Il 19 marzo si terrà alla Casa Della Poesia di Roma (via Giulio Rocco n.22) il secondo incontro della rassegna Intersezioni (qui l’articolo sul primo incontro e sul progetto), curata dall’associazione Zeugma. Strutturato – al pari degli altri appuntamenti – come dialogo tra due voci della poesia contemporanea italiana, il prossimo incontro riguarderà l’opera di Sonia Caporossi e quella di Dimitri Milleri. Proponiamo qui un profilo critico dei due artisti, che ne evidenzia punti di contatto e distanze.
Dimitri Milleri: macchina automatica con anima
La scrittura di Milleri assomiglia a una macchina automatica. Ha una costruzione solida e ben calcolata, indice – anche – della formazione musicale dell’autore. I versi si sviluppano in strutture foniche e sillabiche precise, seguono sintassi controllate, per quanto a volte appaiano diradati, sulla pagina, e comunichino anche a livello visivo. Ciò è particolarmente vero per Sistemi (Interno Poesia, 2020), che fin dal titolo annuncia un interesse verso la moltitudine organizzata, la complessità (e Complessi è del resto il titolo di una delle sezioni). In Sistemi, insomma, la rispondenza tra immaginazione e costruzione ritmico-sonora si concretizza in una poesia-impalcatura, ordinata sul piano del significante e tesa a verificare una logica, un meccanismo, su quello del significato:
Le ragnatele d’acqua levate a mezz’aria dalle auto in superstrada inghiottono luce. I catadiottri e i fari si deformano senza disuguaglianze, il GPS disegna un lungo parassita azzurro: là, nella testa cerchiata, lui già raduna il suono in mezzo ai tendini.
Quando parliamo di macchina automatica intendiamo dunque una certa postura, o forse una certa conduzione: il testo è un’architettura che si espande («Tutto è sbocciato dolcemente / come una scena provata da tempo») e trova in se stesso la ragione della propria geometria. Non intendiamo, invece, che la poesia di Milleri escluda l’uomo: l’efficacia di Sistemi sta anzi proprio nel portare questa impostazione che cede poco all’iperbole (anche «Quando si abita il panico, lo sgomento, / nulla può essere pensato né agito») a interrogare la dimensione umana, le relazioni tra gli individui e il mondo e tra gli individui fra loro. Così troviamo poesie che indagano, anche, il paesaggio familiare («madre», «padre»), ma poi la casa verbale che le mette in scena è una casa della coesistenza: la presenza degli oggetti ha la stessa rilevanza di quella degli umani, interviene nei loro fatti e, magari, li condiziona («Si fanno oggetti le persone in lui: / se ne circonda e le maneggia / senza conoscerle / come fa con il computer / o la TV»).
La produzione inedita dell’autore, di cui si avrà un assaggio a Intersezioni, sembra insistere su questa strada, alleggerendo, però, il carico lessicale e le trame foniche. In Sistemi trovavamo del resto anche formule dotte o specialistiche («gasteropodi», «quid», «illimpidiscono», «ipermnesia», «endocarpo»…) che negli inediti paiono riassorbite. Compaiono inoltre innesti in prosa e dialoghi (a portare più sottotraccia il lavoro sonoro e ritmico) e lo scenario sembra sottolineare maggiormente il contesto tecnologico («le mani sui cellulari come topi incollati»), messo in dialogo con la possibilità ultima della vita, e cioè la morte. Scoprire quali scenari di immaginazione, quale tipo di esperienza vorrà contenere e innescare la nuova poesia di Milleri sarà uno degli aspetti più interessanti da seguire.
Sonia Caporossi: la traccia del dolore
La trilogia dei Taccuini di Sonia Caporossi, al contrario, prevede un plurilinguismo particolarmente spinto e – come si capisce già dal titolo – un’idea di poesia come traccia. In questi libri, cioè, l’evento della scrittura coincide con il trasferimento di alcuni spazi del reale nella dimensione del linguaggio (quindi, in quanto poesia, del metaforico e del ritmico) e del reale conserva perciò la sua precarietà, la sua frammentarietà, il suo svolgimento anche incontrollato.
Gli elementi in comune tra Taccuino dell’urlo (Marco Saya, 2020), Taccuino della madre (Edizioni Progetto Cultura, 2021) e Taccuino della cura (Terra d’Ulivi, 2021) sono dunque essenzialmente due: da una parte l’indagine di una sfera del dolore (e, soprattutto, del dolore determinato dalla relazione con l’Altro, non ultimo – pensando a Rimbaud – l’Altro che è in noi), dall’altra una certa spontaneità della scrittura, il suo tentativo di aderenza immediata al fatto, che comporta eterogeneità di registro, lessico e stile, nonché tendenza all’eccesso (in termini sia di accumulo di materiali diversi, sia di estensione del testo). Il linguaggio ultra-filosofico e citazionista caporossiano risulta dunque più genuino di quanto non sembri: è un linguaggio-bagaglio e un linguaggio-ragione già formato; il soggetto vive in quel linguaggio e lo usa per interpretare la realtà, e di conseguenza quando assume la scrittura come strumento di interrogazione di un evento o rapporto non può che farlo attraverso quel magma citazionale, senza sgrassarlo. Che non significa trasandatezza, ma al contrario accettazione del flusso composito del linguaggio.
Proprio per questo motivi, i pezzi della trilogia possono essere individuati anche nella loro specificità. C’è distinzione innanzitutto tematica. L’Urlo si concentra su una relazione amorosa, una tensione irrisolta («e non era stato mai / così prossimo / alla meta della perdita»); la Madre sul rapporto ambiguo col genitore, che scompare parallelamente al comparire, nel soggetto, di un misto tra impotenza, sofferenza e distacco («desideravo alle mie spalle soltanto le carezze / che priva d’interesse mia madre non mi dava»); la Cura esplora l’incontro-scontro del sé col sé, una frattura che si allarga nel tempo e coinvolge tanto il corpo quanto la scrittura («quando il nome sulla carta / non risponde al proprio volto sullo specchio»). Sul piano dello stile, poi, il terzo Taccuino risponde al primo per accumulo di materiali e caos verbo-visivo (tipicamente caporossiani sono l’uso insistito della parentesi graffa e quello dei doppi due punti) ma ne estremizza le tendenze elefantiache (quello della Cura è il Taccuino con i testi più lunghi e compositi), mentre il libro di mezzo si staglia come perla asciutta e levigata, fase attonita, meditativa.
Conclusioni
Insomma, la trilogia di Caporossi costruisce un viaggio in cui la scrittura è messa a contatto con l’ustione del dolore, è sfidata nella sua capacità di reagente. E se per Milleri la poesia è misura, cassa di risonanza che plasma l’esperienza che ospita in base alle indicazioni del liutaio, allora per Caporossi apre un ventaglio, sfida se stessa collocandosi a metà tra l’ingombro del corpo e la metapoesia:
∞
noi {poeti] villeggianti di opinioni fatichiamo a riconoscerci per strada riversiamo versi stanchi sulla tavola imbandita della nostra vilipesa {umanità} mentre feroci crocicchi di pensieri avversari si scontrano e si incontrano nelle pagine interiori col {taccuino} scoperchiato sul lavabo come adesso mentre lei si specchia, respira, si domanda di sé e scrive
Sonia Caporossi (Tivoli, 1973) è musicista, poetessa, prosatrice, critica letteraria e saggista. Ha pubblicato numerosi libri. Tra gli ultimi ricordiamo il saggio critico Le nostre (de)posizioni. Pesi e contrappesi nella poesia contemporanea emiliano-romagnola, con E. Campi, Bonanno, Acireale 2020; la curatela su G. Leopardi, L’infinita solitudine. Antologia ragionata delle poesie, Marco Saya 2020; la raccolta di monologhi filosofici Opus Metamorphicum, A&B Editrice 2021; la trilogia poetica Taccuino dell’urlo, Marco Saya 2020, finalista al Premio Montano 2020; Taccuino della madre, Progetto Cultura 2021; Taccuino della cura, Terra d’Ulivi 2021. Dirige per Marco Saya Edizioni la collana di classici italiani e stranieri La Costante Di Fidia. Collabora con Poesia Del Nostro Tempo, Versante Ripido, Bibbia d’Asfalto e col festival Bologna In Lettere.
Dimitri Milleri (Bibbiena, 1995) è studente magistrale di chitarra classica presso il conservatorio di Vicenza. Direttore editoriale di lay0ut magazine, si occupa di letteratura, musica e arti multimediali. Come poeta ha pubblicato Sistemi (Interno Poesia 2020), ed è incluso in varie antologie, tra cui Abitare la parola (Atelier 2020, a c. di Giovanni Ibello ed Eleonora Rimolo) e Poeti italiani degli anni ’80 e ’90 (vol. 1) (Interno Poesia 2019, a c. di Giulia Martini). Ha collaborato con riviste online tra cui Poesia del nostro Tempo, Il Tascabile di Treccani, Il loggione letterario.
In copertina: Laura McPhee.