Infiltrazioni è una rubrica multimediale basata sull’accostamento e la comparazione fra opere di arte visiva e letteraria curata per lay0ut da Martina Santurri e Dimitri Milleri. L’idea nasce dal concetto di integrazione multimodale, proveniente delle nuove scienze cognitive e dell’embodied cognition, secondo cui la compresenza di stimoli senso-motori di dominio diverso (vista + udito, per esempio) neuronalmente non equivale alla somma degli stessi. Era già uscito un numero di questa rubrica, e lo trovate qui.
In copertina e in corpo testo: foto di Angela Del Favero. Testi: quattro poesie da Diorama (Edizioni Tlon 2021) di Laura Di Corcia.
Un diorama di forme
Diorama (Edizioni Tlon 2021) è l’ultimo libro di poesia di Laura Di Corcia. Al di là della di quella specificazione, di poesia, che denota sempre meno, il libro è affine a una serie di opere che potremmo azzardare appartengano a una “nuova poesia assertiva”, ancora tutta da identificare (qualche appunto qui).
Globalmente, questo genere di libri è caratterizzato da una moltiplicazione dei parlanti, dal ricorso ai personaggi, da un ampliamento tematico rispetto al canone novecentesco, dalla rottura con il confessionale e l’autonarrativo (ossia con la coincidenza finzionale fra io autore e io che parla nei testi), dalla tendenza poli-mediale e a-generica pur all’interno dell’armamentario letterario, e infine dal rifiuto della raccolta come contenitore indifferente al contenuto.
Guardando la definizione che dà mamma Treccani online del termine diorama leggiamo tre significati principali. 1) Uno specifico spettacolo che nel XIX secolo si poteva ammirare dentro a una cupola 2) un paesaggio artificiale convenientemente colorato e illuminato che, attraverso lenti e luci, dia l’impressione di realtà 3) «visione panoramica, quadro complessivo». In ognuna di queste accezioni è chiaro che il tema dello sguardo ampio spazialmente – ma anche temporalmente – è questione fondamentale. Seguendo e continuando questa metafora di apertura diacronica, possiamo senz’altro parlare del progetto muffaffum, dal nome della pagina Instagram che lo ospita, come di un diorama sull’evolvere della materia organica durante il suo processo di decomposizione.
Il progetto e la struttura
Il titolo ci soccorre, orientandoci in un libro che non radica la propria identità tanto nella forma o nello stile, ma nella metafora che vuole agire, nel suo progetto operativo. “Un diorama” sarebbe appunto una buona risposta alla domanda “che cosa ha cercato di realizzare Di Corcia?” – un diorama nel senso sia di una visione prospettica della storia umana e del suo svolgersi a fianco di quella naturale, sia in quello di una compresenza di tempi e luoghi incastonati in una miniatura.
Strutturalmente, l’Opera è divisa in quattro sezioni. Dopo Diorama, in cui un solo testo senza titolo dichiara l’intento di rappresentare una piccola e parziale storia del cosmo, troviamo La catastrofe è già passata, i cui si mescolano rappresentazioni fanta-medievali (Salem, 1692), testi legati al report di viaggio (Meride, 2015; Chiasso, 2015; Kobane, 2019) e in generale ai temi del nomadismo e dello sradicamento (Partire dimenticare il vuoto) e dell’incontro con l’altro (Lugano, Scuola professionale). Poi la sezione in prosa, Trincea, composta di favole mitico-sapienziali di cui dirò più avanti e infine Terzo paesaggio, sezione dedicata ai temi dell’essere e della proliferazione della vita (Chissà se davvero gli iris esistevano; Un elastico si espande), e della sopravvivenza (La catastrofe è già passata; I giorni della catastrofe).
Quando iniziò la scrittura era tutto parallelo. Indistinto si muoveva tutto piallato. /
Il sasso era il sasso. Il vento il vento. /
Non c'era niente di predeterminato.
Poi è arrivata la storia a prendere ai fianchi l'epoca bianca /
la piramide /
e tutte le bocche a penzolare dal vertice.
Tu non era più io /
noi era il pronome più vigliacco.
Ora è solo la lingua /
a dire che il re è nudo /
che siamo tutti nudi /
tutti.
muffaffum porta avanti una visione prospettica su un tema preciso, lo capiamo appena guardiamo la griglia del profilo, che appare all’occhio come una galleria di muffe in serie, appoggiate su sfondi pastello colorati.
Cosa è la muffa? Un nome generico dato al micelio che certi funghi formano sulla superficie di organismi vegetali o animali e delle più svariate sostanze organiche in decomposizione, su cui vivono da saprofiti (ovvero consumando la materia inanimata) o da parassiti, presentando un pallido colore bianchiccio o verdognolo.
Come molti materiali inusuali, anche la muffa ha una storia che la lega all’arte. L’uso artistico contemporaneo della muffa inizia già con Alberto Burri, tra i primi artisti italiani a interessarsi della materia come medium espressivo e a dare avvio al periodo dell’arte informale – un movimento che si oppone alla dominazione della forma (figurativa, solida, astratta che fosse) fino ad allora perpetrata nella storia dell’arte. La lente dell’informale ci permette di guardare all’opera d’arte come qualcosa di evolutivo, casuale, ed è alla base delle correnti che negli anni Sessanta hanno dato vita a un’idea artistica in cui il processo acquisisce più rilevanza del risultato finale. Ecco, se di ruolo dell’artista nel progetto di Angela si può parlare, allora possiamo sicuramente dire che quest’ultimo passa da essere quello attivo di modellatore a quello passivo di osservatore, che prende nota, attende, e infine fotografa.
Lingua gentile
La postura linguistica adottata nei confronti delle vicende trattate in Diorama è più empatica che critica, come suggeriscono l’andamento ipotattico, fedele a un parlato comune e restio agli ejambement, la prosodia non di rado cantilenante, l’utilizzo frequente di rime al mezzo ed esposte. Queste ultime sono spesso facili, baciate, desinenziali (piallato / predeterminato; impieghiamo / rinneghiamo; rarefazione / decisione ), di rado rare (pudenda / ammenda). Più in generale, lo sguardo dominante è nostalgico rispetto a una condizione originaria di ingenuità, che si vorrebbe difendere ad ogni costo («Poi è arrivata la storia a prendere ai fianchi l’epoca bianca/ […] Tu non era più io / noi era il pronome più vigliacco», Quando iniziò la scrittura…).
Spesso le prose prendono l’andamento del mito favolesco (come in Metamorfosi, o in Due bambini, una riscrittura di Hänsel e Gretel), con occasionali scivolamenti gnomici. C’è una presenza massiccia di bambini e ragazzi, sia come personaggi sia come punti di vista e modalità percettive, spesso rappresentati nel loro archetipico emblema di purezza, nel tentativo di tirarsi fuori dai rapporti di forza o di negarli («ho sbagliato a non lasciare che il cielo si vendicasse da solo […] lasciatemi vivere questa innocenza tremenda», I mercanti).
muffaffum è lasciarsi affascinare dallo scorrere del tempo e da quello che non è controllabile. La fotocamera è come un occhio umano che sor-veglia insieme il decadimento e la proliferazione. Non interviene ma guarda, passivo, con fascinazione, lo scorrere del tempo sulla materia. La foto è anche testimonianza, «riciclo tutto con un bel JPEG» recita la bio di Angela. Un istante fotografico che racchiude un processo temporale di settimane (mesi?). Quello di muffaffum è uno sguardo dicotomico che solleva continuamente opposizioni: brutto/bello, vita/morte, organico/inorganico.
Metamorfosi
Mia nonna stava nell’altra stanza. Stesa. Era dura come sono duri i cadaveri. Non potevo disfarmene, era troppo pesante. Ho atteso giorni, lei non puzzava mai. Poi è arrivato il giorno benedetto, quello santo, e ho chiuso una porta.
Lei stava di là, ferma. Come qualcosa di cui vergognarsi per sempre, da recintare dietro una cortina. Non gli dissi niente di mia nonna mentre mi prendeva nel grande letto bianco, tutto bianco, di lenzuola bianche. Mia nonna era sempre lì, stesa, e io sfilavo le perle. Lui è venuto e mia nonna ha mosso il primo piede.
Sono sempre stata viva, ha detto, bisbigliando parole che strisciavano sotto la porta e arrivavano nella mia stanza. Ero viva, ma non potevo parlare. Poi, sempre sdraiata, ha mosso il primo piede, trasformandosi in un delirio cubista.
Io guardavo mia nonna e la sua metamorfosi burattina, e non sapevo se continuare a guardare lei o scendere giù in cantina, andare a rovistare nei sacchi delle patate.
Archetipi e figure
Nel teatro del libro, per la sproporzione fra l’aspirazione cosmologica e gli spazi disponibili, la figure-personaggio e gli archetipi sono necessariamente stilizzati. Se questo implica a volte una semplificazione («Il medioevo è nei boschi, la Grecia nelle rette parallele», Piccioni e vetro), altre volte queste figure si fanno porose e complesse proprio attraverso il loro entrare in crisi nel testo, come in Salem, 1692, dove le dicotomie uomo-donna e Sud-Nord vengono disinnescate e contaminate.
I testi spesso si coagulano in serie narrative portate avanti per scene staccate e fermi immagine (come appunto nella serie medievale), e si affidano a volte a una figuralità oscura, non del tutto traducibile in immagini. Considero meglio riusciti i testi in cui le vicende e i personaggi sono meno partecipate, più indipendenti da uno sguardo umano, come in Costruivano chiese…, e quelli giocati su una modalità rappresentativa più allucinatoria, meno facilmente contestualizzabile: «Pensa al serpente. Non essere troppo simbolica. Pensa sempre all’autunno, alle foglie che cadono» (Autunno). Qui l’umanità dello sguardo si dirada in realtà per rinnovarsi: la pietas, passato il vaglio della distanza, trova una propria muta “meno nota”, permettendoci di vedere nuovamente l’uomo e il mondo come parte di uno stesso evento di nessuno.
Costruivano chiese
dove rintanarsi come ghiri
poi si vedevano nelle piazze
suturavano il tempo
mentre i piedi senza saperlo
andavano verso Ovest.
Faremo grande questa città
dicevano
sapendo di tradire qualcosa.
Chi è l’agente? Credo che quando l’umanità dello sguardo si dirada in realtà si rinnovi, passando dal vaglio dell’indifferenza, e davvero permetta di vedere l’uomo e il mondo come parte di uno stesso evento di nessuno.
Fuori tema: per l’espansione di Diorama
Con Diorama, Di Corcia si è avventurata nei campi del patico e dell’apertamente sentimentale, assumendosi i rischi che le zone calde dell’enunciazione comportano e, complessivamente, vincendo la sua scommessa. A volte, il desiderio di ingenuità avrebbe forse trovato un’espressione meno centrifuga se fosse stato bilanciato da una maggiore frontalità nei confronti di sé e del mondo. L’immaginario sognante e pulviscolare sembra infatti squarciarsi solo al fine di ricomporsi nel testo stesso, senza entrare davvero in crisi.
Se è vero che «l’eterotrofia presuppone la messa a morte di altri viventi come dimensione naturale e necessaria di ogni essere vivente» (Emanuele Coccia, La vita delle piante, Il Mulino 2018), gli aspetti più oscuri di questa consapevolezza potevano trovare più spazio, anche nell’ottica di un ampliamento dialettico di questo piccolo mondo che è Diorama. La polarizzazione che in alcune occasioni l’Opera farebbe intuire fra colpevoli e vittime è un “abbassamento della definizione”: per quanto una vittima subisca, infatti, difficilmente è passiva, e il suo ruolo può essere indagato.
Chissà se davvero gli iris esistevano
in qualche modo
(non loro, quasi loro)
gli iris che vivono con poco
al tempo dei dinosauri e dei rettili
chissà se tutto non era calcificato
il melograno, questo odoroso
modo di dire guardami
ci sono esisto
io che protendo non braccia non mani
ma dita
fossili lunghi estesi sul mondo.
Laura Di Corcia vive nella Svizzera italiana, dove lavora come insegnante e collabora con varie testate giornalistiche e radiofoniche in qualità di critica letteraria e teatrale, nonché di drammaturga. È inoltre responsabile del programma in italiano delle Giornate letterarie di Soletta. Ha pubblicato la raccolta di poesie Diorama (Tlon, 2021), In tutte le direzioni (LietoColle, collana Gialla-Pordenone Legge, 2018); Epica dello spreco (Milano, Dot.com Press Poesia); la biografia critica Vita quasi vera di Giancarlo Majorino (Milano, La Vita Felice, 2014; serie Sguardi). Con l’ultima raccolta, Diorama, ha vinto il premio Terranova della Fondazione svizzera Schiller.
Angela Del Favero (classe 1995) nasce a Lozzo di Cadore (BL), consegue il diploma di
grafica d’arte presso l’Accademia di Brera e successivamente si iscrive al corso di
decorazione presso l’Accademia di Venezia. Attualmente vive a Lisbona.
Opera attraverso il mezzo della fotografia e della scrittura. La sua ricerca indaga aspetti
della quotidianità privata e pubblica, mantenendo un occhio attento al ciclo della vita/morte e
della condivisione dello spazio.
Nota critica (paragrafi relativi ai testi): Dimitri Milleri
Nota critica (paragrafi relativi alle opere pittoriche e al confronto con quelle testuali): Martina Santurri