Una lettera che apre, introduzione
Ogni anno la rivista «Versopolis» chiede a unə poetə del vecchio continente di scrivere una lettera aperta all’Europa. La lettera viene pubblicata e tradotta da diverse testate online (la versione inglese, ad esempio, si legge qui), quotidiani e riviste specialistiche. Quest’anno, grazie alla curatela di Aljaž Koprivnikar e all’interessamento di Alessandro Burbank, tra queste testate figura anche lay0ut.
L’autrice della lettera, María Xesús Pato Díaz (classe 1955, più conosciuta come Chus Pato), è una poeta galiziana molto legata alla cultura del suo popolo, anche politicamente. Il tema del viaggio / attraversamento e del travaso umano non è episodico nella sua poesia, così come l’interesse per le lingue e gli idioletti minori o minoritari. Si legge a riguardo in un testo tratto da Carne de Leviatán (Galaxia, 2013):
«na lingua das bestas
señor
nesa lingua
escribo»
Nella Lettera Aperta queste due preoccupazioni si sposano, il testo è infatti dominato da una lingua transitiva e transazionale (la lingua delle bestie, appunto), e indaga, tra le altre tematiche, la formazione d’identità in chi proviene da una stirpe di migratori, considerandola parte integrante della cultura europea.
Noi di lay0ut abbiamo deciso di tradurre e pubblicare questa testimonianza, prendendoci il rischio dell’attualismo e della retorica, per quello che ci è sembrato un motivo più che valido. La sezione Traduzioni nasce infatti con l’intento di aprirsi alla letteratura internazionale e, con un po’ di fortuna, scovare autori forti in ombra o non ancora conosciuti, e trapiantando la loro lingua nella nostra offrici un laboratorio di rinnovamento culturale.
Volevamo quindi anche noi diventare parte del rizoma dialogico, questa catena di traduzioni di un testo che riflette sulla possibilità di costruire, non dall’alto ma pezzo per pezzo, un’idea di Europa che non sia sfocata o pleonastica.
Lettera aperta all’Europa
Nel mese di agosto 2009, in perfetto orario, l’aereo su cui viaggiavo atterrava a Leopoli. Il bianco candido dell’aeroporto mi abbagliava.
Erín Moure, la poetessa canadese che un bel giorno aveva deciso di tradurre un mio libro in inglese e che da allora è diventata una delle mie migliori amiche, avrebbe voluto seppellire le ceneri di sua madre nel cimitero del suo villaggio natale, Velyki Hlibovychi. Volevo accompagnarla, e visitare anche la foce del Danubio, dove i canali del delta entrano nel Mar Nero. Il destino aveva scelto, il nome del destino era Ucraina.
Europa? Sì, anche questa è Europa. Siamo sempre in congedo dall’Europa
L’Europa è un territorio che, nella prima metà del XX secolo, ha allontanato spietatamente la sua popolazione (avanzi?) verso le Americhe. Ed è per questo che due poete residenti in continenti diversi possono incontrarsi a Leopoli. Quella che viene dal Québec e mi aspetta in aeroporto è figlia di una donna emigrata, bambina, dalla Galizia austro-ungarico/polacca – oggi Ucraina – e di un padre il cui nonno emigrò dalla Galizia in Spagna, dove vivo io. Tre dei miei nonni sono emigrati in Argentina e a Cuba, uno di loro è sepolto a Camagüey. Io ed Erín abbiamo la stessa età, siamo nate nel 1955; entrambe abbiamo ascendenti nati in una delle due Galizie. Siamo il risultato di questo andare e venire, questo attraversare e riattraversare l’Atlantico.
La distanza tra Leopoli e Velyki Hlibovychi è di circa trenta chilometri, prendiamo il treno. La città più vicina è Bibrka. Qui, poco dopo l’arrivo dei nazisti, 200 residenti ebrei furono inviati al campo di sterminio di Bełżec. Più avanti, nel 13 aprile del 1943, altri 1.300 ebrei furono uccisi sulla strada per Volove. La maggior parte degli ebrei ucraini furono uccisi in questo modo durante la Seconda guerra mondiale, gettati in fosse fuori dai loro villaggi. La maggior parte dei sostenitori galiziani della II Repubblica Spagnola furono uccisi dai falangisti di Franco nello stesso modo, fucilati e gettati in fosse vicino ai loro villaggi durante la Guerra Civile. Si tende a considerare arretrati i luoghi da cui provengono gli emigranti. Non solo economicamente: sono pensati come isolati e fuori dalla Storia. Vorrei far notare che sopportare la Storia mentre si è trattati come manodopera esportabile a basso costo è un altro modo di affrontarla. Vorrei anche aggiungere che famiglie come quelle delle nostre due poete – che si ritrovano in quella che un tempo era una capitale della Galizia austro-ungarica – hanno avuto e hanno tuttora continui contatti con le Americhe, oltre che con gli stati europei in cui negli anni Sessanta sono emigrate; in tutti questi luoghi, sono diventate parte del proletariato che ha contribuito alla ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale.
L’Europa? Sì, l’Europa brulica di popoli. Dai popoli non ci congediamo mai
Un popolo, un’umanità, è un essere che prende vita come i fiumi. Sorge e, poiché può sorgere, può anche cadere. È indistruttibile, ovvero può essere sacrificato un milione di volte, ma mai distrutto. Un popolo è indimenticabile, un essere vivente che non ha bisogno di noi come individui per esistere. Non è mai dalla parte del potere, qualunque potere sia; è dalla parte del potenziale, della possibilità, e delle risposte a questa possibilità. Non va confuso con i suoi rappresentanti o governanti, perché non è una rappresentazione, è una presenza sulla Terra.
Un popolo ha memoria di molti tipi di governi e di tutti i modi di produzione che lo hanno attraversato, ma il suo corpo li precede tutti. È una forza che rovescia qualsiasi ancient regime, e tutti i regimi sono regimi antichi. È l’azione di alzarsi, di prorompere, cantare, venire sconfitti o vincere, ma non è mai l’atto di governare. È incompatibile con il governo, qualsiasi tipo di governo.
Un popolo è un’intensità da non confondere con uno Stato, o uno Stato-nazione, o una qualsiasi suddivisione amministrativa. È un rizoma, cresce e si estende senza tener conto di alcun ostacolo burocratico. A un popolo mancano sempre i documenti. Le istituzioni, qualsiasi tipo di istituzione, non lo entusiasmano, ma conosce il loro giusto prezzo. Un’umanità è, si presenta, si rovescia, può cadere, è contemporanea, va avanti.
L’Europa? Sì, l’Europa brulica di pensiero. Dal pensiero non ci congediamo mai
La speranza sa aspettare, ma noi, persone sapiens, siamo allenati alla disperazione.
Ci disperiamo perché a volte non riusciamo a visualizzare un futuro diverso da quello attuale. Ci disperiamo perché siamo stati addestrati a credere. La fede neutralizza l’incertezza, ma non può evitare la catastrofe. Siamo abituati a vivere nella catastrofe e sappiamo solo che ci aspetta un’altra catastrofe.
Nel suo saggio From the Future to the Time to Come: The Revolution of the Virus, pubblicato per la prima volta sul quotidiano «Le Monde» [ora in: An All Too Human Virus, Polity, 2001, pp. 91-101, n.d.t.], Jean-Luc Nancy contrappone la credenza alla fede.
La fede, per lui, è quella virtù mediante la quale ammettiamo di non poter tenere sotto controllo tutto. La fede aspetta e spera perché sa che il rischio è alla base della libertà. La fede è un pensiero capace dell’unico atto che possiamo veramente compiere da vivi: rischiare di vivere. Significa aprirsi a un futuro diverso da quello della sottomissione e della catastrofe.
La fede smuove le montagne perché ci autorizza ad agire in modi che non portano all’illusione del controllo e del potere. Forse possiamo capire, da questo, che la democrazia è ciò che ci permette di entrare insieme nel futuro. Ciò che la democrazia ci offre è un modo per condividere, in una condizione di uguaglianza, il peso della finitudine e dell’ignoranza, perché tutti affrontiamo la stessa incertezza.
«È nel naufragio che ci ritroviamo», conclude Nancy.
L’Europa? Sì, l’Europa brulica di arte. Dalle immagini non ci congediamo mai
E allora sogneremo di nuovo.
Sogneremo ancora la speranza, la speranza raffigurata nell’incisione di Andrea Pisano sulle porte del Battistero di Firenze. La sogneremo nell’affresco della Cappella degli Scrovegni, dove anche Giotto dipinse la speranza, e lì la contempleremo di nuovo.
L’utopia, la speranza, ha le ali ma non le usa; tende le mani e non sa se il suo lavoro di attesa sarà un giorno coronato dal successo. Vive in questa incertezza e aspetta.
Ho accettato l’invito a scrivere questa lettera nell’agosto del 2021. A quel tempo eravamo concentrati su una pestilenza. Ora che scrivo questa lettera, alla fine della primavera del 2022, abbiamo visto il cavallo rosso della guerra emergere dal bellissimo libro dell’Apocalisse.
La prima guerra nella mia memoria è stata la Guerra dei Sei Giorni. Da bambina, ero calamitata dalle immagini dei carri armati, in bianco e nero, perché all’epoca la televisione trasmetteva così. Mi era impossibile mettere in relazione quei carri armati con i nomi dei territori che attraversavano. Quei nomi erano quelli che conoscevo grazie alla storia biblica studiata a scuola. A quell’età non avevo parole per descrivere ciò che stavo vivendo; oggi posso affermare che una delle possibili definizioni della guerra è la frattura che si verifica tra lingua e territorio. La lingua, a prescindere da quella che parliamo, viene spezzata dalla guerra e non può più essere quella di una volta. Amara è Troia, e amaro è il furore cantato dalla musa.
All’inizio di quest’anno, il 17 marzo, l’aeroporto di Leopoli è stato bombardato. Penso alle bombe al fosforo bianco, penso ai villaggi di Hostomel e Irpin, e nella mia mente si affacciano incessanti i ricordi del mio viaggio in Ucraina, nel 2009.
Uno dei momenti più emozionanti della mia vita è stato sicuramente quando sono passata per il porto di Odesa, scendendo le scale su cui Sergei Eisenstein aveva girato alcune delle immagini più indimenticabili della Corazzata Potemkin.
Da Odesa siamo partiti alla volta di Vyklove e del “chilometro zero”, dove un canale del Danubio entra nel Mar Nero. Igor, un locale di Leopoli, ci ha portate con la sua piccola barca a questa straordinaria linea di demarcazione.
Abbiamo alloggiato in via Avhhustyana Voloshyna e siamo stati felici in Ucraina, a Leopoli.
L’Europa? Sì, l’Europa brulica di imperi che vogliono unirla, tenere l’Occidente e l’Oriente sotto il loro dominio esclusivo. Siamo sempre in congedo dagli imperi, dagli scismi
Non c’è bisogno che ve lo ricordi; lo abbiamo studiato a scuola. Voglio solo proporvi un’idea – forse sciocca – e raccontarvi una storia.
L’idea sciocca è che l’Europa è duale: l’Occidente di Roma e l’Oriente di Costantinopoli/Mosca. L’Occidente è una colonia degli Stati Uniti, l’Oriente una colonia della Cina. Finché l’Occidente non riconoscerà l’Oriente e viceversa, finché le due metà del simbolo non si uniranno, l’Europa, Europa, rimarrà quella giovane donna rapita dalla lussuria di un dio antico e patriarcale.
E adesso il mito. Una giovane donna, che potrebbe essere stata la modella di Giotto, arriva in un avamposto nel deserto. Dai suoi stracci sappiamo che è una mendicante. Lì, in quel deserto, Crono le offre i suoi doni. Accanto a loro due (Utopia e Crono) c’è un uomo che ogni notte incide la sua furia su un parallelepipedo di legno. L’uomo è anziano e ha vissuto tutta la vita in un paese dove gli alberi crescono facilmente; in gioventù era un taglialegna. La casa in cui vive ha un giardino e su uno dei suoi muri ha installato un parallelepipedo di legno massiccio che ha scavato mentre disboscava le foreste. Ogni sera si dirige verso il muro e raschia il blocco di legno con tutta la sua forza. È il suo ammortizzatore. Il suo tampone. Quello che vuole veramente è sbattere la testa sul muro finché il cranio non si spacchi, per liberarsi dall’orrore della vita, nonostante sia una vita felice. Graffiare il legno notte dopo notte gli permette di controllare la sua furia e di non trasformarsi in un assassino.
I tre allargano le braccia come fa Speranza, detta anche Utopia, senza sapere se riusciranno mai a soddisfare il loro desiderio; non sanno se saranno in grado di usare le loro ali e volare felici. Il loro gesto sposterà le montagne perché sanno aspettare e sanno concepire un futuro diverso da quello che li soggioga. Hanno scelto di vivere in mezzo a coloro che rifiutano di essere annoverati tra gli assassini.
Che tutti noi possiamo vedere un’alba in cui l’Europa, Europa, non subisca i capricci di un dio patriarcale, né la gelosia della sua divina consorte.
Che mille altre primavere arrivino in questi campi che condividiamo e nelle lingue ancora oggi vituperate in cui alcuni di noi scrivono e parlano, e che amiamo intensamente.
Chus Pato (Ourense, 1955) è una delle voci più rappresentative della poesia galiziana contemporanea, autrice di undici raccolte di poesie pubblicate tra il 1991 e il 2019, fra cui Urania, (Calpurnia 1991), m-Talá (Xerais 2000), Carne de Leviatán (Galaxia 2013) e Un libre favor (Galaxia 2019). Nel 2015 la sua voce è stata inclusa nelle registrazioni della Woodberry Poetry Room di Harvard. Lavora come insegnante nella scuola secondaria.
The Open Letter to Europe is part of the ArtAct project, co-funded by the Creative Europe Programme of the European Union.
Traduzione a cura della redazione. Il testo è stato tradotto dall’inglese, e in particolare dalla versione di Erín Moure
In copertina: collage da Tutus no. 4 di Thomas Jackson
In corpo testo, nell’ordine: Glow Sticks No. 1; Tutus no. 3; Tutus no. 4 (fonte)