Snuff box: poesia e presa di parola | Interviste a Carnaroli e Giovenale

Si estrae una presa di tabacco da una scatola, generalmente di latta, la si posa sul dorso della mano o nello spazio tra i tendini alla base del pollice (la “tabacchiera anatomica”). Poi si aspira col naso. È un gesto inconsueto ormai. La narice si fa nera. Nera la saliva. È un gesto inelegante.
Come quello del/la poeta, quando prende tra le dita la materia del reale, inspira, la incorpora. Mastica.
La presa di realtà può diventare presa di parola. È uno dei gesti dell’impegno. Le interviste di questo ciclo vogliono sondare il rapporto tra poesia e impegno, le parole che lo connotano, i gesti tesi che lo caratterizzano: prendere la parola, dare voce, ma anche togliere la parola, o restituire il silenzio. 

Ciclo di interviste a cura di Massimo Palma e Sara Sermini per lay0ut magazine. A ogni autore sono state sottoposte otto domande fisse e un numero variabile di domande individuali. Il primo episodio dà in parallelo le risposte di Alessandra Carnaroli e di Marco Giovenale.


Parte prima – 8 domande fisse su impegno e presa di parola in poesia

Gesto. Prendere la parola, dare voce, togliere la parola, restituire il silenzio. C’è un gesto, tra questi, che ti sembra rappresentare la tua scrittura poetica? Oppure nessuno di questi?

Carnaroli: Dare voce. Un po’ come la madre col figlio appena nato. Lo chiama alla vita col nome, l’occhio nell’occhio come pesce all’amo. Legge sul quel corpo scoordinato di nuova bestiola ogni riflesso e tensione: hai fame? Hai qualche dolore? È dura questa cacca ad uscire. Un corpo immenso ancora senza contorno, fuso con l’altro come quei grandi palazzi fatti di camere attigue, milioni di bagni e cucine. Le pareti di carta dove tutto si sente, senti: metti in parola le grida, gli orgasmi, gerry scotti e la pentola. Alzi il volume, il tappeto dalle storie come polvere e scorie.

Giovenale: Forse nessuno. Nel senso che ognuno dei verbi coinvolti in questo elenco è il segno possibile di un’idea di poesia che “ordina” il reale, che proietta sulla distanza tra sé e il lettore non solo i parametri entro i quali il lettore dovrà (inchinandosi) ripercorrere fedele e zitto le scanalature della pagina fissata una volta per tutte dall’autore; ma anche – semplicemente – obbedire da prima e per sempre a tutte le leggi implicite, ereditate e reimposte, che quel reale “ordinato” anzi “obbligato” e “comandato” dal Dichter vende come scolpite nel bronzo. Dunque perenni. (E quel che è perenne ha un costo che non si potrà mai finire di pagare: il che rende i Poeti dei facili rentiers).

            “Prendere la parola”: la si toglie sempre, giocoforza, a qualcuno.

            “Dare voce”: spesso (non sempre: qui uno spiraglio) semplicemente si sovraincide la propria su quella altrui.

            “Togliere la parola”: non chiede commento.

            “Restituire il silenzio”: o restaurarlo, imponendolo?

Voce. Cos’è la voce dell’altrə? Un fatto acustico, sonoro? Una presenza o un’assenza? Un fantasma o una realtà fisica? E come ti rapporti con questa voce?

C: La voce dell’altro è presenza reale: è un bambino che scende le scale, sua nonna che sfiata di non disturbare, il vicino ancora vuole dormire. Sono piatti e forchette che sbattono mentre cucini, il phon che fa scintille nella camera della figlia, qualcuno dice mamma o Madonna o cosi sembra ogni volta.

G: Si tratta pressoché sempre di una voce di altri, non si stabilisce un rapporto 1:1. Una voce ha accumulato identità, idiomi, e fughe da questi; il buon lettore e ascoltatore (ovvero la premessa necessaria ma non sufficiente di uno scrittore) si allena a percepire e distinguere i timbri singoli e le tante trame sonore, i fili, che si annodano in una sola voce, che appunto non è mai sola.

            Nelle conversazioni, spesso in gruppi piccoli o grandi, mi succede spessissimo di non moderare, cioè di non voler decidere io le alternanze dei discorsi, tantomeno prendere io per primo la parola. (A tratti mi capita felicemente, anche, di non intervenire affatto).

Oggetti infami. Ci sono a tuo parere oggetti ‘esclusi’ dalla voce poetica e che, invece, per questa voce sarebbero appropriati? Ci sono oggetti infami che ‘aspettano’ questa voce?

C: Gli oggetti contundenti del mio ultimo libro sono cose quotidiane, presenze concrete e animate, cinquanta forme che abbiamo intorno, che conosciamo bene, che portano addosso la nostra pelle, le nostre cellule, le storie. Mettere in poesia bomboniere, mestoli, uno scaffale significa dare voce alla base. Costruire una piramide per il proprio gigantesco, monumentale funerale. Dare il giusto peso a quanto ogni giorno ci contorna e fa muovere. Il nostro motore di zoccoli, valvole e bustine acchiappacolore.

G: Mi riesce difficile stabilire a priori qualcosa del genere. Sicuramente c’è una cattiva poesia che fa scialo di oggetti inevitabilmente glassati di kitsch. E in modo kitsch. Inconsciamente emessi come tali da uno scrivente. Quando succede questo, oscillo nella lettura tra il sorriso e la depressione: che mi allontanano da quello che leggo; e tutto diventa più complicato, poi, chiusa la pagina.

Impegno. Una parola sulla bocca di tuttə, e non da poco: impegno. Quanto conta l’impegno nell’orizzonte della poesia? Descriveresti la tua poesia come impegnata?

C: La mia poesia più che impegno è sforzo per aderire al massimo alla superficie di quello che racconto. Proprio come cera di candela mentre casca. Buccia di baby bel che tra le mani diventa pasta: puoi farci una rosa o un dinosauro a seconda di quanto tempo passa prima che la cena finisca, la cera sfiancata si estingua.

G: Sono un mostro squilibrato: ho un piede nel Novecento e uno nel XXI secolo, e al momento il primo è ancora più pesante del secondo (trentuno anni contro ventidue), perciò mi viene facile rispondere che ogni parola scritta/detta che produciamo è giocoforza politica, così come ogni azione. Trovo però (insisto sulla parola:) kitsch e irricevibili i neocontenutismi, e quindi la parola frontalmente politica, che piglia il lettore per la nuca e lo costringe a contare i lati delle cellette dell’alveare: sì, sono sei, sono sei, lo so, basta per favore.

Colpa-debito. In origine, impegnarsi è dare un oggetto a garanzia del fatto che si ‘restituirà’ un debito. Quanto c’entra l’impegno con l’essere in debito? O, come diceva Nietzsche, con la confusione che c’è tra l’essere in debito e il sentirsi in colpa?

C:
Il mio debito, la mia colpa
Che io sia sopravvissuta
A un falso tumore
A quaranta chili dentro una scarpa trentanove
Ai panni da stendere sul balcone
A questa A nel nome
Che porta occhi cavati dalle orbite
E tubercolosi

Raccolgo disastri come funghi per dire cosa sarebbe potuto succedere altrimenti o cosa potrebbe ancora accadere. Faccio risotti come le donne per bene. Del resto Carnaroli è una garanzia di marchio, ancora una colpa.

G: Da un po’, diciamo da un bel po’, condivido il sentimento che non pochi hanno avvertito nel Novecento, cioè una specie di insofferenza (non direi affatto vergogna) verso la poesia. Verso questo continuo scadimento nel determinato, nell’“adesso te lo dico io quando e perché si va a capo”. L’Aion di Deleuze-Bene sa perfettamente che il determinato è solo traccia, ombra se non ombretto sul muro; quando “quello che” andava còlto è bell’e sparito. (“È nato e morto, e non ha avuto un nome”, secondo la tiritera montaliana).

            Con ciò voglio dire o suggerire che taluni si sentono in doppio vincolo (debito “e” colpa): verso la societas e verso la poesia. Poveretti.

            E quindi, invece di modulare l’altro e le alterità (le voci di cui sopra) di cui sono sfatti, provano a “riprodurre” tolemaicamente l’Ego loro come idioma a detta loro “individuale”, che ovviamente dà un tono alla loro riproduzione del mundus.

            E quindi non solo stanno lì e si mettono a fare la poesia (massime sui mali del mundus che più li eccitano) ma pure tentano di gridare fedeltà alla poesia che loro stessi sono a sé. Non gli basta credere di essere Eghi integerrimi, devono mostrarlo moralmente intervenendo sul vivo (che sarebbe poi il morto, la traccia), e poeticamente intervenendo – per quanto si può con la retorica ereditata – con una memorabile e idiomaticissima riproduzione (insisto sul verbo) di ciò che spesso è a malapena giornalismo.

Verità obliqua. «Di’ tutta la verità ma dilla obliqua», ha scritto Emily Dickinson. Come interpreti questo verso? Che senso ha, per te, l’aggettivo “obliquo” nel dire-il-vero in poesia?

C: Obliqua è la distanza tra me e l’altro.

G: L’Obliquo era Apollo, mi pare, e mi industrio con impegno divertitissimo a cancellare con la gomma, lingua tra i denti, tutti i nomi degli dèi da questa pagina.

            Plausibile assai anzi perfino vero è, tuttavia, che Emily aveva sragione da vendere. Dunque lo sghembo, l’indiretto, l’opaco, il disturbato/disturbante, il glitch. Ma non perché (come l’asilo dei giovani poeti spesso oggi ripete) tale sia il vezzo del Novecento; semmai perché – testi due teste che più lontane non potevano essere, come Wittgenstein e Heidegger – è proprio la linea retta a non esistere. Il lettore ancora tolemaico tuttavia aggiusta gli occhiali come può. Crede nel suo poetico oculista. E le lenti si fanno sempre più spesse, oggi, sempre più riproduttive (come della riproduzione poteva parlare Corrado Costa), feconde di repliche.

Empatia. “Soldato russo, ragazzo ungherese, non v’ammazzate dentro di me”, scrive Franco Fortini in occasione dell’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956. Parla dell’evento storico e del suo significato per la sua personale militanza in una certa cornice. Fortini mette in prospettiva l’evento presente, chiede a sé di non “empatizzare” – di non sentire l’evento e la sua violenza dentro di sé, e rivendica una distanza per esprimere un giudizio dentro la poesia. Pensi sia una strategia condivisibile? Ce ne sono altre?

C: Quando scrivo avviene un processo inverso. Le cose devono passarmi attraverso per cancellare qualsiasi giudizio, fare un buco grosso come nelle bambole dove manca il disco con il pianto e gli altri versi, diventare parole per descrivere piante, persone, animali, supermercati, stazioni metro. Senza dare o togliere valore. Dire per quello che sono, attra-versare

G: Proviamo a ripetere quella stringa oggi sostituendo “ungherese” con “ucraino”. Se non ne scappa su un soprassalto fra sorriso e depressione (cfr. supra, punto 3) io credo che abbiamo troppo alcol in corpo, o troppo Ego, più facilmente. (Troppo Moi lacaniano, intendo; senza confusioni col Je).

            Quella che mi viene sempre in mente è l’esortazione “facci su la poesia, coraggio”. E sempre in mente purtroppo mi corrono le tante poesie che in effetti gli italiani scrivono in questi giorni di battaglia. Per favore, per favore, smettetela, basta per favore.

Margini. La poesia riveste un ruolo “eccentrico” rispetto al mercato editoriale e alla letteratura, di cui è riferimento necessario, ma spesso marginalizzato. Si può dire che la vera ‘potenza’ della poesia sia – parafrasando una riflessione di bell hooks – stare nel margine, ovvero in uno spazio di possibilità e di radicale apertura? E raccogliere, in questo spazio, le voci di sottofondo, inaudite?

C: Il margine è la panchina della bambina che non gioca, l’orlo della manica che si ritira, il piede nella sabbia dove l’onda arriva, la ringhiera continua.

Un incrocio raso con la vita dove si parte e ci si ferma, si negano precedenze, passano ambulanze, la vecchia chiede un braccio, porge la busta dell’eurospin troppo pesante: il piccolo lascia per un attimo la mano della mamma, qualcuno urla.

G: Mi sembra corretto, non per un’azione meccanico-magica della parola “margini”, in assoluto, ma perché mi pare l’acqua novecentesca in cui è impossibile tutt’ora non navigare. “Spazio di possibilità”, “apertura” (mica però al giornalismo, occhio), e “voci” al plurale: mi piacciono.

            Detto questo mi garba però pure aggiungere con una certa veemenza spero non troppo buffa che sì, alcuni margini hanno dello strutturale, dell’inaggirabile, e del novecentesco, e sono io il primo con mille altri a conclamar ciò; ok; ma allo stesso tempo taluni margini evitabili sono disposti e imposti da gente con nome e cognome.

            La distribuzione libraria e i sedicenti grandi marchi che hanno sgangherato e putrefatto il mercato del libro negli ultimi trent’anni circa, per esempio, di margini ne hanno creati tanti.

            Determinati direttori di collane (che furono decenni fa apparentemente o realmente prestigiose), che da quasi metà della loro carceratissima vita stampano solo poesia disneyana cardioriparatrice, beh, di margini, buchi e crateri ne hanno lasciati parecchi.

            È la biologia, per quanto corrigenda, magari. Ossia: come mammiferi, noi àntropi dobbiamo renderci conto di essere un epifenomeno dei topi. Sono i topi che comandano sul pianeta, quantitativamente e (almeno in editoria, ormai) pure qualitativamente.

Parte seconda – domande individuali su poesia e presa di parola

Domande ad Alessandra Carnaroli

di seguito, tutte le domande rivolte specificatamente ad Alessandra Carnaroli

“Scrivo di quello che tocco”. È il primo verso di in una poesia pubblicata in rete (post Instagram del 27 aprile 2022). Come ricomponi la realtà sulla pagina? Come e quando interviene il disegno nel processo di scrittura?

Carnaroli: Mentre scrivo c’è qualcosa che risuona, immagine o parola, un gancio che tira verso la mia storia, la storia di chi è venuto prima. I versi sono piccoli ponti che uniscono il passato a quello che ho intorno, descrizioni brevi, qualche rima in fondo. L’illustrazione nasce dopo, completa, mostra il verso che non ho potuto aggiungere, a volte stona o tuona.

Nel commento allo stesso post scrivi: “il piacere /di essere poetessa minore”. Cos’è per te la minorità? Cosa significa essere-minore?

Essere minore è la condizione per stare il più vicino possibile alla terra, alla carne, al bambino che si smoccica, a una mensola.

Minorata di qualcosa, essere mancanza quindi sempre senza, mai sazia, in cerca, che annusa, una tensione continua tipo calamita.

Da quando è iniziata la guerra in Ucraina hai iniziato a tenere una specie di diario illustrato e in versi su Instagram. Quanto influiscono i social sulla forma della tua poesia?

I social sono il mezzo perfetto per descrivere il momento, la sua immediatezza, lo stare qui e ora davanti a tuttə. Trasforma persone e storie in oggetto per sempre, bomboniera di te stesso e dell’altro sulla credenza del mondo.

L’ultimo “oggetto contundente” del tuo ultimo libro inizia con “diranno che è stato il solito albanese”. La poesia finisce con “così bravi a non farsi vedere/ a farsi trovare pronti / con il coltello / nella mia mano”. Una delle tue ‘fonti’ è certamente la cronaca, il pregiudizio, il rumore di fondo. Quali tecniche di straniamento prediligi?

Copiare dalla cronaca è un gesto che riposiziona la poesia nella storia, in un presente distorto da commenti, like, pregiudizi, opinioni sparse.

È sempre l’altro che dice, che diventa parte del discorso, sono le sue parole crude che si mettono in riga come pesci sul bancone, come pezzi di carne migliore: io taglio e dico signora, poi avvolgo nella carta di giornale anche se fa venire il tumore.

Domande a Marco Giovenale

di seguito, tutte le domande rivolte specificatamente a Marco Giovenale.

Nella nota (il ‘post-it’) a Shelter (Donzelli 2010, p. 115) avvertivi che “il troppo-pieno del senso della dichiarazione, della situazione netta spiegata descritta stagliata, è eroso fin dalle prime parole che questa pronuncia”. Come riuscire a non far coincidere l’interesse per il reale, il mostrare che ne siamo intessuti (“ingabbiati e protetti”, insieme) con dichiarazioni, manifestazioni d’intenti, con dei sensi troppo ‘pieni’ insomma?

Giovenale: Beh, io ci ho provato con Shelter, appunto. Sempre in poesia, di fatto. Poi ho pensato che una certa serie di dispositivi malfunzionanti in prosa, invece, e di momenti sintattici perfino felici, potessero fare “meglio” (e, anche, limitare una qualche mia ingenuità). Di qui la scrittura (cronologicamente però sempre presente in combutta o in battaglia con quella in “versi”: almeno dal 2004) prevalentemente in prosa. O: prosa in prosa.

            Non voglio dare ricette di cucina versale perché non ce ne sono, ma di certo quel che Costa diceva nella Sadisfazione letteraria (1976) contro la “riproduzione” direi che sfiora la natura di assioma. 

In un tuo scritto uscito nel 2020 per Opera viva (https://operavivamagazine.org/6070-2/) affermavi che “un’idea aperta (e aperta all’ombra) della scrittura comporta una fiducia nell’energia e nell’iniziativa interpretativa del lettore. Una apertura di credito verso il leggente. Questa apertura è politica”. Quali strategie – semiotiche, ‘tecniche’, mediali – ha la voce poetica per tenere aperta l’ombra?

Toglierei dal campo l’idea di strategia, di tecnica, di mezzi. E preferirei usare “voce” senza l’aggettivo “poetica”: perché penso sia non di poco momento la capacità di “tenere aperta l’ombra” a prescindere dalla natura (o dal genere) del testo.

            Daccapo non ci sono ricette, ma magari itinerari sì. O cunicoli o stanze di echi, non eghi, per ambientarsi o riambientarsi nel reale (linguistico). Passano tutti per la lettura-ascolto bulimico di centinaia di voci; per un qualche (direi perfino:) “riconoscimento” del fatto che sono voci che già ci costituivano (a volte: ci sostituivano).

            Quindi: non solo versi, anzi.

            C’è poi il sacrosanto sospetto nei confronti di quel che si scrive. Sempre domandarsi: ma in questo ambiente semiotico, infine, questa roba che ho scritto ha il peso del mio profilo e dei miei tic intenzionanti? Continua, così, a prendere per imbecille il lettore?

            Bisogna sempre immaginare che a leggerci sia – che so – uno come Giuliano Mesa, o Emilio Villa, o Amelia Rosselli. Non i birimbi birambi delle Grandi Collane di Pesìa Italiana che troviamo in scaffale da Mondanelli. Quelli digeriscono tutto, non sono interlocutori di livello, non vanno bene.

 «Esattezza, poi / testarda, senza oggetti / nei colori solo millimetrati: / i detriti, il tetro / puro dei dati». In questi tuoi versi tratti da Delle osservazioni, l’“esattezza” si fa ritmo, battuto, calibrato, quasi fosse il ritmo dell’“ultimo compratore”, che appare al secondo verso, il ritmo del suo abitare una “proprietà”. Il ritmo è un fatto politico?

Mi sono, soprattutto negli ultimi anni, poderosissimamente disinteressato del ritmo. E di faccende troppo scopertamente fonosemantiche. Oh quantro il tuo fòno è semantico, Giovenale! Ecco: non lo (non mi) sopporto più.

            Però sì, inevitabilmente, secondo una prassi che ha avuto esempi mica da ridere anche in anni non lontani (daccapo citerei Mesa), il ritmo può essere “politico”, o diventare un vettore che indirizza verso una lettura politicamente orientata di qualcosa. Magari a rischio di ricadere in un certo Modernismo, di farne daccapo, di bel nuovo, perfino dignitoso. Perfino (mesianamente) necessario. Ma se non si sottopone anche questo ritmo al dubbio che le migliaia di voci che ci circondano e ci abitano lo percepiscano flebile, non si completa il lavoro.

            Non è detto che il dubbio sia giusto. Ma più in generale dubitare sì, mi parrebbe giusto, in fondo.


Alessandra Carnaroli (1979) ha pubblicato: una silloge in 1° non singolo (sette poeti italiani) con una nota di A. Nove (Oèdipus, 2006), Taglio intimo (Fara editore, 2001), Femminimondo, con una nota di T.Ottonieri (Polimata, 2011), Elsamatta, collana «Syn. Scritture di ricerca» diretta da Marco Giovenale (ikonaLíber, 2015), Primine, con una nota di A. Cortellessa (edizioni del verri, 2017) Ex-voto, collana croma K diretta da I. Schiavone (Oèdipus, 2017), Sespersa, con una nota di H. Janeczek (Vydia editore, 2018), In caso di smarrimento / riportare a, con prefazione di Silvia De March, (Il Canneto editore, 2019), Poesie con Katana (Miraggi Edizioni 2019). 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti (Einaudi 2021) è la sua pubblicazione più recente.

Marco Giovenale ha fondato ed è redattore di gammm.org (online dal 2006). Tra i libri di poesia: La casa esposta (Le Lettere), Storia dei minuti (Transeuropa), Shelter (Donzelli), Maniera nera (Aragno), Strettoie (Arcipelago Itaca), Delle osservazioni (Blonk). Tra le prose, Quasi tutti (Miraggi), la gente non sa cosa si perde (Tic), Il cotone (Zacinto/Biblion). È presente in Parola plurale (Sossella) e Nono quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos). Con i redattori di gammm è nel libro collettivo Prosa in prosa (Le Lettere). Per Sossella ha curato una raccolta antologica di Roberto Roversi. Per La camera verde ha tradotto Billy the kid, di Jack Spicer. Il suo sito è slowforward.net


Le foto in copertina e prima della seconda parte sono tratte dal film Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri con protagonista Gian Maria Volonté.

Massimo Palma ha pubblicato Berlino Zoo Station (Cooper 2012), Happy Diaz (2015, Castelvecchi 2021), Nico e le maree (Castelvecchi 2019). Con Movimento e stasi (Industria & Letteratura 2021) ha vinto il Premio Fortini per la poesia. 

Ha scritto i saggi I tuoi occhi come pietre. Trauma e memoria in W.G. Sebald, Paul Celan, Charlotte Salomon e Foto di gruppo con servo e signore (Castelvecchi 2020 e 2017). Ha curato opere di Max Weber (Economia e società, Donzelli 2003-2018), Walter Benjamin (Senza scopo finaleEsperienza e povertà, Castelvecchi 2017 e 2018), Georges Bataille (Piccole ricapitolazioni comiche, Aragno 2015), Georg Heym (Umbra vitae, Castelvecchi 2020), Fredric Jameson (Dossier Benjamin, Treccani 2022).

Sara Sermini lavora come ricercatrice all’Université Paris Nanterre. Ha dedicato una monografia alla figura e all’opera di Amelia Rosselli: «E se paesani /zoppicanti sono questi versi». Povertà e follia nell’opera di Amelia Rosselli (Olschki, 2019). È autrice di una raccolta di poesie intitolata Diritto all’oblio, in parte pubblicata nel Quindicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2021).


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