è toccata ad altri 450 lavoratori di uno stabilimento di Trieste. È però anche ben consapevole che per opporsi alla violenza sociale che ha subìto non è sufficiente combattere “l’avvoltoio”, come il Collettivo definisce Melrose; ma, piuttosto, «è necessario cambiare i rapporti di forza […]. Ogni volta che proviamo a indicare una strada di salvezza per Gkn, ci imbattiamo in problemi strutturali del paese e del sistema. Siamo costretti a essere radicali perché sono radicali e radicati i processi che hanno chiuso la nostra fabbrica». In altri termini, ci dice il Collettivo, Melrose è prima di tutto parte di una sistema i cui rapporti di forza agevolano – anziché reprimere – ingiustizie sociali quali quella del 9 luglio 2021 e, in termini più in generali, l’oppressione, la discriminazione e lo sfruttamento di esseri umani da parte di altri esseri umani.
Lo squilibrio dei rapporti di forza è evidente se consideriamo che i singoli movimenti sociali che si oppongono alla propria forma di oppressione – come quelli femministi, degli ambientalisti e dei lavoratori – vengono solitamente declassati a espressioni di interessi della minoranza o interessi particolari. Ma ciò che impropriamente definiamo interessi particolari sono gli interessi delle donne, dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati, dei giovani, dei neri, dei poveri, degli omosessuali. Sono, detto altrimenti, gli interessi della maggior parte della popolazione. In contrapposizione agli interessi particolari sentiamo parlare di interessi generali, quelli al cui altare è consentito sacrificare ogni forma di morale umana: sono gli interessi dei centri finanziari quali le grandi multinazionali e i fondi d’investimento. In altre parole, gli interessi di pochi, pochissimi. È un’evidente contraddizione. La maggioranza reale viene ridotta a minoranza, e l’oppressione – sia essa sociale o economica, o entrambe – appare tanto invincibile da sembrare una caratteristica tipica e immodificabile della nostra società. Di fatto, abbiamo normalizzato il perpetrarsi di disuguaglianze sociali.
Secondo Noam Chomsky, la chiave per ribaltare questi illogici rapporti di forza – e quindi porre fine alle diverse forme di oppressione – è evitare la frammentazione e la polverizzazione dei singoli movimenti sociali: «ci sono migliaia di fiori che sbocciano insieme in ogni luogo: persone con interessi paralleli, magari affrontati da un diverso punto di vista, che si riconoscono però in valori e temi comuni […]. Se si vuole ottenere un cambiamento reale, è necessario che questo insieme di interessi trovi forme di integrazione, di intercomunicazione e di collaborazione tra le sue varie componenti”. Occorre, quindi, “costruire alternative che convoglino il maggior numero di interessi e finalità in un movimento […]: associazioni di persone con fini comuni, attente ad altre persone con fini simili, capaci di lavorare insieme per il cambiamento»[3]. Per farlo, è necessario capire quale sia il fine comune che può legare i diversi movimenti, così da evitarne la polverizzazione.
Il mondo ha assistito a un movimento sociale non frammentato alla fine degli anni Novanta; il pensiero di Chomsky, non a caso, ne è stato ispiratore. «Da dove uscivano tutte quelle persone così diverse, di cui a prima vista nessuno si era accorto, tutte decise a protestare nello stesso momento?», scriveva il quotidiano spagnolo El Paìs, commentando quell’enorme movimento globale in cui convergevano ideali di giustizia sociale, diritto al lavoro e questioni ambientali – sorretto dalla comune critica al capitalismo e alle disuguaglianze sociali amplificate dalla globalizzazione liberista, che calpestava senza remore ogni diritto umano. Erano gli anni delle proteste di Seattle, Praga, Nizza, Colonia; a Porto Alegre, in Brasile, si teneva il primo World Social Forum sotto lo slogan «Un altro mondo è possibile», in opposizione al «Non c’è alternativa» predicato da Thatcher per giustificare le disumane politiche neoliberiste. Il culmine della «protesta sociale che ha conquistato le strade e i mezzi d’informazione di tutto il mondo»[4], però, fu anche la sua fine. «Genova, per me, è stata un prima e un dopo», dice la giornalista Annalisa Camilli nel podcast di Internazionale dedicato al G8 del 2001: per mettere a tacere le 300 mila persone che manifestavano in quei giorni a Genova chiedendo una società incentrata sulle persone e non sul profitto, fu consumata «la più grave violazione dei diritti umani in un paese democratico avvenuta nel dopoguerra», come la definì Amnesty International. Poi, l’11 settembre 2001: le energie si focalizzarono sull’opposizione alla guerra, i movimenti tornarono a frammentarsi e, di conseguenza, la loro voce si indebolì.
Ciò che è successo dopo, soprattutto tra i giovani, lo ha descritto alla perfezione Mark Fisher in Realismo Capitalista: per la maggior parte delle persone sotto ai trent’anni l’assenza di un’alternativa etica alla società in cui viviamo «non è nemmeno più un problema» e non merita «più alcuna discussione». Fisher cita poi il filosofo francese Alan Badiou, per cui «ci viene presentato come ideale uno stato delle cose brutale e profondamente ingiusto, dove ogni esistenza viene valutata in soli termini monetari»[5]. E presentandola come ideale, la brutalità è stata normalizzata.
Di fronte a ciò, sono illuminanti le parole di Bertolt Brecht:
vi preghiamo, quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto “è naturale” in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile[6].
È proprio questo sentimento che ha mosso il Collettivo, che «non ne può più di tutta questa sofferenza e si batterà in tutti i modi perché sia questa un’occasione storica di cambiamento»[7].
3.
Per ottenere un cambiamento sistemico, come dicevamo prima, non basta opporsi a Melrose, ma occorre per prima cosa tornare a credere che effettivamente esista un’alternativa al brutale stato dei fatti, credere che – in poche parole – «Un altro mondo è possibile». E questa rinnovata speranza è possibile soltanto se a esprimerla è la forza di un movimento sociale non frammentato capace di riunire tutti quegli interessi particolari di cui parlavamo prima, che sono in realtà gli interessi della maggior parte della popolazione. Così la mobilitazione del Collettivo – al grido di “Insorgiamo”, preso in prestito dalla Resistenza partigiana fiorentina – non si è limitata alla propria vertenza, ma ha assunto contorni ben più ampi:
«inizia in Toscana una summer of love operaia che vede continue assemblee, cortei, occupazioni […]. Quella che era una fabbrica chiusa si apre alla città e ai venti, agli studenti e agli attivisti. Diventa un laboratorio di lotta, di speranza, di un’umanità disposta a prendersi cura di una società migliore, senza svenderla ai principi del profitto»[8].
Il Collettivo, allora, chiede la convergenza di tutti i movimenti sociali invocando la necessità che ognuno si «spogli del proprio particolarismo». Bisogna schierarsi contro ogni forma di disuguaglianza e ingiustizia sociale, tendendo verso «un mondo libero da povertà, disoccupazione, guerra, devastazione ambientale e patriarcato», come dice in un comunicato diffuso sui social network. «La massimizzazione del profitto sulla nostra pelle si avvale anche dell’esistenza di ruoli di genere, di identità e orientamento sessuale», fa eco un movimento LGBTQIA+ in una dichiarazione congiunta; «non si può raggiungere la giustizia climatica senza schierarsi contro la fitta rete di interessi economici ai vertici della società», continua un movimento ambientalista. E così via.
4.
«Da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile», conclude speranzosamente Fisher in Realismo Capitalista. Ecco che, vedere 422 lavoratrici e lavoratori immotivatamente licenziati manifestare insieme a 40 mila persone – ognuna portatrice sia della propria istanza di riscatto sociale, sia di quelle altrui –, non può che rappresentare un germoglio di reale cambiamento. Risuona potente l’eco delle parole che George Orwell scrisse in Omaggio alla Catalogna, l’opera che ha influenzato i suoi lavori più conosciuti, quando durante la guerra civile spagnola si arruolò volontario nelle milizie che combattevano i nazionalisti supportati dalle dittature fasciste europee:
ero arrivato in Spagna con una mezza idea di scrivere qualche articolo, ma mi sono arruolato quasi subito, perché in quell’epoca e in quell’atmosfera non mi sembrava concepibile fare altro […]. Era strano, era commovente. In tutto ciò c’era molto che non capivo, e per certi versi neppure mi piaceva, però ho compreso subito che era qualcosa per cui valeva la pena combattere[9].
Oggi vale la pena combattere con il movimento del Collettivo di fabbrica Gkn, un movimento che riunisce chi non accetta che la Terra venga devastata per permettere ai ricchi di non arretrare di un centimetro sulla propria ricchezza; chi è stanco di un sistema che sotto l’egida dell’efficienza e della produttività genera diffusamente infelicità e problemi di salute mentale; chi non sopporta che questioni di genere siano ancora motivo di discriminazione; chi non ha come scopo della propria esistenza il denaro, ma si concentra sulla reale e genuina qualità della propria vita; chi ritiene illogico che le persone rivolgano la propria indignazione verso i poveri o i migranti, anziché contro chi con un’e-mail licenzia 422 persone soltanto per ottenere bonus ancor più milionari; chi non intende calpestare altre persone per “farsi strada”, come invece la società spinge a fare in un vortice di eterna competizione; chi vuole essere educato, sin da bambino, come un essere umano e non come l’ingranaggio perfetto di aziende a cui offrire in voto la propria esistenza; chi non accetta che la dominazione degli esseri umani da parte di altri esseri umani sia un elemento intrinseco alla società.
Riunisce chi, in breve, vede la libertà altrui di autorealizzazione come parte essenziale della propria. Eccolo, a nostro avviso, il fine comune che cercavamo prima, quello che lega tutti i movimenti sociali a cui il megafono del Collettivo di fabbrica Gkn sta amplificando la voce. Perché, come scriveva Bauman, «difficilmente ci può essere bellezza senza solidarietà con gli oppressi»[10].
[1] Collettivo di fabbrica Gkn, Insorgiamo. Diario collettivo di una lotta operaia (e non solo), Roma, Alegre, 2022, pag. 51.
[2] David Graeber, Bullshit jobs, Milano, Garzanti, 2018, pagg. 34; 38.
[3] Noam Chomsky, Capire il potere, Milano, Il Saggiatore, 2017, pagg. 216-217.
[4] Gli articoli di giornale citati si trovano raccolti e tradotti in italiano nel numero speciale “Genova 2001” del settimanale Internazionale (numero 15, estate 2021).
[5] Mark Fisher, Realismo Capitalista, Roma, NERO, 2018, pagg. 31; 37.
[6] Dall’opera teatrale L’eccezione e la regola, scritta da Bertolt Brecht tra il 1929 e il 1930.
[7] Collettivo di fabbrica Gkn, Insorgiamo. Diario collettivo di una lotta operaia (e non solo), Roma, Alegre, 2022, pag. 76.
[8] Collettivo di fabbrica Gkn, Insorgiamo. Diario collettivo di una lotta operaia (e non solo), Roma, Alegre, 2022, s.n.p.
[9] George Orwell, Omaggio alla Catalogna, Milano, Bompiani, 2022, pagg. 6-8.
[10] Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999, pag. 24.
Foto in copertina di Michele Lapini.